Ritratti impressionisti_Roberta Zatelli, Trento
_Racconto finalista tredicesima edizione Premio Energheia 2007.
Dedicato alla vita che, a volte, è davvero strana.
GALLERIA
SELENE ovvero QUANDO VA GIÙ IL SOLE
SOFIA ovvero SETTE
MIRKO ovvero IL NON IDEALISTA
ANNA ovvero L’ABBRACCIO
MANUEL ovvero DONNA-DIPENDENTE
VALERIO ovvero CRESCERE
DENNIS ovvero QUANDO NON SI AMA
PERSONALE DI PITTURA
(conclusione dei ritratti impressionisti)
SELENE ovvero QUANDO VA GIÙ IL SOLE
Mi trovavo in piazza Duomo, quando andava giù il sole.
L’ombra della fontana mi veniva addosso. Qualcuno in bicicletta mi passava affianco sobbalzando sui bolognini. Aspettavo Valerio, ma Valerio non arrivava. Me lo aveva promesso, mi aveva detto: “Alle sette sono li, occhei, non mi stressare…”. “Stronzo”, avevo smozzicato tra i denti e mi ero avviata alla fermata dell’autobus dove i piccioni zoppicavano tra le borse della spesa di un’anziana signora che buttava briciole di pane qua e là… ci mancava anche questa… odiavo i piccioni, odiavo il loro modo stupido di camminare muovendo il collo avanti e indietro. Odiavo il loro colorino indefinito e quegli occhi sempre spalancati come a dire: “Ma sì? Ma dai! Che buffo il mondo!”. E il mondo era buffo davvero. Davvero era buffo il mondo. Mi ero calcata gli occhiali da sole alla radice del naso, mi specchiavo nei finestrini delle macchine che passavano… ero carina ma Valerio manco se ne accorgeva, lui. Gliel’avrei fatta pagare in qualche maniera. D’improvviso qualcuno mi aveva urtato da dietro. Mi ero voltata più incuriosita che arrabbiata e avevo visto un ragazzo con una bicicletta e una grande custodia nera sulle spalle.
“Scusami, ti ho fatto male?”
Mi guardava con l’aria impacciata e col sorriso di un bambino.
“No, no… figurati”.
“E’ che vado di fretta, ho una registrazione e non so…”
“Suoni?”
“Beh, sarei una specie di cantautore… diciamo che suono, ecco”.
“In un gruppo?”
“No, solo io e lei”, aveva indicato la custodia.
“Ma c’è uno studio di registrazione in città? Non lo sapevo…”
“No, no. Vado da un mio amico ma non è che abbia chissà che studio… ha… ecco dai, insomma ha un registratore”.
E io che avevo pensato che fosse un cantante!
Ma all’inizio Manuel esagerava sempre. C’eravamo presentati
“Piacere Manuel”
“Piacere Selene”.
Intanto alle nostre spalle era passato il mio autobus e i piccioni erano volati via. Il sole andava giù, Manuel saliva sulla sua bici e sorridendomi se ne andava via, in piedi sui pedali, lui, Manuel, girato indietro. Quando finalmente ero riuscita a prendere un autobus ero scesa a casa di Valerio, avevo suonato alla porta e lui era uscito sul balcone, era notte ormai.
“Chi è? Selene… scusa… mi sono addormentato e ora c’ho qui un amico!”
Ero incazzata nera.
“Apri fammi salire che ti faccio vedere io… Lo sai quanto ho aspettato al Duomo? Un’ora!”
Mentre urlavo, però, sentivo che c’era qualcosa nell’aria.
Sì, delle note, degli accordi e anche belli.
Eravamo in silenzio ora. Io in strada, Valerio sul balcone e i lampioni accesi. Poi mi era caduto l’occhio sulla bici appoggiata accanto alla porta d’entrata. E Manuel era uscito dalla porta finestra di Valerio.
“Ciao Selene!”
“Ma la conosci?”, gli aveva chiesto Valerio.
“Ciao Manuel! Eri tu che suonavi?”
“Ma la conosci o cosa?”, gli aveva gridato Valerio.
“Sì ero io…bravo, no?”
“Sei grande. Non sapevo suonassi così”, gli avevo detto.
“Insomma come cazzo fate a conoscervi voi due?”, aveva urlato Valerio con la voce strozzata.
“Apri, fammi salire e ti spiego”, gli avevo risposto mentre il cancelletto ronzava aprendosi e il mio viso, illuminato a scatti dal lampeggiante giallo dell’automatico, dall’ira passava al riso.
Manuel e Valerio erano amici di vecchia data.
