I racconti del Premio letterario Energheia

Quarto comandamento_Marco Cornelio, Ivrea(TO)

_Racconto finalista diciottesima edizione Premio Energheia 2012.

 

 

Il sole sopra l’orizzonte filtrava i suoi raggi tra le foglie degli antichi alberi, brillando su un rigagnolo di acqua che scorreva lungo il sentiero.

Il profumo dei mandorli in fiore era straziante, quasi troppo dolce.

Quel gilet da cacciatore, con mille taschini ed i rinforzi impunturati sulle spalle, lo faceva sudare come una fontana. Ma il vecchio non riusciva a farne a meno, neanche in piena estate.

Era come una seconda pelle.

Dalla fondina in cuoio sotto l’ascella spuntava l’impugnatura satinata dell’inseparabile beretta semiautomatica. Si sentiva più sicuro risalire il sentiero tra i boschi, in compagnia di quel ferrovecchio.

Arrivò alla sommità della collina che era quasi sfinito, si piegò sulle ginocchia, respirava con fatica, e per un lungo attimo gli sembrò che il cuore avesse smesso di marciargli nel petto.

La ragazza era già lì, ad aspettarlo, appoggiata al tronco di un frondoso faggio. Aveva occhi di un blu esagerato e capelli biondi, tagliati cortissimi. Un paio di piercing spuntavano sotto un labbro voluminoso e screpolato.

Gli sguardi s’incrociarono e corse un istante di silenzio.

«Finalmente sei arrivato! M’ero già stufata di aspettarti», disse la ragazza guardando l’orologio.

«E’ tutta colpa di questo caldo… sono quasi sfinito» replicò l’uomo con una voce impastata, come se avesse ingoiato un pugno di gesso.

«E’inutile che ti lagni», rintuzzò lei. «Sono io che dovrei essere incazzata! Farmi scarpinare fin quassù è da fuori di testa».

Lo chiamavano “il podere della contessa”, appena sopra l’abitato di Donato Lace, ed era un grande pianoro, circondato da faggeti e abetaie che profumavano di resine. Dalla strada, a piedi, ci si arrivava in mezz’ora, e non era una gran fatica.

Ma l’andare fin lassù, perché l’aveva deciso il vecchio, le rugava proprio.

«Bah, questa storia di farmi venire fin quassù non riesco proprio a capirla… Comunque, dammi ‘sti soldi che ho solo voglia di andarmene. Ho già perso troppo tempo per questa baggianata», aggiunse la ragazza con una smorfia delle labbra.

L’uomo, sfilata dal taschino una busta gliel’allungò sotto il naso. «Tieni, ma questi sono gli ultimi».

«Gli ultimi? Ma non diciamo cazzate. Lo sai quali sono gli accordi, e quanti me ne devi ancora… O no?»

«Sì, lo so… questo lo so, ma al posto dei soldi ci sarà dell’altro… per questo ti ho fatto venire fin quassù».

«Uffa, che palle!», sbuffò lei, «Ancora con ‘sta storia di farmi venire in questo posto da lupi… Cos’è, hai per caso trovato il tesoro della contessa? Tanto non ci credo…».

E invece a Donato Lace e dintorni, in molti c’avevano creduto alla storia di quel tesoro.

Girava voce che quella ricca nobildonna (la contessa appunto), avesse nascosto in qualche anfratto di quel suo podere un’ingente quantità di denaro derivato da operazioni finanziarie poco chiare. Negli ultimi anni di vita, ormai sbroccata da una devastante demenza senile, l’aristocratica signora aveva rivelato in modo confuso e approssimato il nascondiglio di quella fortuna, tanto che ancora oggi, soprattutto per la gente del posto, la sorte di quei denari rimane un mistero.

Il vecchio sollevò un braccio, e agitando le mani che sembravano due pale per la pizza, fece segno di seguirlo.

La ragazza sembrava irretita da quell’ordine, ma lo seguì.

Camminarono per alcuni minuti, poi il vecchio si fermò di fronte ad un alto muro a secco in pietra, che sosteneva un terrazzamento di piante aromatiche. Sradicò alcuni rovi che nascondevano il basamento del muro. Erba e muschio sbucavano tra gli interstizi delle pietre.

Dal tascone del pantalone tirò fuori un piccolo scalpello; la ragazza aggrottò le sopracciglia e tirò su di naso, guardava sospettosa.

L’uomo incuneò quell’arnese tra due pietre, prima sotto, poi sopra. Quei conci presto si sfilarono, alzando un alone di polvere e terriccio.

La ragazza si era avvicinata per guardare meglio.

