I brevissimi 2017 – Rosso di Michela Rodari_Ponte S. Pietro(BG)
anno 2017 (I colori dell’iride – rosso)
Stivali in cuoio finemente lavorato, punta e tacchi rivestiti della più sottile lamina di ferro, poggiano fermi sulla pietra. Arazzi alle pareti, riccamente decorati con fili d’oro e blu acceso, fuoco che arde nel grande camino. Una corona, oro impreziosito da gemme d’ogni taglio e fattura, adagiata su una testa bionda di fanciullo. Un mantello in velluto pregiato tinto d’un rosso tanto acceso da ferire gli occhi, che scivola lungo spalle strette e striscia deferente fino al pavimento.
Suona una fanfara di trombe e il mantello segue guizzante la corona fino al trono, possente legno di quercia minuziosamente intagliato e completo di soffici cuscini foderati in seta scarlatta. Nella grande sala torna il silenzio, un silenzio gravido d’ansia e d’attesa, finché da corridoi lontani giunge il cozzare sordo e ridondante di catene che collidono l’una contro l’altra strisciando sul pavimento, accompagnato dal ritmico avanzare di una marcia militare, un clangore fastidioso eppure curiosamente melodico. Entro l’arco a sesto acuto che si apre sul corridoio compaiono sei ombre: quattro cavalieri, vestiti di tutto punto e con la spada al fianco, scortano un uomo sporco e ferito con i polsi e le caviglie incatenati, accompagnati da un boia in nero con il cappuccio calato sul viso e l’ascia tra le mani. Al centro della sala compare un tocco di legno robusto, seguito da sospiri e sussulti che si dipanano lungo il perimetro delle pareti mentre un sorriso felino si apre sotto il peso della corona.
Quando il collo del condannato viene piegato a forza sul ceppo, lo sguardo di lui incrocia quello del sovrano, occhi vispi di bambino, azzurri e spaventosamente gelidi; mentre l’araldo annuncia l’esecuzione ed elenca i reati commessi dall’uomo, lui con le mani tremanti dietro la schiena piange sommessamente e prega, Mio Signore vi imploro, non uccidetemi, Sua Altezza sa che non merito questa fine. La lama dell’ascia stride sul pavimento di pietra, trascinata dal boia verso il centro della sala, e un grido lacera l’aria ferma dell’alba quando il freddo affilato del metallo accarezza la nuca bianca dell’uomo inginocchiato ai piedi del trono. È questione di secondi; la lama fende il vuoto sopra gli spettatori, luccicando nella luce del mattino che filtra dalle alte finestre, e poi cala sibilando minacciosa sulla vita, conficcandosi con un unico gesto secco nel legno scuro del ceppo. La testa rotola inerme sul pavimento gelido, percorrendo un paio di metri per adagiarsi servile ai piedi del trono, la strada marcata da una scia viscosa di sangue vermiglio, sangue che zampilla dalla gola aperta e bagna il pavimento. Gocce rosse si rincorrono come un gioco di biglie nelle scanalature della pietra mentre la sala, silenziosamente, si svuota.
Passano secondi, minuti, ore intere, e lento e minuzioso il sangue allaga il pavimento tingendo di rosso ogni venatura fino ad infrangersi contro lo zoccolo delle pareti; il re bambino, dominato da una calma glaciale, semplicemente rimane seduto. Quando poi finalmente si alza, il sole è giunto allo zenit e la sala è quasi totalmente immersa nel buio, se non fosse per strani, tremendi riverberi che attraversano i vetri e colorano l’intero ambiente di inquietanti sfumature borgogna; scavalca con noncuranza la testa, gli occhi ancora aperti che fissano il vuoto, e si avvicina tranquillo al resto del cadavere, gli eleganti stivali che sollevano spruzzi vermigli. Piega la schiena sul ceppo, osserva da vicino la gola tranciata di netto, bagna le mani sotto il rigolo di sangue scuro che ancora sgorga dalla giugulare ed esplode in una risata raggelante sfregando i palmi l’uno contro l’altro; grida di gioia rimbombano attraverso i corridoi raggiungendo le segrete ed elevandosi fino ai tetti delle torri, e per un attimo tutta la corte è paralizzata dalla paura. “Guardie!” si sente chiamare. “Guardie, portatene un altro!”. Lo scalpiccio di suole pesanti riempie la tromba delle scale che porta alle prigioni, e intanto il piccolo re balla, le mani e il viso completamente trasfigurati dal rosso del sangue, sollevando schizzi che bagnano le pareti e impregnano gli arazzi e le tende. Quando sulla porta compaiono le guardie con un nuovo condannato, il fanciullo si blocca con il sorriso ancora stampato in volto e calcia via il corpo del precedente per fare spazio sul ceppo alla gola del prossimo. Rimane fermo per alcuni secondi a fissare le membra morte che giacciono ai suoi piedi, ed un sussurro impercettibile rotola fuori dalle sue labbra sottili: “Perdonami, padre”.