Quello stronzo del Vale mica me lo aveva detto!
Sinceramente non mi diceva mai niente di sé ed io ero pazza di lui dai tempi del liceo.
Valerio il matto, Valerio lo scatenato che arrivava a scuola sempre con mezz’ora di ritardo…Valerio che mi prendeva solo in giro da anni… e io che continuavo ad amarlo. Ricordo quella volta che dovevamo uscire insieme. Si era ubriacato e non si era fatto vivo all’appuntamento. La mattina dopo si era presentato a scuola come niente fosse.
“Ciao bella, come va?”
Tutta la rabbia che avevo dentro allora era esplosa e avevo cominciato a picchiarlo, prenderlo a calci, pugni, schiaffi e lui lì immobile che non reagiva.
E Manuel era amico suo. Quella sera era stato lui a riaccompagnarmi a casa in bici. Avevamo parlato del più e del meno. Avevamo parlato di Valerio. Valerio piaceva a Manuel proprio perché era così imprendibile.
“E’ come una trottola… gira, gira e non combina nulla. Devi cercare di acchiapparlo e allora, forse…”.
Io ero innamorata di Valerio ma era proprio questo lato del suo carattere che odiavo con stizza.
Io e Manuel amavamo Valerio ma per due aspetti diversi del suo carattere. E parlavamo di lui mentre lui di noi se ne strafregava e a casa sua dormicchiava colla bocca spalancata e i pop corn per terra davanti alla tv.
SOFIA ovvero SETTE
E che diavolo? Ora che l’avevo vista non potevo che pensare:
“E che diavolo?”
Rivedevo a fotogrammi quell’angolo tra la torre civica e il bar City.
Lui che spuntava da dietro, in camicia e con le maniche rimboccate. Il suo sguardo, il mio sguardo. Mi stava già guardando da prima, lo sapevo… lui arrivava sempre prima che me ne accorgessi, che potessi mettermi in posa. Mi piaceva anche che accadesse così… Mi piacevo al naturale, anche perché poi alla fine tutte le mie pose mi sembravano stupide.
Lampo nei suoi occhi neri, lampo di convenienza.
“Ciao”.
“Ciao”.
“Che ci fai qui?”
E poi…
“Questa è la mia ragazza”.
Neanche per nome me l’aveva presentata. E lei, con la testa riccia che sembrava un boccale di panna montata a stringermi la mano.
“Anna piacere, Anna…”
“Sofia, piacere Sofia”.
Dennis, come una poesia. Dennis che nell’androne dell’università mi prendeva il libro di antropologia dalle mani, lo apriva e lo richiudeva sbattendo forte le pagine.
“Ridammelo, basta fare casino!”
E lui lo riapriva e sbatteva ancora più forte le pagine guardandomi fissa con quegli occhi liquidi di sole ridente.
“Piacere, Anna, piacere!”
E già avevo capito che non faceva per lui.
“Piacere, Sofia, piacere!”
E mi sentivo tanto ipocrita e mascherata ma non era carnevale.
Ci mancavano sette mesi. Sette.
MIRKO ovvero IL NON IDEALISTA
“Scusa un secondo”, aveva detto Selene guardandomi con quella sua espressione da gatto.
“Perché dovrei venire a quella stupida cena se non ne ho voglia?”
“Selene è una cena di lavoro…”
“Allora dovrei venire a ridere alle battute di Dennis e dire a Sofia che ha un bel vestito che poi dove va a vestirsi quella, alla discarica comunale?”
“Selene, per favore, non fare la donna-eremita-menefregoditutto…”
“Perché? Non la pensi anche tu come me?”
“Sì ma…”
“Allora sei prigioniero di loro, Mirko, perché fai quello che vogliono, li odi e ci vai lo stesso. Non vivere per fare quello che non vuoi…”.
“Sei una stupida idealista…”
Selene mi aveva guardato.
“Vengo, ma non pentirti di avere insistito…”
Poi me n’ero pentito. Poi.
* * *
“Cosa fa un coccodrillo in una lavatrice?”
Dennis aveva cominciato a scaldare la serata. Sofia aveva sorriso, scrollando la testa coi grandi orecchini a cerchio. Era una gran tavolata, il rumore di posate regnava sovrano.
Selene si era semplicemente alzata e aveva detto: “Dennis non cominciare con le tue battute stronzissime che non fanno ridere nessuno”.
Di colpo il silenzio era piombato nel ristorante.
“Ma…”
Sofia si guardava intorno con la bocca aperta.
“Selene!”
“Cos’hai detto scusa?”
Anche Dennis si era alzato in piedi.
“Lo hai sentito benissimo”.
