Reportage di Valerio Mastandrea sulla prostituzione lungo la litoranea salernitana
Sulla litoranea da Salerno a Paestum giovani rumene si dividono la strada con le nigeriane. Sotto il controllo di sfruttatori e «fidanzati». Ma qualcuna è riuscita a sfuggire
Il mestiere più antico del mondo non conosce la Grande Recessione. Lungo la Pontina dei Tom Joad di casa nostra, ai margini della pineta che costeggia la Domiziana dove i Garabombo africani ogni mattina si affacciano alla ricerca di lavoro, sulla strade della periferia romana e napoletana, il mercato del sesso outdoor, quello che si svolge alla luce del sole o sotto le stelle e non al riparo di un appartamento o di una camera d’albergo, è in piena attività. È la prostituzione di basso bordo, formato discount, da pochi euro a prestazione e un timing limitato, come si trattasse di lavoratrici di un qualsiasi call center.
Ai margini della provinciale 167 che costeggia il mare a sud di Salerno le amministrazioni comunali, caso più unico che raro, sono riuscite ad accordarsi per realizzare una pista ciclabile che si allunga fino alla foce del fiume Sele. È utilizzata quasi solo dai lavoratori maghrebini che si spostano tra i bar e i quadrivi della Piana. Anche qui, nelle campagne tra la zona industriale di Salerno fino a Eboli, lavorano in migliaia per la raccolta delle fragole o dei pomodori. Spesso sono gli stessi transumanti dell’agricoltura che si spostano da Rosarno alla Puglia, da Villa Literno al Trentino: dai mandarini ai pomodori, dalle zucchine alle mele della Val di Non. Nel 2009, lo sgombero forzato della baraccopoli di San Nicola Varco li fece conoscere all’intero Paese, ma oggi sono tornati più invisibili di prima, senza neppure la protezione del ghetto. Gli italiani sfrecciano in auto e i ciclisti africani ne sono spesso vittime, come i sikh del Punjab sulla Pontina.
Napoli, Europa
Ogni metro di strada, a cominciare dal piazzale dello stadio Arechi di Salerno, è rigidamente suddiviso tra le organizzazioni criminali che controllano il mercato della prostituzione. A ogni piazzola si incontrano una o più donne e il viandante sprovveduto non riesce ad accorgersi dei “controllori” che stazionano, come vedette, a qualche centinaio di metri di distanza.
La ripartizione dei posti è rigidamente etnica: da una parte le africane, dall’altra le bianche. A voler andare fino in fondo alla provenienza delle giovani donne, si risalirebbe a non più di due città: Benin City, le nigeriane, e Calarasi, le rumene. E le albanesi? Fino a qualche tempo fa, erano loro le padrone della strada, oggi sembrano sparite. Possibile che la tratta e lo sfruttamento si siano improvvisamente fermati? Nessuno ha la risposta in tasca, ma il sospetto è che si siano semplicemente trasferiti dall’open air al cosiddetto indoor, più difficile da monitorare.
A Napoli invece, mi racconta Andrea Morniroli, un operatore sociale trasferitosi da Torino diciassette anni fa, la Grande Crisi cominciata nel 2008 sta producendo un altro fenomeno: il ritorno della prostituzione di strada italiana. Anche maschile. Morniroli percorre la notte partenopea a bordo di un’unità di strada della cooperativa Dedalus, e gli è capitato di scambiare qualche battuta con un prostituto, tra i grattacieli giapponesi del Centro Direzionale: «Veniva da Cercola, dalla provincia. Quando gli ho chiesto perché si prostituiva, mi ha risposto: voi siete del nord, non sapete cosa vuol dire aver fame. Sono rabbrividito», racconta. Pur non volendo credere fino in fondo a queste parole, esse sono la dimostrazione che non è poi così vero che il sud, perennemente in ambasce, avverta la Grande Crisi meno del centro-nord. Almeno fino a quando quest’ultima non ha preso a trasformarsi in Grande Depressione, come nel ’29 dei romanzi di Steinbeck.
Quel che è accaduto è che i napoletani dei ceti più poveri hanno ripreso a lavare i vetri ai semafori o a vendere accendini e cianfrusaglie per comporre un puzzle economico sempre più complicato, entrando in competizione con gli immigrati e rischiando così di alimentare guerre tra poveri. Un fenomeno tutto partenopeo, figlio dell’eccezionalità di una città unica in Europa, oppure anticipatore di quanto potrebbe accadere anche altrove? L’Europa del futuro sarà una grande Napoli?
