Quando il tufo metterà le ali_Roberto Linzalone
_“C’è ancora quella strada a Matera?” – Via Ridola? – “Sì, via Ridola!” – Ancora per poco… Lo sa, maestro, da noi tutte le mode arrivano in ritardo, i cappotti, le droghe, e anche lo sventramento urbanistico è appena approdato a Matera. – Un sogghigno e poi uno sguardo nel vuoto. Nel dicembre del 1976 Libero de Libero, Mino Maccari ed io stavamo godendo del sottile fascino di tufo che emana via Ridola. Uno sguardo da Piazza Pascoli, la stanza all’aperto sbilanciata su una solenne scultura di roccia dalla mai sopita tensione emotiva. I Sassi, naturalmente, colpirono i due già vecchi amici. Una “lezione” potente, irresistibile. Ma dei Sassi Mino Maccari nei nostri frequenti incontri non ha più parlato.
Una domanda ricorreva ogni volta nel suo studio: “Esiste ancora quella via… bella, bella! Dove c’è quel Palazzo in fondo, con gli alberi e poi c’è il vostro pittore… Guerricchio, già, Guerricchio, e c’è il Museo, perbacco, interessante e poi quel balcone sui Sassi. I Sassi di Matera. Come si chiamano?” – Caveoso e Barisano. – “Cave cave cave canem… Caveoso. Da dove deriva? E poi ha detto Barisano. Bari Bari Beri! Beri Bari Baricentro. Bari Bari Barisano. Bello questo” – parlava disegnando – “sembra Carlo Levi”.
Lo sa che Morandi, uomo geniale, un’umanità di bottiglie, sì, aveva creato un’umanità di bottiglie, facendo ingresso nella sala dove Carlo Levi teneva una delle sue prime mostre personali, esclamò: “Levi tutto”. Il popolo italiano è un popolo poco religioso, ha sempre bisogno di deificare, di mitizzare, come ora Carlo Levi da voi, lei stesso lo sa, diventa un simulacro da venerare.
Sta scrivendo, caro Linzalone? E allora, le pubblichiamo queste novelle? Con Pananti, a Firenze. Ci mettiamo due disegnini, uno a capo e uno a coda”. Intanto, toccava sempre a me il compito di “deludere” il maestro. Perché invece di sfornare libri, ogni volta mi presentavo nella sua villa del Cinquale con magliette, manifesti, cartoline, calendari, che Maccari, sotto un mio sorriso disegnato sulle labbra, osservava con attenzione per poi esclamare: “Lei è pazzo!” Poi taceva assorto. E di colpo: “Quest’uomo è folle, carabinieri! Fatelo arrestare”. Dandomi di lì a poco il braccio, usciva dal retro della villa avvolta in una cupa malinconia. “Caro Linzalone, io la seguo sempre con attenzione…” Qualche passo in silenzio, poi: “Che fate?” – “Siamo in estinzione!”-.
Il cane, vecchio, a volte ci seguiva nel cammino fra i pini e i cespugli nell’ombra del giardino. A ogni incontro dovevo rispondere delle ultime mie “fesserie” e della realtà che fra dissenso e scherzo cercavo di combattere. Un conforto migliore non avrei potuto trovare. Valigie, treni e tante attese erano il minimo prezzo, nulla di fronte al sapore che aveva un solo incontro con Maccari. E vederci era in tutto un rituale. La sua prima premura al mio arrivo era questa: “Solo? E allora, Galleni, gli procuri una donna”. E aggiungeva: “Ha mangiato? Sa, noi vecchi qua mangiamo cosucce, brodaglie, pessime cose per anziani, ma lei, stasera, vada in qualche posticino carino con una bella ragazza. Galleni, mi raccomando, provveda lei per il nostro poeta”.
Mai sentito parlare di prostitute. Erano “donnine”, quelle figure alate che come tante “Nike” aleggiavano nello studio silente sotto la tacita minaccia delle Apuane. Di tanti grandi artisti, viventi o andati, che gli nominavo nel calmo intrattenimento, con un gesto di disgusto sottolineava: «Pederasta! Cosa vuole, un pederasta!». E in effetti, a leggere le pagine dense di sapore dell’“Almanacco Purgativo” del 1914 (opera dei lacerbiani Soffici e Papini), simili affermazioni trovano continue conferme. Era partito per il fronte con quel libro nello zaino; in ogni momento della Grande Guerra si sentì protetto da quel salvacondotto esistenziale. Era il Vangelo del ghigno beffardo, dell’antiretorica, dell’infrazione, una sequela di motti, frasi e capitoli gli facevano da schermo fra le luminarie della guerra. Gli almanacchi, i calendari. Senza volerlo sono entrato in quel suo “mondo”, due calendari gli ho dedicato per due suoi compleanni.
Sentire parlare di Matera da Maccari era per me il giusto punto di fusione della mia “provincia” con un’accezione “non provinciale”. E parlava bene di Giuseppe De Robertis, letterato, accennava al figlio, Domenico; di Antonio Loperfido, geodeta, di Eustachio Lamanna, autore di saggi filosofici, e si stupiva: “Materani, tutti materani”. Firenze, quella Firenze che, una volta ancora, nel Novecento era stata “internazionale”, mi faceva provare l’orgoglio di essere legata a filo doppio, più familiare e accogliente che mai, a Matera, di identificarsi in qualche modo con il luogo che da “buon selvaggio”, come a Maccari per scherzo mi presentavo, non avevo voluto abbandonare. E potevo grazie a un uomo che era parte ancora “viva” della storia umana, sociale e artistica del nostro secolo dialogare con Aldo Palazzeschi, Dino Campana, Giovanni Papini, Ardengo Soffici e Ottone Rosai.
Il maestro mi chiese ancora di quella strada. Via Ridola, o via Guerridola, se così si può chiamare. Di Maccari in quell’aria sottilmente imbevuta di tufo rimarrà un “pensiero”, e forse un giorno davvero vedremo volare “un tufo con le ali”, un’immagine che per uomini di “paese”, bettole e trattorie, valeva più di un leggero aquilone.