“Selene, dai, basta!”, aveva detto Sofia. Ma Selene, non contenta, aveva proseguito sulla sua linea.
“Dennis, scusa, lo sai cosa ci fa’ Sofia vestita da sacchetto della spazzatura?”
“Eh?”
Sofia era rimasta lì, con le labbra lucide di rossetto, aperte.
“Te lo dico io”, aveva detto Selene.
“Se la tira da qui…”, e si era avviata verso l’uscita del ristorante “…fino a lì!”. E aveva indicato la cima della montagna che s’intravedeva dalla porta. E poi era uscita.
Due secondi dopo l’applauso di tutta la tavolata, applauso a Selene, lì, con Dennis fermo col tovagliolo in mano e Sofia con la bocca aperta.
ANNA ovvero L’ABBRACCIO
Non aveva detto nulla. Mi aveva guardato voltando la testa perché ero dietro di lui e sempre così, con la testa voltata indietro mi aveva teso la mano.
Io avevo guardato la sua mano e poi avevo guardato il suo viso così dipinto di un’espressione interrogativa, come a dire “Anna, vieni?”
Avevo sorriso e avevo spinto forte la mia mano nella sua.
La sua stretta era ferma, non forte, ferma.
Mirko aveva gli occhi azzurri e il suo sguardo, ora che lo avevo di fianco scendeva obliquo sul mio viso, non come una carezza, ma ancora come una domanda. Avrei dovuto voltarmi e chiedergli: “Che c’è?”.
Forse se avessi fatto così il suo ricordo ora non sarebbe caratterizzato da quella luce così interrogativa. Poi a volte ci ripenso. Aveva sei anni più di me, Mirko, e la sua maturità, il suo essere uomo, si manifestava nella fermezza con cui mi teneva la mano. Una fermezza e una dolcezza che cerco da tempo. Ancora. Invano.
MANUEL ovvero DONNA-DIPENDENTE
Ci pensavo mentre stavo seduto al sole un pomeriggio tardo di luglio, sul mio balcone.
Ed era vero: ero donna-dipendente. La mia vita assumeva un senso solo se c’era una lei al mio fianco e siccome al momento di lei non ce n’erano la mia vita era senza senso.
Era tutto un sale, uno swing, l’amore e paradiso erano una cosa racchiusa nei suoi occhi neri e scintillanti.
E avevo scrutato il mio orizzonte e pur guardando con un binocolo lei non c’era.
Non c’era sale, non c’era swing.
L’ultima lei della mia vita mi aveva detto che non aveva tempo per un ragazzo. Di cosa si riempivano allora le sue giornate? Di lavoro? Di amici? Di altre attività? E quali?
No, per quanto piena di queste cose la mia vita era vuota senza lo scenario di una lei.
E mi ero detto: “Manuel, chissà perché quando scrivi racconti dove sei il protagonista ti fai sempre morire?”.
E nel frattempo salivo sulla ringhiera del balcone e mi buttavo giù.
VALERIO ovvero CRESCERE
Pensavo proprio che il valore delle persone lo conosci quando queste se ne vanno e lasciano un vuoto incolmabile.
Tre mesi a Roma come militare e poi chissà dove lo avrebbero mandato. E se ne stava lì, col borsone appoggiato su una spalla e noi amici lì in silenzio che non sapevamo cosa dire.
A me passavano per la testa le serate tra di noi, i regali che ci scambiavamo a Natale, le spaghettate collose e senza sale che ci facevano sbellicare dalle risate. E stavo male. E ricordavo le lunghe corse in quattro nella sua auto, i sabati sera in fuga nella notte a parlare di noi. E la mano forte che lui appoggiava sempre sulla mia spalla, e come si incazzava se gli facevamo il verso, e i film noleggiati e il suo dialetto grossolano (mai avrei pensato di scrivere così di lui e già mi manca).
E poi m’aveva detto: “Ciao Valerio”, col sorriso esageratamente largo sulle labbra e m’aveva appoggiato la mano forte sulla spalla ed era Manuel, un mio amico, mio, unico, irripetibile, amico, mio.
E andava. E chissà quando sarebbe tornato. E il treno se lo portava via. Con lui la nostra storia di amici, adolescenti, ragazzi e, ora, di uomini e donne.
DENNIS ovvero QUANDO NON SI AMA
Era inutile. Io non amavo Sofia e non l’avrei mai amata. A dire il vero io mi vergogno a dirlo ma ho sempre avuto una gran voglia di picchiarla, di scuoterla da quel suo modo di essere sempre fuori fase e fuori moda. Ma glielo leggevo negli occhi quel modo di amarmi che aveva, disperato, sconfinato, senza via, amore.