L’uomo, infilato il braccio dentro quella cavità, tirò fuori una piccola cassetta.          Sembrava un involucro di metallo, di colore scuro, il coperchio era sigillato con un lucchetto arrugginito.

«Ma allora esiste davvero sto’ tesoro della contessa!» esclamò stupita la ragazza. «E io che pensavo fosse solo una storia inventata… Su, su, apri quella scatola».

Le narici di quel suo nasino sembravano già assaporare il profumo di quattrini.

«Calma, calma. E’ inutile che ti agiti. Qui non c’è il tesoro che pensi tu», replicò il vecchio. «Però potrebbe diventarlo un tesoro… potrebbe proprio», aggiunse con un’espressione

carica di mistero.

Il viso della ragazza cominciava ad imbronciarsi. «Senti eh, non sono certo venuta fin quassù per giocare agli indovinelli… Spero solo che lì dentro ci sia qualcosa di valore. Non m’interessa se soldi, oro, o… buoni postali, l’importante ce ne sia abbastanza per darmi quello che mi spetta… Certo che se però hai trovato il tesoro, ti è andata proprio di lusso, eh».

L’uomo rimase in silenzio e posata la cassetta a terra tirò su da un altro di quegli inesauribili taschini del suo gilet una chiavetta, sbloccò il lucchetto e sollevò il coperchio della scatola.

La ragazza abbassò lo sguardo, e a quel punto l’impressione di sentirsi presa in giro fu totale: altro che gingilli o mazzette di banconote. Sul fondo della cassetta c’era solo un mucchietto di polvere grigiastra, sembrava cenere.

Com’è possibile? Non ha nessun senso… pensò.

«Ma vaffanculo va, te e il tuo fottuto di tesoro. Ne ho abbastanza di queste stronzate. Adesso te la sistemo io quella robaccia lì», e girandosi di scatto con un calcio, cercò di colpire la cassetta di metallo.

«Noo, nooo, fermati! Cosa fai!», urlò l’uomo, lanciandosi con tutte e due le mani sul coperchio della scatola.

«Uhhh, perche ti agiti così tanto. E’solo della fottutissima cenere!» strillò la ragazza.

«No, no… non è così. Qui dentro ci sono le ceneri di Lucia… tua madre».

La ragazza trasalì, come se avesse ricevuto un cazzotto in pieno stomaco, deglutì, e fissò il vecchio con occhi sbalorditi.

Lui si tirò indietro di qualche passo e richiuse l’involucro.

«Adesso ti spiego, ti spiego tutto… Questa cosa l’ho sentita alla radio, in una trasmissione dove si parlava di morti. Chiamò una signora che voleva far cremare il cadavere di suo padre che era seppellito nel cimitero del paese. La cosa mi ha incuriosito e così ho ascoltato tutta la storia… E alla fine sai perché quella signora voleva far cremare suo padre? Perché aveva saputo che c’era la possibilità di ricavare diamanti dalle ceneri di un defunto…»

Gli occhi della ragazza strabuzzarono. «Diamanti dalla cenere? Ma cosa cavolo stai dicendo».

«Sì, proprio così. Quella tipa era venuta a sapere che in Svizzera c’è una azienda che riesce a ottenere diamanti estraendo il carbonio che si trova nelle ceneri dei morti», l’uomo chinò il viso, un velo di sudore gli copriva la fronte. «Ma alla fine ha spiegato che non era riuscita a farci nulla perchè la legge vieta di cremare le persone già sepolte. C’era da immaginarselo: se uno è già seppellito col cacchio che lo cremi… Però sta cosa di ricavare diamanti dalle ceneri m’intrigava. C’ho pensato un po’ su e ho preso qualche informazione… Si poteva anche fare… Allora ne ho parlato con uno che di morti se ne intende, un ex dipendente di un’impresa funebre, e quello ha accettato la mia proposta. Così una sera siamo rimasti nel cimitero e appena si è fatto buio abbiamo smurato il loculo, abbiamo trascinato fuori…»

«Bastaaa! Basta così. Non voglio sentire altro», sbraitò la ragazza. «Tu sei pazzo da legare! Le ceneri, i diamanti, la Svizzera… Mia madre non meritava questo».

«Ma piantala lì. Di tua madre non ti è mai fregato niente… Non c’eri nemmeno al suo funerale», grugnì il vecchio. «Ma poi cosa pretendi, eh! Proprio tu, sempre lì a chiedermi soldi per i tuoi fottuti debiti… E’ proprio per sistemare questi tuoi guai che la storia delle ceneri m’era sembrata una buona soluzione. Si va be’, è una cosa un po’tragica, ma il lavoro sporco l’ho fatto io. Tu devi solo prendere queste ceneri e andare in Svizzera, all’indirizzo che ti darò. Quelli fanno la lavorazione, e te ti porti a casa i diamanti… Ti rendi conto che è un occasione unica? Allora, hai capito, ci vai?».

