I racconti del Premio letterario Energheia

Requiem KV 626_Marialuisa Amodio, Matera

_Racconto finalista terza edizione Premio Energheia 1996

 

Il violoncello, legno dalle infinite casualità, traccia forme nell’aria rarefatta. La musica è quasi un pensiero discordante, una profanazione nella sacralità della vecchia cappella.

I santi nelle nicchie impongono eternità.

I fruscii, le voci, le rumorose presenze dei corpi, e la musica, battito di ciglia dell’impassibile stasi, sono lucciole impaurite nella ieraticità degli occhi affrescati.

I santi nelle nicchie vedono silenzi.

Lisa crea la voce gitana e melanconica della morte col violoncello dalle cupe profondità.

Le note rapprese al respiro azzurrino, quasi scolpite nelle mura d’alba antica. Al suo fianco la viola e i due violini nell’esecuzione de “La Morte e la Fanciulla” di Schubert.

Lontano, nell’ultima fila a sinistra, la quinta figura, carta nascosta che disfa e realizza. È Tristano. Osserva i movimenti di spuma delle braccia di Lisa, reminiscenza d’una più vasta gestualità cosmica, e ascolta, la musica specchio del divino.

Il suo cuore s’è disperso nella solitudine spoglia delle candele, nella polvere mesta delle pareti…come un ascoltarsi d’istante, un guardarsi l’anima farfalla schiacciata contro il muro… Lisa, Lisa! … il presente è un filo fra due abissi… Lisa… Lisa vi può danzare lieve con la sua musica funambolica… e Tristano, Tristano la guarda dal fondo… come una stella d’amante crudeltà… e la disillusione: non è possibile la comunione fra due anime. Così canta il ritornello dei secoli.

Il pensiero cerca un corpo…una voce…

Lisa. Lisa è l’atto da partorire e la musica si compirà nella morte.

Tristano l’ama.

Il pensiero non espresso si dibatte, farfalla imprigionata fra due palmi, nella solitudine della sua mente, fino a schiantarsi nel divenire atto.

Il concerto si chiude. La folla fluisce nella notte gravida di silenzi e si disperde lentamente lungo i sentieri segnati da ceri rossi.

Tristano attende dietro la complicità sacrale della cappella. Lisa esce, i lunghi capelli vogliosi di vento, e si allontana col suo violoncello di mogano lucido, pensiero vivo e dipinto di risacca che si muove fra le statue di tufo, incubi sacri e austeri di monaci e credenti nell’atto primordiale della genuflessione, i tratti racchiusi in un’archetipa semplicità.

Egli la segue da lontano. Lisa si avvicina ad un portone di vetro, posa il violoncello, armeggia con le chiavi nella serratura, ed entra. Passi, urto distratto dello strumento contro il muro, nuovo tintinnio di chiavi.

Tristano si avvicina lentamente alla soglia deserta, misurando i passi in un’incomprensibile danza rituale. Si ferma e guarda la finestra con le tende bianco e ruggine. La luce è accesa. Una mano fantasma apre la tenda e le porte di legno e vetro. Rumore di oggetti spostati.

Le stelle guardano nella loro ineccepibile oggettività.

Scorrelazioni sonore nell’accordare lo strumento. Tristano, sfinge sugli scalini di granito, ascolta il Kyrie senza coro dal punto di vista del violoncello. È il Requiem KV 626 di Mozart. Domani Lisa lo suonerà in concerto e sta provando la sua parte.

Il Dies Irae. Il supplizio nelle fiamme ravvivate dalle voci cristallo, giustizia impietosa, canto della vendetta e dell’esultanza armata di spada e sangue, preludio alla pacata santità del Tuba Mirum.

Sulla strada un gatto scruta l’uomo seduto sugli scalini, piccola divinità, gli occhi d’ambra dicono sospetto e curiosità. Poi volge lo sguardo sulla parete spoglia dell’edificio, come se vi scorgesse invisibili arazzi, e fissa il vuoto, come se la musica del violoncello vi avesse scolpito visioni solo a lui note… e a Tristano.

Tristano si alza, enigma risolto nell’impenetrabilità dell’abisso, e, con gesto deciso di lama violetta, apre la porta.

Penetra in casa come un amante, avanza solenne e con un sorriso denso di anticipazioni, sacerdote della sua teoria fantasma.

Lisa è seminuda al centro della stanza, vertigine antartica nella rete di pizzo nero; il violoncello fra le gambe descrive accenti sacri.

Sente i suoi passi, ma non si volta.

Gli oggetti nel buio mormorano ricordi, come fameliche cieche labbra che la musica tocca e dimentica… Tristano ascolta le onde brancolanti nell’ombra, come braccia nude e martoriate nei fiumi del perdono, ascolta l’ovatta paludosa di sogno che la notte e l’ombra e gli oggetti avvolgono intorno ai suoi pensieri, ascolta, rapito, la mano gli ricade sul fianco… arrendevole e muta, come il suicida che, prima di affondarsi il pugnale nel petto, si sia sfiorato la carne giovane e ne abbia sentito il palpito, in un valzer di fanfare sono tornati i ricordi… e rieccolo di nuovo innamorato, del suo cuore, della sua carne, dei suoi ricordi… arrendevole e muto.

Lisa suona il suo funambolico vivere… Lisa è lì, sulla corda e lui ad amarla dal fondo dell’abisso.

“Sai qual è l’atto ultimo della Teoria?” chiede Tristano, senza parole.

Lei non l’avverte, come una stella nella sua ineccepibile oggettività.

Lui guarda la schiena nuda e bianca d’albume, un solo neo, grande e perfetto, punto oscuro, vortice nella purezza carnosa.

