I racconti del Premio letterario Energheia

Samba Pa-Ti_Dario Fani, Roma

_Miglior racconto da sceneggiare dodicesima edizione Premio Energheia 2006.
_Menzione Giuria dodicesima edizione Premio Energheia 2016.

La cosa di cui s’è sempre rammaricato Mauro è di aver lasciato Roma. Quella splendida unica città. Di tutto il resto non s’è mai interessato. No, non è vero. L’altra cosa che non si è mai perdonato è d’aver lasciato insieme a Roma, sua sorella. Quando Mauro ha lasciato Roma, sua sorella aveva quindici anni. Aveva gli occhi gonfi di pianto e un segno sul viso. Le braccia, graffiate e rosse, nel tentativo di produrre una timida difesa erano state tenute protese in avanti tutto il tempo. Sulla pelle chiara già si andavano scurendo i lividi. Se ne stava accovacciata in un angolo della stanza, le ginocchia raccolte al petto. Faceva un caldo d’inferno, era agosto. Dalla finestra aperta qualcuno doveva aver pur sentito le sue grida.

Mauro lo sperava, da sempre sognava di udire bussare alla porta, aprirla e trovarsi di fronte i poliziotti che venivano ad arrestare suo padre, l’ammanettavano e lo spingevano dentro la pantera per portarlo in culo al mondo e lasciarcelo in eterno.

Entrato nella camera non era rimasto spaventato da quegli occhi gonfi, dalle ferite, dal sangue. Nessuno orrore spaventa, se è abituale. Aveva fissato la sorella e le era andato vicino. Le aveva preso le mani. Assurdo, in quel caldo d’inferno erano gelide. Gelide, come non ci fosse più vita. Le aveva carezzato le nocche ferite e aveva fatto scivolare le dita sopra le sue.

Prima era stato tutto il tempo nell’altra stanza, rannicchiato in un angolo, con i denti stretti contro il labbro – tanto forte –, da ferirlo.

Che altro poteva fare? L’ultima volta che aveva provato a difenderla, suo padre gli aveva mollato un cazzotto sul naso e lui era caduto giù, sanguinante, ed era rimasto immobile, a tenersi con le dita l’osso fratturato, mentre suo padre aveva ripreso a picchiare con più rabbia e foga che mai. Non l’aveva mai picchiata così a lungo e forte come quella volta che lui aveva reagito. Da allora aveva imparato a scegliere un angolo e aspettare, come un pugile che lascia all’arbitro il tempo per il conteggio.

Anche quella volta piegato nell’angolo aveva atteso che suo padre andasse via. Poi era entrato e s’era seduto accanto alla sorella.

«Non piangere», dice lei – lo dice ogni volta –, «è tutto finito», e gli carezza il volto. Il sangue della mano si mescola alle lacrime e quando arriva fino alle labbra Mauro ne avverte il sapore dolciastro, sgradevole. Lui guarda la luce del sole che attraversa la finestra e fa brillare il marmo del pavimento, poi quel viso gonfi o e ferito mentre prova a sorridergli. Non gli sembra neppure che sia sua sorella. Un colpo l’ha presa nel mezzo del volto: lei cerca di tamponare il sangue che le scende dal naso con la gonna ampia del vestito. «Metto i papaveri sul prato» dice, indicando il rosso del sangue che s’imprime sul verde del vestito. Lo dice mentre il labbro inferiore si va ancora gonfiando. Sei incredibile, meravigliosa pensa lui. Meravigliosa e bella come le tue poesie ma non lo dice, e invece un attimo dopo gli escono quelle parole tremanti:

«Ti ucciderà… alla fine ti ucciderà». Ed è l’esatta sua paura: entrare in quella stanza e trovarla stesa sul pavimento, per via di un conteggio durato troppo a lungo. «No». risponde lei «ha bisogno di me». Lo dice con una convinzione assurda, come assurda è quella scena che si ripete ogni sera. Lei lava, stira, fa la spesa, cucina. Ma lui capisce che non intende dire quello, intende un bisogno diverso, più profondo e sottile. Un bisogno che fa orrore solo a immaginarlo.

«Io dovrei difenderti…», urla dentro il suo petto e appena sottovoce fuori «sei mia sorella, dovrei…» e gli viene, di nuovo, da piangere.

Lei scuote la testa. «No. Tu non puoi farci niente. Niente. Lui è più forte. È ancora il più forte».