Sulla provinciale 167
Giuseppe Cavaliere è un mediatore culturale, presiede l’Arci di Salerno e coordina i progetti di lotta alla tratta in tutta la provincia. Ha battuto per anni la provinciale 167 con il camper dell’associazione per avvicinare le giovani prostitute, portare loro assistenza e cercare di sottrarne il più possibile alla strada. Dalla sua esperienza ha tratto un libro, Si può fare – come combattere lo sfruttamento, scritto insieme alla presidente regionale dell’Arci Francesca Coleti. Conosce molto bene le dinamiche della 167: «Se osservi attentamente», mi dice, «le ragazze sono spesso al cellulare. È il loro protettore che le chiama in continuazione per controllare che non si allontanino e anche per verificare che la prestazione non duri più del dovuto. Ogni pezzo di strada è affidato a un controllore, al di sopra c’è un capobastione che ha la gestione di un intero territorio».
Lungo la provinciale della Piana del Sele è tutto un alternarsi di campagne incolte o coltivate, canneti e abitazioni, bar e ristoranti costruiti alla rinfusa durante quel mezzo secolo di scempi edilizi ben fotografato dall’urbanista Vezio de Lucia nel suo ultimo La città dolente. Quando si arriva nel comune di Eboli, ci si può imbattere ancora in cartelli che indicano il nulla e macerie che lasciano intuire che da quelle parti è accaduto qualcosa che ha modificato il paesaggio. Un terremoto? Un ciclone Kathrina alto-mediterraneo? Un bombardamento? È ciò che resta degli abbattimenti decisi a metà anni ’90 dal sindaco Gerardo Rosania, comunista di Rifondazione eletto sull’onda del post-Tangentopoli, che da queste parti aveva raso al suolo, più ancora che la Dc, un Partito socialista egemone e corrotto. Mai un primo cittadino in Italia si era spinto a tanto, e per smantellare un quartiere di 400 villette abusive Rosania fu costretto a chiedere l’aiuto dell’esercito perché non si era trovata un’impresa locale disposta a segare un palo, abbattere un muro, sfondare un portone, demolire le villette dei camorristi. Ma dove non arrivarono le minacce e le intimidazioni lo fecero le forze della normalizzazione, che presero la forma di mancati sostegni economici per la bonifica delle aree e di un’adeguata assistenza politica e culturale. In buona sostanza, il sindaco comunista fu lasciato solo e, nell’Italia dei condoni edilizi – ben tre durante l’epoca berlusconiana – i suoi abbattimenti rimasero un unicum e furono consegnati a una sorta di damnatio memoriae che dura tuttora.
Una volta attraversato il ponte sul Sele, tutto si trasforma come per incanto. Non ci sono più i quadrivi e i maghrebini in bicicletta, nessuna prostituta nigeriana si affaccia dalla pineta. Entriamo nel Cilento delle case al mare e del turismo dei templi di Paestum. È in queste campagne, in un casolare di Albanella, che il 15 maggio del 1979 fu arrestato ” ‘o professore” Raffaele Cutolo, il più potente boss sul quale la camorra abbia mai potuto contare. Il capo della Nuova Camorra Organizzata, latitante da più di un anno dopo una spettacolare evasione dal manicomio criminale di Aversa, si era affidato alla protezione del clan Marandino di Capaccio e gestiva i suoi affari aggirandosi per il paese nascosto da un paio di baffi e una nuova identità, quella del rispettabile ingegner Califano.
