Resurrezione_Rima Abdel Fattah
_Racconto vincitore Premio Energheia Libano 2013
Traduzione di Barbara Caron
Uno scricchiolio, poi, come un rullo di tamburi che termina in un frastuono. Lo conosco a memoria, questo rumore, ma ogni mattina è lo stesso.
L’apertura della vecchia porta arrugginita mi gela il sangue. È voluto questo rumore, come sveglia? Non hanno quindi capito che era impossibile dormire in questo buco… e che siamo già svegli ben prima del loro arrivo!
Come al solito, non ho chiuso occhio tutta la notte. Tutto si deve giocare oggi, o domani.
Non appena dei raggi di sole penetrano nella stanza, faccio girare uno sguardo ansioso su tutto quello che mi circonda. Se presto non sarò scelta, finirò in quell’angolo là, come le altre.
Mi vengono i brividi non appena ci penso. L’incubo! Da qualche tempo, ossessiona anche le mie giornate.
Mi vedo soffocata tra i caduti, spiegazzata, spogliata della mia dignità. A volte galleggiante sulla superficie, in attesa di un’ancora di salvezza, a volte mandata a fondo, asfissiata dal puzzo di coloro che mi schiacciano, accecata dal buio che mi circonda.
E ancora non riesco a dimenticare il mio arrivo: l’imbarco brutale, il grande container sballottato dalle onde, il colpo brutale che mi ha mandato a terra, stretta tra le mie compatriote.
È stato solo due giorni più tardi che l’idea di farci uscire è venuta al nostro nuovo proprietario. Tutto era nuovo e strano attorno a noi. Poi, il mio sguardo cadde sul cassetto dell’angolo. Il cimitero che temevo sin dal primo giorno.
Dopo tutto quello che ho vissuto qui, non ricordo più molto bene come fosse la mia vita, PRIMA. A volte i ricordi ritornano in frammenti, soprattutto di notte. Sono sicura che, in passato, avevo dei «documenti», un’identità… A volte rivedo il sorriso della persona che mi ha portata per la prima volta.
Ero, senza dubbio, una “favorita” poiché ricordo di aver assistito a grandi occasioni. Quando le cose hanno cominciato a girarmi male?
Perché mi hanno lasciata sola? Mi sembra di aver perso questo periodo della mia vita in un abisso profondo visto che non ne resta nulla. Un buco nero, così nero come il fondo di un pozzo.
Come ogni mattina, la voce rauca e grossolana comincia il suo concerto. Si sente, tra due attacchi di tosse, ritmati da una bolla di saliva sputata ai miei piedi:
“Entri Signora… el mahal mahallek! (Il negozio è tutto suo!)”
“Venite a vedere signorina, ekher mouda! (l’ultima moda!)”
“I nostri prezzi sono imbattibili ! Enna l faïr malek ! (Da noi il povero è re!)”
E il negozio si riempiva. Folle curiose arrivavano. Eravamo osservate, esaminate, strappate ai nostri rifugi, incollate a dei corpi maleodoranti.
Ci guardavano ancora e poi si decideva, disgustati, se lasciarci in un angolo oppure di sprofondarci, dopo un lungo mercanteggiamento, in fondo ad un sacco, anche lui nero.
Tutte quelle che se ne andavano, non si voltavano indietro. Partivano con la speranza di una vita migliore. E quelle che restavano speravano solo di andar via a loro volta, prima che un nuovo gruppo arrivasse. Le nuove arrivate sarebbero uscite alla luce del sole, stiracchiandosi e sistemandosi ai loro posti.
Mentre tutte quelle che non avevano avuto la possibilità di essere scelte erano abbandonate, con gesti di rabbia e molte maledizioni, nel famoso pozzo nero.
Lì uno era a terra, come i prezzi proposti alla folla per convincerla a prenderci.