Gli prende la testa e se la stringe al petto. Lei trema sotto il vestito, ancora scossa, forse ora comincia anche ad avvertire il dolore pensa lui e – pieno di rabbia e rancore, con un misto dentro fatto anche di paura e vergogna, trova difficile pure respirare. Vuole urlare, urlare fino alla follia e buttare giù dalla finestra il tavolo e le sedie e la collezione di dischi e tutto il resto che riempie quello schifo di casa. Anche la sua chitarra. Tutto quello che a quello schifo di camera dà un’idea di normalità. E per completare l’opera alla fine pensa di gettare se stesso. Ma lei gli stringe ancora di più la testa come se lo sapesse, come se leggesse quello che gli pulsa dentro e lui allora non fa nulla – si abbandona a quella stretta in silenzio.

Alla fine con il palmo aperto della mano le carezza la nuca, perché sa che in tutta quella follia, in qualche modo, quel gesto è l’unico che le dà un po’ di serenità.

Lei socchiude gli occhi e sorride. Fra il sangue e il dolore, sorride.

Poi a fatica si alza e dice: «Vado a farmi la doccia».

Mentre l’acqua scroscia nel bagno, lui senza neppure capire cosa ha veramente deciso, mette nello zaino un paio di nike, gli spartiti di Santana, due maglie, la divisa dei Lakers e alcune mutande. Fa tutto con molta calma. Poi va nella camera da letto, rovista nei cassetti e trova la cinta, quella che suo padre non indossa mai: quella che usa solo per picchiare. La stende sulla credenza della cucina apre il cassetto e con la prima lama che gli capita tra le mani, senza incertezze, fa schizzare via la fibbia di quella cinta. Vicino lascia il suo biglietto. Me ne vado. Se la sfiori solo un’altra volta torno ad ammazzarti.

Tuo Figlio.

È l’ultima comunicazione che scambia con suo padre, lo sa. Se torna, torna per ammazzare. Silenzioso esce. No, non attende neppure che sua sorella finisca la doccia.

È finito a Londra, non perché avesse una qualche idea su quella città, ma semplicemente perché il primo volo disponibile in classe economica andava lì, e gli sembrava comunque un luogo abbastanza lontano dove poter stare. Ha trovato un lavoro con facilità e ha cominciato a vivere così, in attesa, senza sapere bene neppure lui di che cosa, cercando di dimenticare la casa, suo padre, quell’orribile cameretta, e pensando che presto gli sarebbe riuscito di offrire un riparo anche a sua sorella.

Ma poi le cose sono andate diversamente, come neppure lui si aspettava. E non ha più telefonato alla sorella. Alla fine s’è vergognato perfino di scrivergli.

Non è diventato quel che sperava di diventare andando a Londra. E neppure è riuscito a realizzare granché. Tutt’altro.

È sceso sempre più in fondo, tanto in fondo da trovarsi alla fine in un vicolo a picchiare una ragazzina per strapparle di dosso una collana da prima comunione, che aveva appesa al collo, così da tirare su i soldi per un nuovo buco. Picchiare una ragazzina in un vicolo, per poi scappare via, che merda sei diventato?, si è chiesto prima di vomitare e gettare quello schifo di collanina in quel fiume luminoso che è il Tamigi. È questo quel che gli è riuscito di fare, lì a Londra. E più d’una volta ha pensato che era il momento di gettarsi anche lui fra le luci di quel fiume luminoso. Senza mai farlo.

Ha vissuto così: fra un furto e un rimorso, finché non è arrivato quel telegramma che cambiava le cose.

Quel che non era riuscito a fare la polizia, l’aveva fatto l’alcool. Cirrosi epatica, suo padre se ne era andato in poco meno di tre mesi. Lo diceva quel telegramma. Sua sorella glielo aveva spedito in via prioritaria il giorno stesso del decesso.

Morto STOP. Diceva, ma era sufficiente. Bene STOP verrò a godermi i funerali STOP. Gli aveva risposto lui.

Ma poi neppure quello ha saputo fare. Non ha tenuto fede a quella promessa. Né ha più risposto alle lettere della sorella ed ha cambiato anche casa. È sparito. Come un qualunque balordo, è sparito. Ha avuto paura ed è sparito. Ancora non sa spiegarsi perché. Molto c’entra la vergogna. Vergogna per come era partito, vergogna per tutto quel tempo che era rimasto, e forse anche la vergogna di non essere mai riuscito a saltare al di là di quella finestra o di quella balaustra sul fiume. Ma soprattutto doveva pesare la vergogna per quello che era diventato.