Le rumene e i “fidanzati”
La pineta prima di Capaccio, invece, non è molto diversa da quella che costeggia la Domiziana, 130 chilometri più a nord. Non cambiano neppure i frequentatori: prostitute che hanno comprato il posto sulla strada e portano i clienti in anfratti prestabiliti, marocchini che fanno da vedette, lavoratori migranti. Dalla periferia orientale di Salerno, la strada è appannaggio delle ragazze dell’est. Sono soprattutto rumene, anche se «l’anno scorso abbiamo incontrato dei gruppi di bulgare che non avevamo mai visto», mi dice Alessandra Galatro, medico a bordo del camper, che racconta la difficoltà di avvicinarle e di comprendere geografia e spostamenti: «Abbiamo dovuto osservare la strada per due anni, perché le ragazze vengono spostate da una città all’altra ogni due mesi». Inoltre, spiega Cavaliere, con le rumene, che in questo momento sono la grande maggioranza, l’approccio è molto difficile, in quanto si tratta di ragazze molto giovani, spesso prese dagli orfanotrofi e di regola legate allo sfruttatore da un “fidanzamento” che crea legami di dipendenza affettiva difficili da sciogliere. In genere, a portarle dalle nostre parti – e in Grecia, Spagna, Cipro, attraverso una filiera che prevede un’alta mobilità – è un ragazzo che ha “fatto fortuna” in Italia e che regala loro borsette firmate e telefonini. È quella che gli operatori sociali definiscono «tratta dolce»: il guadagno è diviso a metà, l’uomo racconta loro che i soldi serviranno a comprare casa insieme. Soltanto quando le ragazze si accorgono che il “fidanzato” si comporta allo stesso modo anche con altre si decidono a denunciare, innanzitutto per gelosia.
«In genere si affidano a noi solo per le visite mediche. Problemi respiratori e ginecologici sono molto frequenti», dice Galatro. Invece «è molto difficile fare consulenza psicologica. Solo dopo un po’ di tempo le ragazze si aprono», spiega Maria Teresa Chiacchiaro, psicologa del gruppo di intervento.
Modello Nigeria
Scendendo più a sud, da Salerno verso Eboli, alle prostitute dell’est Europa si sostituiscono le nigeriane. A differenza delle prime, queste ultime lavorano a gruppi, sotto la sorveglianza di un’altra donna. L’Istituto internazionale delle Nazioni Unite per la ricerca sul crimine e la giustizia (Unicri) ne stima la presenza in almeno 10 mila su tutto il territorio nazionale. «Il modello di prostituzione nigeriano si fonda sulla sottomissione psicologica, attraverso l’assoggettamento ad un patto d’onore stipulato con un rituale teso a soggiogare le vittime e che viene propinato dagli stregoni alle ragazze e alle loro famiglie come una celebrazione religiosa voodoo al momento della partenza», scrivono Cavaliere e Coleti. Il tragitto è sempre lo stesso: dalla Nigeria alla Libia, attraverso il deserto del Sahara. Qui vengono iniziate alla prostituzione, sotto minaccia di abbandono o di persecuzioni nei confronti della famiglia, e costrette a restituire un debito alla madame, per le spese di viaggio, che oscilla tra i 40 e i 60 mila euro.
È quello che è accaduto a S., J. e I. (omettiamo i nomi per motivi di privacy, ndr). S. è una ragazza madre, la sua bambina ha sei mesi. Dopo la traversata del deserto, il viaggio dalla Libia verso l’Italia, su una di quelle carrette del mare che puntualmente, con l’arrivo della bella stagione, prendono a solcare il Canale di Sicilia. Quattro giorni di viaggio prima di sbarcare a Pozzallo, risalire la penisola e finire sulla strada. Sono tutte e tre poco più che ragazzine, I. è la più piccola d’età e di statura, indossa pantaloni militari e una felpa come J., entrambe hanno lunghe trecce ai capelli, ma le sue sono colorate. Ha avuto il coraggio di sfuggire a un destino segnato: mandata a prostituirsi in strada a Torino, non sapeva a chi chiedere aiuto e si è ricordata di avere un’amica a Foggia. Così «sono scappata dalla madame e sono salita su un treno». J. era venuta invece in Italia «per lavorare, come baby sitter o commessa in un negozio, non sulla strada». Una notte la Finanza ha fatto un blitz anti-droga nell’abitazione che condivideva con alcune connazionali e l’ha portata in una comunità. È stata la sua salvezza. Tutte e tre ora vivono insieme in un anonimo appartamento rimesso a nuovo a Baronissi, alle porte di Salerno. La vicina Ikea ha regalato loro tutto il mobilio, il che rende la casa curiosamente omologata all’inconfondibile gusto della multinazionale svedese. L’abitazione è stata confiscata al clan Forte, una cosca molto attiva nel settore dell’edilizia e affiliata negli anni ’80 alla Nco, al punto da gestire la latitanza di Rosetta Cutolo, sorella del “professore”.