Un suono familiare mi risveglia dalle mie fantasticherie. Un piccolo colpo, come quando si bussa discretamente alla porta del proprio amante, seguito da un leggero fruscio. Il mio posto preferito alla porta del negozio mi permette di vederla arrivare da lontano.
E mi chiedo ogni volta, con un pizzico di malvagità che mi fa ancora arrossire, chi cerca di catturare l’altro, il suo piede destro o la punta della sua stampella?
Questa non è una donna come tutte le altre. Lei non assomiglia in nulla alle altre clienti. Mi sembra aver sentito raramente il timbro della sua voce. Ricordo il suo sguardo penetrante mentre si guardava attorno. E la rivedo avvicinarsi a noi, esaminarci, senza che dovessimo lasciare i nostri posti. Ci lascia da parte, una dopo l’altra, con un gesto discreto, si direbbe una carezza.
Spio gli angoli della sua bocca, le sopracciglia che increspa leggermente quando si accorge di un bottone rotto, una tasca scucita o un orlo che pende… Un’esperta! Fa la sua scelta, senza esitare, paga senza mercanteggiare e sparisce.
Mi conosco. Le osservo tutte e mi diverto a indovinare la loro storia personale. Questa qui ha due bambini, due maschi, abbastanza turbolenti, scommetto. Di pantaloni non ne hanno mai abbastanza. Quest’altra ha una figlia, o sogna di averne una, non saprei dire. Osserva con desiderio i bei vestiti a balze, le gonne corte fiorite, ma non ne compra mai. Quell’altra partorirà fra un po’ di tempo… La lista è interminabile. Immaginare la loro vita, inventar loro dei nomi, delle qualità e dei difetti m’impedisce a volte di rimuginare e mi nutre: ogni giorno, una nuova dose di speranza.
In fondo a me stessa, è lei che desidero accompagnare. La signora della stampella.
Indecifrabile, m’inspira mille domande alle quali trovo raramente delle risposte. Compra tutto, le gonne come i pantaloncini, le taglie piccole così come le grandi, quasi a credere che le collezioni. Questa idea mi suscita delle risatine tra me e me, mi passa per la mente come una brezza mattutina, così fresca. Quel che è certo è che questa donna odora di rispetto, di buon gusto, e non so ancora di cos’altro.
Poi, tutto è successo in un batter d’occhio. Non so esattamente cosa sia successo. Non ricordo nulla, né a cosa penassi, né come fossi arrivata tra le sue mani. Eccola, è là. Mi tiene, mi accarezza con lo sguardo, mi liscia, mi piega con cura e mi sistema nella sua borsa della spesa. Come tutte le altre, non mi sono voltata indietro, ma so che loro avrebbero dato tutto pur di essere al mio posto!
Libera. Finalmente!
Delizioso è il sapore della libertà. Incantevole il profumo di questo sapone dolce che mi attraversa le maglie. Deliziosa è la sua voce che mi parla.
L’ascolto. I suoi progetti, i suoi calcoli… non ne capisco molto. Ma il fatto che lo condivida con me mi basta, mi completa.
“Il fine non giustifica i mezzi, baaref. (lo so)”
Sospira.
“La vita è dura. Il dottore, il macellaio, il direttore della scuola, kellon ma byerhamo. (nessuno ha pietà)”
“È colpa mia se te ne sei andato troppo presto?”
Il quadro inchiodato al muro resta muto, come la sottoscritta, anche se ho talmente voglia di raccontarle la mia vita, urlarle che, anch’io, non ho scelto il mio destino.
Ma le confidenze si fermano qui. Si alza e lasciamo la stanza insieme. Cullata dal ritmo dei suoi passi. Felice, m’immergo in un sonno profondo.
Al mio risveglio, l’arredamento era cambiato. Ho appena il tempo di girare lo sguardo attorno a me e di accorgermi che anche tutte le altre sono lì con me. Lavate, profumate, imballate e sistemate.
Sono ormai lontana quando, nell’angolo del suo negozio, Lei annota sul suo taccuino: «Camicia a fiori, 50.000 lire».