Finché una mattina, quella mattina, sapendo che l’indomani era un giorno importante si è deciso. È andato al lavoro e s’è licenziato. Per la liquidazione non hanno fatto storie. L’affittuaria, Margaret, invece, una signora inglese vecchio stampo, che indossa ancora camicette che finiscono in merletti bianchi e ampi a coprire il dorso delle mani, ha preteso che saldasse l’intero mese e stavolta è stato lui a non voler fare storie, anche se era solo il due e s’era sempre pagato a settimane. Poi ci ha ripensato, un mese d’affitto non era proprio una cosa da poco, e prima di uscire ha tappato lavandino e vasca da bagno e lasciato aperti i rubinetti. ‘Fanculo lei e la sua precisa correttezza inglese.

È arrivato a Roma che erano le dieci di sera. Ha dormito nel sottopassaggio, insieme a una ragazza spagnola. Non hanno fatto niente, solo parlato, bevuto birra e parlato. Lei era incinta di quattro mesi, e aspettava il padre del bambino.

Uno che sarebbe dovuto venire dalla Calabria. Mauro per un momento ha ripensato a suo padre. Verrà presto, ripeteva lei. Lui non le ha detto niente, ma pensava che non sarebbe mai venuto, da come gliel’aveva descritto sembrava proprio uno che non sarebbe mai venuto. E poi, ha pensato senza dirlo, la vita è bastarda – ragazza –, approfitta di chi non sa difendersi, di chi non prende le dovute precauzioni. La vita aiuta solo chi è forte e tu non sembri il tipo di ragazza che la vita vuole aiutare.

La mattina si è svegliato sereno. Non ha sentito neppure l’urgenza di farsi un buco. Ha guardato la ragazza, lei ancora dormiva. Dovrai farcela da sola ragazza, lui non verrà, non verrà mai. Ha pensato. C’era un puzzo forte nel sottopassaggio, tanto forte e vicino che ha creduto che qualche gatto o cane avesse pisciato sui cartoni nella notte. S’è guardato intorno e ha visto un cane randagio accucciato non distante da lì. Era un cagnaccio dal pelo rado e nero. Ha raccolto una bottiglia da terra e gliela ha scagliata contro, il cane ha guaito ed è fuggito via. Lui ha riso. Ha guardato la ragazza spagnola, ancora dormiva. L’ha baciata sulla fronte e le ha sussurrato

«Difendilo, difendilo sempre il tuo bambino».

Le ha lasciato un po’ dei soldi che aveva con sé ed è uscito dal sottopassaggio.

S’è trovato il sole e il cielo limpido, azzurro, quello che sa regalarti solo Roma in primavera. Se l’era quasi scordato quel cielo chiaro e quel sole. Bentornato a casa si è detto e se l’è detto con tutto l’amore che era capace di darsi. E ha iniziato a camminare, fermarsi a una fontanella, bere e camminare di nuovo. Per un momento ha pensato che era quello il miglior modo di vivere: camminare, fermarsi, bere e camminare di nuovo.

Ora cammina lungo l’Appia antica, sul selciato mal messo dei sampietrini, là dove hanno camminato i cesari, i senatori, i patrizi romani. Là dove hanno camminato i grandi generali di ritorno dalle loro conquiste. Come lui.

Sono il glorioso generale che ritorna dalla campagna inglese.

Stanco e sconfitto. Umiliato. Poco male, è successo anche ai migliori. Sorride.

Qualche rara automobile gli sfila di fianco, alza una ventata di caldo che fa schioccare l’aria. Lui fa scivolare la mano sul muro alto, di pietra e tufo, coperto d’edera e lascia che il sole gli batta sul viso. Pensa a cosa dirà a sua sorella, dopo quegli anni senza mai scriverle, pensa al modo migliore per spiegarle la cosa… potrà mai capirlo sua sorella? E mentre ci pensa continua a girare tra le mani quel regalo idiota che le ha comperato e sente crescere la paura, la paura che sua sorella non capisca o capisca ma ugualmente lo mandi via… e non sarebbe sbagliato. Forse sarebbe la cosa migliore da fare, ma lui?