Le si avvicina nell’estasi d’amore e affonda un coltello nel biancore della schiena scoperta.

Melodia spezzata, tonfo del violoncello sul pavimento, suono secco della fine: apoteosi del Niente. Braccia di Lisa nell’aria come colombe deliranti. Tristano le afferra nel moto scomposto e le dispone armoniose sul petto. Con un bacio prende il suo respiro estremo e la pone supina, nell’equilibrio di contrari: il volto alla terra e la parte irrazionale verso il Cielo.

Si allontana. L’atto d’amore è compiuto.

Il violoncello tace scomposto nell’ombra. L’angoscia tremolante della luna illumina il braccio nudo e martoriato di Lisa nel pallido Lete che dimentica e perdona… le sue dita, bianche e gentili, funamboliche giocose, zittite per sempre.

Il palmo riverso, come un’accusa, non furente, non fredda, uno stupito rimprovero, una rassegnata comprensione: Tristano soffre del delirio d’onnipotenza.

Egli ha preso in sé la follia del secolo.

Il suo delitto è sostenuto dalla logica, una logica agghiacciante nella sua intoccabilità.

E dal suo contrario: misticamente egli è il Dio che distrugge e deforma ciò che ama.

Lisa è la vittima sacrificale della sua divinità.

E neanche la prima: Tristano ha ucciso tutti quelli che amava, senza alcun rimorso, con la stessa logica delle guerre e dei “giusti” assassinii della Storia.

Egli non concepisce la colpa, né accetta peccato che non sia verso la sua legge.

Suo comandamento è l’Amore.

L’Amore: sintesi di tutti i sentimenti. Odio gelosia disprezzo invidia. Sono maschere o deformazioni dell’Amore.

L’invidia… Satana, se davvero a muoverlo fosse stata l’invidia non sarebbe all’inferno. Persino l’amor di sé l’avrebbe salvato.

Ciò che lo dannò fu un’incredibile assenza di sentimento.

Inferno è non amare.

Il braccio di Lisa, bianco nella bianca luna, sfiora, tocca, martella i suoi deliri.

Mezzogiorno. Un caffè sul tavolo all’aperto del ristorante. Tristano medita la perfezione artistica del suo crimine, ne rilegge mentalmente i dettagli, ne assapora la bellezza d’insieme.

Prende la tazzina nera fra le dita, la porta cautamente alle labbra, alcune gocce cadono sul pallore della tovaglia, beve, posa la tazzina, si asciuga le labbra. Si alza.

Ogni suo gesto è un aborto, i suoi movimenti diffondono i loro effetti in onde brevi e finite, le intenzioni si traducono in atti spezzati. Chiuso nella sua piccola divinità, non percepisce la grande divinità delle cose, e la pone al di fuori.

Se ne separa, come il neonato dal grembo materno, e ciò gli provoca sofferenza, disgusto e rabbia. Pone il suo essere in un punto ed il mondo tutto intorno, senza viverne la reciproca compenetrazione. Cerca il proprio fine all’esterno, perciò i suoi atti si levano incompiuti come aborti.

Attraversa le strade della città, circospetto e ostile, entità distante e distruttiva, che si chiude nella sua infinità.

Le ore che si avvicinano alla sera sono lunghe e colme d’ansia, a metà fra futuro e ricordo, impietose come pugnali. È notte, ospite non voluto d’una giornata non vissuta.

Tristano si ferma a guardare i balconi vecchi e fiabeschi degli edifici del centro.

Le luci sono accese. C’è festa nelle case ma nulla può nascondere il gelo delle finestre. Come nel suo cuore… nell’anima di molti.

Riprende il cammino, quasi un pellegrinaggio ora, verso la chiesa di Maria Vergine, dove Lisa avrebbe dovuto eseguire il Requiem di Mozart.

Il programma non è cambiato. I musicisti sono tutti ai loro posti con gli strumenti e il coro leva voci di sovrana bellezza. Anche Lisa è presente, distesa nella bara bianca al centro della chiesa.

Rex tremandae maiestatis… le voci in levare dipingono la visione divina e si placano poi nella devozione luminosa e nuda del Recordare.

Tristano! Ascolta il lamento delle anime al tuo amore dannate. Ci sono tua madre, tua sorella… Lisa! E guarda, crocifissa nel sacrificio fecondo c’è anche la tua anima!

Era davvero la tua volontà a guidare i tuoi passi?

Guarda, Tristano, guarda Lisa bianca nelle sue bianche vesti, sposa della morte.

Non ti appartenne in vita – pensavi di averla come suo Dio, ma non lo sei – guardala: non ti appartiene neanche ora ch’è morta. Ancora deve compiersi l’atto ultimo della Teoria.

Benedictus invenit in nomine Dominis… troppo a lungo la maledizione dei secoli pesò sulla tua anima, ora sei benedetto dal nuovo giorno.

Ieri fu eterno, eterno il suo supplizio. Ma l’Alba libera e col fuoco rigenera.

Tristano, Agnus Dei.

Schianto rivelatore nell’ultima nota della Lux Aeterna.

Tristano, poco distante dalla croce di sacrificio e potenza, giace sulla panca di legno tarlato.

Morto.

Il mistero di urla e stupore squarcia le anime dei credenti.

Troppo a fondo aveva scavato col suo coltello, fino a trovare se stesso, ultima vittima della propria divinità.

Sul suo petto un segno rosso, come d’un bacio, come d’un morso. Il bacio di Lisa e le sue labbra di fuoco e vento. Sigillo dell’ultima rivelazione: “OGNI CRIMINE È SUICIDIO.”