La risposta arrivò violenta come un uragano sui Caraibi.

«Riporterò le ceneri al cimitero… Ecco cosa farò!».

L’uomo trasalì, i suoi occhi erano diventati due solchi iniettati d’odio.

«Riportare le ceneri al cimitero? Ma ti sei bevuta il cervello! Così scoprirebbero tutto. E per me sarebbero solo guai».

«Non me ne impippa un accidente dei tuoi guai. Dovevi pensarci prima. E ti denuncerò pure, stanne certo». La rabbia le aveva gonfiato le guance come una mongolfiera; agguantò con uno scatto fulmineo la cassetta con le ceneri e corse via.

«Ma che diavolo fai… fermati. Livia non fare cazzate!», gridò l’uomo.

Ma la ragazza s’era ormai fiondata giù per il sentiero.

Doveva inseguirla, fermarla, non aveva alternative. Se quella figliastra avesse parlato le cose per lui si sarebbero maledettamente complicate.

Prese a correre, ma l’artrite gli urlava ogni due passi. Si fermò, e infilata la mano nella fondina sotto l’ascella sentì il manico ruvido della pistola.

Non voglio colpirla, solo spaventarla quella sanguisuga, solo un po’ di strizza… così mollerà la cassetta.

Fece scorrere la sicura automatica sul percussore, puntò verso l’alto e urlando il nome della ragazza sparò un primo colpo, poi un secondo. Con un salto superò un terrazzamento ma non si accorse della pozza d’acqua davanti a lui e ci finì dentro a gambe giunte. Sentì la terra sparirgli sotto i piedi, perse l’equilibrio e ruzzolò giù per alcuni metri, rigido come un manichino, finendo dritto su un ramo che si piegò sotto il peso del suo corpo e poi, con un colpo secco, si spezzò lacerandogli il gilet e scorticandogli il fianco. Nel capitombolo, dalla rivoltella priva di sicura partì un altro colpo. Un inferno di dolore gli scoppiò nel torace e sentì il sapore salato del sangue risalirgli su per la gola. Provò a rialzarsi, ma appena mosse la testa fu sopraffatto dal male; era come se gli avessero infilato una lama tra la clavicola e il collo.

Al sentire il boato di quei colpi, Livia rabbrividì.

Sentiva il cuore scoppiarle in gola per la fatica della corsa.

Doveva fermarsi, prendere un po’ di fiato. La milza le mordeva il fianco.

Rallentò la corsa e si girò indietro: nessuno scendeva dal sentiero.

Si fermò.

Uhhh, com’è che quel vecchio bavoso non spara più? Voleva solo spaventarmi?… A meno che, dopo tutto ‘sto galoppare, non gli sia preso un coccolone.

Scrollò la testa.

Naa, l’erba cattiva non muore mai… magari è solo caduto, si sarà fraccato un po’… Beh, gli starebbe solo bene a quel vecchio rimbambito!

Ma la voce della consapevolezza le sussurrava dell’altro.

E se al vecchio fosse davvero successo qualcosa di grave?

Lo sai vero che fine fanno i tuoi soldi se quello schiatta?

Livia lo sapeva, eccome se lo sapeva: poteva dire addio a quelle prebende.      Doveva quindi tornare su, per forza.

Per sicurezza decise di aspettare ancora un po’. Il pensiero che il vecchio potesse ancora spuntare dal sentiero e farle la festa le martellava le tempie.

Ma ormai aveva deciso di ascoltare la voce consapevole.

Camminò per alcuni minuti e arrivò dove il vecchio aveva esaurito la sua corsa.      Per lo spavento il cuore le finì tra le tonsille.

L’uomo era riverso su un fianco, gli occhi spalancati, la bocca sporca di sangue.

S’avvicinò, e vide che il vecchio non respirava più.

L’erba cattiva era morta. Mortissima.

Capì che la situazione si stava maledettamente complicando.

Calma, devo stare calma.

Guardò il corpo inerme di quel suo odiato patrigno. E lo odiava ancora di più, adesso che aveva fatto tutto quel bel casino ed era pure schiattato.

Da vivo qualcosa almeno mi rendeva, adesso invece? Più nulla. Finirà a marcire due spanne sotto terra! si disse.

Poi un pensiero tanto rapido quanto inquietante, le attraversò la mente.