Lui che farebbe dopo?

Vorrà aiutarlo sua sorella? E perché dovrebbe?

Un’automobile grande, nera che ricorda quelle londinesi, s’avvicina e accosta. Il vetro viene giù lentamente, automatico.

«Ti serve un passaggio, ragazzo?»

Mauro infila la testa dentro il finestrino. L’uomo ha una faccia pulita, la pelle curata. Lo sguardo sembra sincero, buono.

«Da che parte vai?»

«In centro. Tu?»

«San Giovanni».

«Allora sali».

Mauro si sistema su quel sedile di pelle, morbido. Il cruscotto è in radica di noce, anche il volante. All’interno c’è un odore buono, di caramella. Istintivamente si passa una mano sull’orecchio, quasi volesse nascondere i nove diamantini infilati nella carne.

«È raro che la gente tiri su quelli come me…»

«Io sono uno raro».

Mauro lo guarda, mentre il sole riflesso dal vetro gli ferisce gli occhi. Quell’uomo gli sorride.

«È un’auto di lusso». è la prima cosa che gli viene da dire e si sente stupido.

«Sì, me la hanno fatta pagare come tale».

«Tu dove vai?»

«Al lavoro».

Mauro lo squadra attentamente. Indossa una camicia nera e ampia, aperta sul petto, i bottoni in passamaneria grandi come biglie e rotondi, neri anch’essi. Lo stesso nero dei suoi occhi.

I calzoni sembrano fuseau, c’è anche la staffa sotto il piede, non indossa calzini e porta delle scarpe di pezza, quelle che usano gli orientali, nere anch’esse. Per un momento sorride tra sé, pensando che è stato caricato da un frocio. Ma non ha lo sguardo del frocio.

«Lavori in teatro?»

«Lavoro in piazza».

Non ci crede che un tipo con un’auto del genere possa fare un lavoro di piazza, ma sta al gioco.

«E dov’è la tua attrezzatura? I birilli, le palle… i costumi?»

«Sono io la mia attrezzatura».

Mauro lo guarda stupito.

«Lavoro con il corpo».

«Che fai?»

«Il mimo».

Mauro ci pensa un momento, poi qualcosa dentro lo riempie di gioia, una gioia idiota, ingiustificata, ma gli piace immaginare un uomo che ha bisogno solo di se stesso per vivere, nient’altro che se stesso. Gli sembra di veder realizzato un suo sogno.

«Da dove vieni?» chiede l’uomo.

«Da Londra». Lo dice con un pizzico di vanità, sperando di riuscire a dare l’idea d’essere uno che ha vissuto. Che qualcosa ha vissuto.

«Londra?»

«Sì».

«E perché sei tornato?»

Mauro lo fissa incerto, suona come le altre, ma non è la solita domanda. Gli vibra dentro diversa, gli sembra come se quell’uomo sapesse. Sapesse ogni cosa, di suo padre, di sua sorella, di quello che è successo a Londra, di quello che era quando è partito e di quello che è diventato, di quella finestra aperta e mai oltrepassata. Deglutisce.

«Oggi è il compleanno di mia sorella», dice.

Ma lo dice come dovesse giustificarsi di qualcosa. L’uomo lo guarda: «Questo è il motivo per cui sei tornato?», lo chiede come se l’avesse scoperto a mentire, come se già sapesse che non è quello il vero motivo, che ce ne è un altro più profondo e grave e volesse comunque sentirglielo dire.

Lui annuisce.

«È questo il motivo».

L’uomo sorride. Sembra un sorriso sarcastico, falso.

È come se qualcosa gli scattasse dentro, come se invece di un sorriso avesse ricevuto un colpo violento allo stomaco, inatteso e reagisce, urla: «Vuoi sapere perché sono tornato?! Vuoi saperlo davvero?!»

L’uomo non risponde.

«Sono tornato perché non ce l’ho fatta!» secco, rabbioso.

