Quanta voglia di studiare
di Raffaele Masto
Qualche anno fa, nel Sud del Sudan, in uno sperduto villaggio del Southern Blue Nile trovai un gruppo di adolescenti sotto un albero con un apparecchio radio a onde corte sintonizzato sulla BBC e quaderni e libri consunti, probabilmente usati da generazioni, religiosamente appoggiati in ordine su una pietra. Stavano studiando e si erano presi una pausa per seguir il notiziario.
Quella scena mi è restata impressa nella mente perché era la dimostrazione di quanto, per gli africani, la conoscenza, l’informazione, l’istruzione siano un bene prezioso e spesso inaccessibile, riconosciuto tale proprio perché in Africa, ma non solo, è un bene scarso.
Non è così in molte altre parti del mondo, dove i livelli di benessere sono sensibilmente più alti di quelli del Sud Sudan e, di conseguenza, anche l’istruzione è un bene più accessibile ma, di questi tempi, sempre più sotto attacco.
Eppure non è necessario essere degli economisti o degli esperti di dinamiche sociali e politiche, a livello locale e/o internazionale, per capire che l’istruzione, a qualunque latitudine, p un formidabile fattore di crescita e uguaglianza.
L’istruzione generalizzata, resa accessibile dalle vecchie politiche dello stato sociale, ha contribuito in modo determinante, nel dopoguerra, allo sviluppo europeo, dunque alla crescita. Allo stesso tempo ha permesso, attraverso un meccanismo di giustizia, di offrire una chance a ogni bambino, a ogni studioso consentendo in questo modo al sistema di essere egualitario e al tempo stesso di non perdere risorse, cioè lo ha reso maggiormente efficace ed efficiente.
Gli africani, o meglio la società civile di questo continente, dimostrano in ogni occasione di avere introiettato questa storia e di interpretare questa legge economica (più istruzione = più sviluppo) come uno dei mezzi grazie al quale ci si può affrancare dalla miseria e si può elevare il livello di benessere della popolazione.
Sono innumerevoli le storie o le constatazioni che dimostrano quanto in Africa i giovani vogliano studiare. Le scuole in molti villaggi sono commoventi: le classi raggiungono numeri di sessanta-settanta allievi e i bambini, spesso, condividono in tre lo stesso banco, senza litigare. E molti di loro si sono portati lo sgabello da casa per sedersi. Le lezioni si svolgono in un religioso silenzio. Non ci sono libri e i quaderni sono preziosi. Se li si guarda bene si può vedere che i ragazzi cominciano a scrivere nell’angolo in alto a sinistra, senza lasciare margini né in alto né di lato e inoltre scrivono più piccolo che possono. La si potrebbe scambiare per una mancanza estetica e invece è un modo per far durare più a lungo il quaderno e risparmiare la preziosa carta.
Peccato che, a fronte di questa radicata consapevolezza degli africani sul valore dell’istruzione, il mondo sembri andare nella direzione opposta. Non solo in Africa, dove le èlite politiche sono attratte dal mito occidentale della crescita fine a se stessa e le società sono oppresse da un livello di corruzione spesso impressionante che blocca la distribuzione della ricchezza.
Nei paesi cosiddetti sviluppati, del resto, non va meglio. Il pensiero unico nell’economia produce politiche improntate a un monetarismo integralista con l’obiettivo principale di ottenere una crescita anche attraverso tagli drastici della spesa pubblica e dunque perfino all’istruzione.
Il risultato più evidente è che la crisi economica e il modo di affrontarla stanno neutralizzando gli effetti positivi che un maggiore accesso all’istruzione potrebbe produrre sia nei paesi ricchi che in quelli poveri.
I tagli all’istruzione o i mancati investimenti in questo strategico settore sono il frutto delle decisioni di politici incapaci di avere una visione lungimirante. Sia nei paesi sviluppati dell’Europa e del Nord America che in quelli di Africa, Asia e America Latina i politici che attaccano la scuola hanno come unico scopo quello di rimanere in carica per il prossimo mandato. Insomma antepongono un meschino interesse personale a un obiettivo strategico futuro che è proprio – quest’ultimo – degli statisti e non dei politicanti.
Anche sul piano internazionale non sembra esserci nessun investimento a favore di un’istruzione generalizzata come strumento strategico per perseguire lo sviluppo. Anzi le agenzie delle Nazioni Unite preposte a questo compito, comprese quelle economiche che elargiscono aiuti e finanziamenti ai paesi poveri, si muovono in modo contraddittorio. Spesso progetti di assistenza allo sviluppo che prevedono lo stanziamento di ingenti somme economiche vengono condizionati al multipartitismo, all’espletamento di elezioni, in una parola alla democrazia. Ma anche questo rischia di essere un comportamento contraddittorio: la democrazia non si realizza e non si consolida se il popolo non è educato al dibattito, se non ha dei fondamenti di educazione civica e di storia. Insomma, non ci può essere democrazia se non ci sono scuole e se la cultura non diventa una priorità della politica.
Questo comportamento contraddittorio verso i paesi poveri da parte dei paesi a democrazia consolidata e sviluppo avanzato è probabilmente il frutto di una degenerazione avvenuta all’interno di questi ultimi, soprattutto nell’ultimo decennio.
L’economia in questi paesi è divenuta una sorta di scienza feticcio alla quale tutto viene subordinato. Determinante è lo spread, ma non il divario culturale che oggi ci separa, per esempio, dai livelli raggiunti qualche decennio fa quando la scuola era diffusa, era più gratuita di oggi ed era preponderante quella pubblica, più egualitaria e democratica.
Un divario culturale, quello che oggi impera in molti paesi europei, che rischia di essere un vero e proprio baratro nei confronti di società civili di alcuni paesi africani. E che fa pensare che in paesi come l’Italia sarebbe oggi indispensabile un personaggio come fu, negli anni sessanta, Don Dilani, che seppe comprendere fino in fondo e diffondere la forza rivoluzionaria di una scuola accessibile a tutti come motore di sviluppo, di democrazia e di egualitarismo.