S., J. e I. sono l’esempio di come dalla strada ci si possa liberare. J. ora va a scuola – racconta – fa tirocinio per un possibile lavoro e frequenta un corso di italiano. Appaiono molto contente della nuova sistemazione, sono ragazze allegre e solari, giocano con i telefonini e fra loro, ma si rabbuiano quando si prova a farle parlare della loro vita precedente, quella che svolgevano fino a pochi mesi fa. Un velo di tristezza cala sui loro volti, e la dice lunga sulle troppe parole che si spendono sul fatto che la prostituzione possa essere scelta e non imposta. Non in questo modo, non a questi livelli, non per il basso bordo, almeno. Anche gli operatori sociali confermano: per quella che è la loro esperienza, si tratta di giovani donne costrette al sesso a pagamento, vittime di tratta e schiavitù, senza strumenti per difendersi in un Paese che non conoscono, di cui non parlano la lingua e non hanno documenti, dove non sanno a chi rivolgersi per chiedere aiuto. Spesso i loro migliori alleati sono alcuni clienti, mossi a compassione.
Isoke Aikpitanyi è una di loro che non solo è riuscita a tirarsi fuori, ma è riuscita a trovare le parole per raccontare l’inferno. Ha descritto la sua esperienza in un libro, Le ragazze di Benin City. «E dopo una settimana Judith ha detto: non puoi stare qui senza soldi e senza lavoro. Devi pagare il mangiare, il dormire. Devi lavorare. E per chi non ha documenti il lavoro è uno solo. Quale, ho detto io. Eh, quand’è il momento lo vedrai, ha detto lei. Così una sera mi ha portato al posto di lavoro. Ha detto alle ragazze che stavano con me nella casa: datele un vestito per lavorare, qualche cosa che non mettete più. Mi hanno dato il vestito. Era solo un paio di mutande. Sul posto di lavoro si mette questo, ha detto Judith», è il folgorante incipit.
Oggi Isoke è un’attivista. Ha fondato un’associazione intitolata alle ragazze di Benin City, quelle giovani donne convinte di trovare Lamerica in Italia e destinate alla moderna schiavitù. «La tratta non è solo un problema di sesso, di puttane e di clienti. La tratta è innanzitutto un affare colossale. Un business. È una schiavitù che rende un mucchio di soldi e questi soldi se li dividono bianchi e neri, in perfetto accordo».
Un ingranaggio del sistema
Il camper dell’Arci è tollerato ovunque, lungo la 167. Anzi, gli operatori sociali sono convinti di avere «un ruolo di equilibrio» in una situazione che di equilibrato non ha molto, ed è per questo che la loro presenza non dà fastidio agli sfruttatori. «In tutti questi anni non ci è mai accaduto nulla. Siamo convinti di essere un ingranaggio del sistema: garantiamo servizi, come l’assistenza sanitaria, che gli sfruttatori non riescono a fornire. Insomma, gli facciamo comodo, perfino quando le ragazze denunciano. A essere minacciate sono solo loro, mai noi. Se vanno via, vengono rimpiazzate immediatamente», dice Cavaliere.
È questo l’aspetto più sconcertante di tutta questa storia: per una ragazza che abbandona la strada, se ne trova immediatamente un’altra pronta a rimpiazzarla. L’offerta non diminuisce, la domanda può essere interamente soddisfatta. Il mestiere più antico del mondo non conosce la Grande Recessione, anzi se ne alimenta.
Le rumene e i “fidanzati” La pineta prima di Capaccio, invece, non è molto diversa da quella che costeggia la Domiziana, 130 chilometri più a nord. Non cambiano neppure i frequentatori: prostitute che hanno
500 MILIARDI È la cifra sottratta ogni anno dalle mafie all’economia legale. Un costo enorme che ricade sull’intera collettività, aggrava i costi della crisi, compromette le possibilità di sviluppo. All’interno di questa cifra, la prostituzione (con la tratta e lo sfruttamento) occupa una posizione di primo piano, insieme all’evasione fiscale e al traffico di stupefacenti. Ognuno di noi può sbizarrirsi nell’immaginare cosa si potrebbe fare con una cifra di queste dimensioni.
30.000 PROSTITUTE Il numero può essere solo stimato, per via della difficoltà di monitorare il fenomeno in Italia. L’80 per cento delle donne che si prostituiscono sono straniere: negli ultimi anni la tratta ha riguardato in particolare le nigeriane («le ragazze di Benin City») e le ragazze dell’est Europa, soprattutto rumene, ucraine e moldave. In calo apparente la tratta delle albanesi, che pure per un periodo era stata massiccia e visibile sulle strade italiane.