Come un indiziato che confessa un delitto. E quell’attimo si sfoga di tutto, di tutto quello che a fatica teneva dentro.  L’uomo lo guarda con dolcezza e lui continua:

«Volevo farcela da solo: ma non ce l’ho fatta! Volevo dare un futuro diverso alla mia vita, a mia sorella e non ce l’ho fatta! Ecco perché sono tornato. Sono tornato perché sono una merda… e non ce la faccio da solo, non ce l’ho mai fatta, sono tornato perché da solo non riesco nemmeno a saltare giù da un ponte… ecco perché sono tornato… sono tornato perché … perché spero che lei abbia ancora la voglia di aiutarmi…» ha quasi paura di piangere, come un’idiota, come un debole, come uno di quelli che poi la vita non aiuta. «Niente di quello che volevo fare ho fatto. Niente… da solo ho fatto solo cazzate… io… Capisci?»

L’uomo annuisce. Resta calmo impassibile.

Fa passare qualche minuto.

«Capisco che ci hai provato», gli dice e stavolta non sembra una presa in giro.

Non insiste, non aggiunge niente. Come non ci fosse nulla da commentare, come non ci fosse nessuna sconfitta, quasi non fossero mai state dette quelle parole e Mauro rimane tanto incerto che dubita davvero d’averle urlate, magari le ha solo pensate, pensate e basta. Guarda quell’uomo e poi la strada davanti a sé. È deserta: non sembra neppure Roma. L’uomo fa calare un poco il vetro e comincia a canticchiare fra sé, a voce bassa, la melodia di Samba Pa-Ti, è una voce calda avvolgente. Poi si volta verso Mauro:

«Non ti piace?», chiede e torna con gli occhi sulla strada.

«Santana? L’adoro».

L’uomo sorride «E allora canta…», e Mauro gli va dietro e mentre canta sente tornare la tranquillità, gli sembra che tutto sia normale e dimentica molte delle sue paure. Gli sembra d’avere di nuovo la situazione sotto controllo. Quasi che avesse davvero una situazione da controllare. Gli sembra di nuovo che tutto quello che ha in testa sia possibile. Quasi che avesse davvero qualcosa in testa da realizzare. L’automobile si ferma a un semaforo rosso e l’uomo si volta verso di lui.

«Da quanto manchi da casa ragazzo?»

«Sei anni».

«E quel pacco è il regalo per tua sorella?»

«Oggi è il suo compleanno». ribadisce lui.

«Buttalo via».

Mauro lo guarda stupito, l’uomo gli sorride.

«Cos’è?»

«Una bambola».

«Una bambola?»

«Una bambola da collezione, a mia sorella piacevano».

«Buttala via».

Mauro continua a fissarlo con sospetto. Non sembra dire per gioco, come lui credeva al principio. Dall’altra parte s’accende la luce arancione. Un gesto rapido: l’uomo gli strappa quel pacco dalle mani e lo getta dal finestrino. Scatta il verde e l’auto parte.

«Ehi ma che cazzo fai?! Torna… torna indietro a riprendere la bambola… era… era il regalo per mia sorella…»

L’uomo fissa la strada davanti a sé, non risponde. Mauro si volta e guarda dietro, lungo la strada, la scatola già non si vede più. Si guarda intorno, sul momento non sa cosa altro dire, poi dice la cosa più ovvia.

«Non m’è piaciuto quello che hai fatto».

L’uomo impassibile continua a guidare.

«Ehi cazzo! Dico cazzo! Ma mi stai a sentire… che t’è saltato per la testa? Eh!? Che?» e così dicendo lo strattona per un braccio.

L’automobile sbanda. L’uomo senza scomporsi allora accosta al marciapiede e si ferma. Fissa Mauro, ma ancora non dice niente.

«Allora? Che cazzo volevi dimostrare? Eh? Ora mi ridai i soldi, ora mi ridai i soldi della bambola. Hai capito?», ripete Mauro mentre apre lo sportello e scende.

L’uomo rimane in silenzio, apre il cruscotto, c’è una montagna di soldi là dentro: «Fai tu». dice a Mauro, come potesse prenderli tutti.

Mauro si passa una mano fra i capelli, sbuffa, scuote la testa, ora sembra più calmo. L’uomo sorride. Gli mette fra le mani diverse banconote pesanti.

«Hei, era una bambola mica una Swarovski».

«Tienili, li darai a tua sorella. A lei servono».

Lui lo guada incerto, poi si infila quei soldi in tasca.

«Comunque il vero regalo è il tuo ritorno». dice quell’uomo sereno.

«E tu che ne sai?»

«Ho avuto una sorella anch’io».