Quella sera forse ero stato un po’ brutale con lei che era venuta sotto casa mia e s’era messa a piangere quando le avevo spiegato che ormai c’era Anna nella mia vita. L’avevo presa per le spalle, avevo stretto fino a sentire le sue ossa sottili e le avevo gridato in faccia per tre volte: “Non ti amo, non ti amo, non ti amo”.
Lei col viso bagnato di lacrime m’aveva piantato in faccia due occhi lunari e aveva sussurrato: “E io ti amo, ti amo, ti amo”.
Io le avevo detto: “Allora se non capisci un cazzo va a cagare”. Ed ero rientrato, che faceva freddo a stare laggiù.
PERSONALE DI PITTURA (conclusione dei ritratti impressionisti)
La piccola sala era gremita di persone. Ma io l’avevo capito subito che nessuno se ne intendeva di arte. Erano tutti amici o parenti del giovane pittore che in un angolo se ne stava con le spalle al muro, osservando con rancore gli sguardi che la gente lanciava alle pareti dove erano appesi in fila i suoi quadri.
Come una gatta osserva pronta a scattare chi si avvicina ai suoi cuccioli.
E faceva caldo, troppo caldo per essere alla fine di aprile.
Mi ero fatta aria col depliant della personale di pittura… mi ero dimenticata pure il nome del pittore. Avevo scorso velocemente il foglietto alla ricerca di un aiuto… Impressionisti… ah… ecco… Valerio Meier.
Ero intenzionata a stare poco là dentro. Giusto quello che bastava a carpire quelle due o tre cose da inserire sull’articolo dei nuovi pittori contemporanei che avrei dovuto inserire nell’opuscolo universitario di quel mese.
Non avevo capito mai l’arte moderna. Mi stavo laureando in conservazione dei beni culturali e a forza di specializzarmi sui classici avevo cominciato a disprezzare ogni tentativo di innovazione.
Ma per la personale di Meier avevo fatto un’eccezione, visto che intendeva recuperare lo stile di Monet, Manet e gli impressionisti in genere.
Mi ero avvicinata cauta al primo quadro. La targhetta d’ottone recava il titolo dell’opera.
“Volo di piccioni sulla città, la sera”.
La fermata di un autobus e una ragazza il cui viso veniva coperto da un piccione che ci volava davanti. Avevo alzato un sopracciglio in segno di sorpresa e avevo osservato il secondo.
“Ragazze che si danno la mano”.
Due giovani donne che si stingevano la mano, forse si stavano presentando. Sullo sfondo la torre civica della piazza della nostra città.
Non erano neanche dipinti bene. Avevo lanciato un’occhiata al pittore e avevo visto che mi guardava. Valerio Meier… avrà avuto uno studio o dipingeva in casa?
Più lo guardavo, più mi accorgevo che era strano… per esempio si era avvicinato al tavolo del rinfresco e si stava strafogando di pop corn…
“La cena degli impiegati”.
Beh… il riferimento era forse alla famosa “Colazione dei canottieri” di Renoire? Pacchiano come accostamento…
“Ragazzi che si tengono per mano”.
Questa volta sono un lui e una lei… lui sembra volergliela strappare, quella mano.
“Che stretta forte” avevo pensato…” Non ferma…forte!”
“Suicidio di giovane artista”.
Oddio… questo si stava buttando giù da un balcone. Era anche un po’ scrostata, la tela.
Avevo fissato nuovamente il Meier e stavolta aveva un bicchiere di coca cola in mano.
Mi guardava e improvvisamente aveva portato una mano alla bocca, soffocando un rutto.
“Oddio…”.
“Militare”.
Sempre gente che si tocca in questi quadri… ora sono due ragazzi, uno in partenza con la mano appoggiata sulla spalla dell’altro.
Finalmente l’ultimo.
“Pianto di giovane donna”.
Una ragazza seduta per terra… almeno l’aveva dipinta con un bel vestito… guarda… ha gli orecchini a cerchio uguali ai miei.
Beh… impressionista o non impressionista faceva troppo caldo per i miei gusti… occhei… l’articolo me lo sarei inventato come al solito.
Mi ero avviata all’uscita seguita ancora dallo sguardo del pittore. Che disastro di uomo! Sull’uscita avevo incontrato una ragazza che entrava di fretta con gli occhiali da sole che le coprivano metà faccia. Ci eravamo scontrate. Pensate… quella io neanche l’avevo mai vista… questa mi guarda, mi fissa e mi fa: “Sei vestita da cesso cara…”