Forse qualcosa si può ancora fare…

Ridiscese il sentiero e arrivò al piano, si accese una sigaretta, soffiò un po’ di fumo e attraversò la strada.

La statale, a quell’ora, sotto il sole soffocante, era una lunga e immacolata striscia bianca.

Si ricordava che in fondo al marciapiede che costeggiava la strada, vicino ad un vespasiano lercio e puzzolente, ne avevano lasciata ancora una.

Era l’unica cabina telefonica del paese e sapeva perfettamente che, chiamando da lì, l’anonimato era garantito. S’infilò in quella gabbia arroventata e schiacciò nervosamente uno dei numeri d’emergenza.

Sentiva il cuore sussultare, come una porta sui cardini.

Calma, prendi fiato, puoi farcela.

«Pronto polizia? Voglio solo avvertirvi che nella collina sopra Donato Lace… su nel sentiero, quello che porta nel bosco… il bosco della contessa, così lo chiamano… c’è… c’è il cadavere di un uomo… Fate presto». Click.

E’ fatta. E adesso via da qui.

Lo ritrovarono nel tardo pomeriggio.

«Attilio Zaffi; classe 1939, pensionato. C’ha la stessa età di mio padre», commentò l’agente in divisa, leggendo le generalità del morto.

«Sembra una ferita d’arma da fuoco all’altezza del fianco. Poveraccio, questo sarà morto dissanguato. Schiodato nel giro di pochi minuti. Non avrà nemmeno avuto il tempo di chiedere aiuto» aggiunse l’altro graduato, un tipo secco e grifagno, osservando il corpo esanime di Attilio Zaffi.

Proseguirono poi con i rilievi di rito, arrivò la scientifica e diedero corso agli accertamenti medico-legali.

Le indagini, alla fine, stabilirono che si trattò di una morte accidentale. Dopo l’autopsia, disposta dal magistrato, il caso venne chiuso e il corpo fu riconsegnato a Livia per le esequie.

Non aspettava altro la ragazza.

L’attesa al Monumentale non era stata eccessivamente lunga.

«Ecco signora, questa è l’urna con le ceneri di suo padre. Può anche conservarle in casa, ma a condizione che l’urna rimanga chiusa» spiegò l’addetto a Livia, un tipo alto e magro che assomigliava ad un giocatore di basket uscito da Auschwitz.

«Se invece vuole, può anche disperdere le ceneri in natura. Più avanti c’è il giardino dei ricordi. Un luogo pensato per offrire il giusto valore al rito della dispersione. Passando lungo il viale si arriva fino alla conca cineraria: lì avviene la dispersione. Sull’altro lato del viale c’è anche un muro di travertino dove si può incidere il nome del defunto».

Livia prese l’urna, la osservò. Era in legno color noce e con un disegno floreale sul coperchio.

«E’ molto interessante quello che mi ha spiegato, ma ho deciso che porterò le ceneri con me… Questo era anche il desiderio di mio padre». Ringraziò l’addetto e attraversata la sala del commiato uscì.

Fuori, raffiche di vento disordinate, come se si dessero spintoni, facevano svolazzare i nastri sui cofani di rose e crisantemi sistemati sopra le bare, in fila per l’ultimo rosolo.

Che tristezza, pensò Livia. Si fece il segno della croce e passò oltre quella mesta passerella.

Il sole era quasi sopra l’orizzonte, e i lampioni disegnavano i primi cerchi gialli sull’asfalto.

Attraversò la strada e s’infilò in un bar. Ingollò un caffè, e quasi subito le tornò il buon umore.

Pensava a domani, al viaggio, e già l’adrenalina le eccitava il cuore.

Pioveva a Milano. La pioggia veniva giù continua e implacabile.

Livia scese dal taxi e corse, a testa bassa, verso l’entrata della stazione. Scese le lunghe scale mobili e arrivò nella grande galleria centrale, di fronte alle ampie e luminose arcate in vetro-acciaio dei binari.

Trascinava un goffo trolley in tela color lavanda. Avrebbe preferito un comodo zaino a tracolla, ma per certa mercanzia era più adatto quel bagaglio insospettabile.

Il frastuono e le voci distorte degli altoparlanti annunciavano ritardi e cambiamenti di binario per i treni in arrivo e in partenza.

Seguì la linea gialla a terra e si avvicinò al grande tabellone con le destinazioni e gli orari. Guardò l’orologio: c’era ancora il tempo per tirare un po’ di fumo. Sollevò il trolley color lavanda e s’incamminò verso la lunga banchina ferroviaria.

Il suo treno, quello per la Svizzera, sarebbe partito dal binario 22.