Non aggiunge altro, solo l’improvvisa nostalgia dei suoi occhi e gli lascia intendere che se vuole può tornare a sedersi.

Passa un silenzio lungo e profondo, un silenzio che Mauro riempie di immagini e umori, ricordi e suoni, ed è sufficiente.

D’incanto sente sciogliere la rabbia che dentro covava. Tutta la rabbia, non solo quella dovuta alla bambola sparita, ma quella che da sempre gli ha circondato la vita. Gli sembra che dentro ci sia un maleficio che svanisce. E resta incerto perché accade tutto in quell’attimo di profondo silenzio. Torna dentro e trova tutto rassicurante in quella macchina dall’odore di caramella.

E quel regalo, quella bambola è come non gli fossero mai appartenute. È come se quell’uomo avesse ragione. Il vero regalo è il suo ritorno, non va confuso con nient’altro. E comincia a ridere, non riesce a trattenersi, incerto e imbarazzato continua a ridere.

L’auto riparte.

«A tuo modo sai dare tranquillità», dice l’uomo, forse scherza o forse è serio, estremamente serio. E Mauro riprende a ridere, fra tatuaggi e piercing e i capelli tagliati a quel modo, l’ultima immagine che può venire da lui è l’immagine della tranquillità. Eppure è ciò che prova in quel momento una profonda inspiegabile sensazione di tranquillità e gli sembra di poter parlare con quell’uomo in piena libertà.

Si guarda intorno, e non è neppure certo che sia la strada giusta, ma capisce improvvisamente che neppure questo è importante. Ora spera di non arrivare mai e rimanere lì per ore a parlare. Era qualcosa che si era dimenticato potesse accadere: confidarsi. Confidarsi con qualcun altro, consapevole che capirà. Trascorre altro silenzio, un silenzio che non chiede altro. Un silenzio che lavora e scioglie, come un buon medicinale, il malessere della vita. E Mauro l’avverte, lo sa e il merito è tutto di quell’uomo che viaggia su un auto di lusso e indossa vestiti da frocio.

«Sei straordinario, sai?» dice alla fine, lo dice e lo pensa e sa che non può tenerselo ancora dentro: esploderebbe.

«No, te l’ho detto: raro», lo corregge quell’uomo.

Mauro lo fissa e il mimo riprende a canticchiare: Santana, Samba Pa-Ti.

Ascoltando la melodia di quella voce Mauro socchiude gli occhi. L’attimo dopo ha paura, paura d’aprirli e trovarsi buttato nello scantinato buio d’un palazzo, con fuori la pioggia sottile e rognosa e il cielo cupo e scuro di Londra e la siringa ancora infilata nel braccio. Sì, quella paura.

Ha la maledetta paura d’aprire gli occhi e scoprire di non essere neppure riuscito a partire. Ha paura che sia tutta un’illusione.

Gli è capitato altre volte, tutto finto, tutto falso: tutto inutile. Non esiste un tipo così.

Un brivido l’attraversa. Non può starci troppo con quella paura indosso. Riapre gli occhi: il mimo è lì. E allora piange, piange d’una gioia che non gli ha potuto mai dare nessuno, neanche il primo buco. È tutto vero. Fiducioso s’asciuga le lacrime.

«Dove?», chiede l’uomo.

Mauro si guarda intorno: è il suo quartiere San Giovanni, poco è cambiato.

«La seconda a sinistra», risponde.

Sta a meno di un chilometro da casa e comincia a prenderlo una certa ansia, un inevitabile disagio. Stavolta reale, vero: pieno di ricordi. Ecco il giornalaio, il bar «Ora a destra». I primi palazzi della via. «Quasi fino in fondo alla strada» L’agenzia di pratiche auto di Ilde, chiusa. «Quel cancello verde». L’uomo si volta: «Quello mezzo aperto?», «Quello».

L’auto rallenta e poi si ferma. Non arriva al cancello. Una ragazza stende il bucato sui fili tesi nel giardino del cortile, un giardino un po’ malandato, ma ancora piacevole. Spicca un salice curvo che oltrepassa la rete e invade parte del marciapiede.

«È lei?»

«Si è lei».

«Non tradirla». Lo dice con fermezza, ma anche con amore e in un modo che non vuole repliche, né risposte. Poi spegne il motore e guarda Mauro.

«Fissami il centro della fronte» Mauro lo guarda stupito

«fissami nel centro della fronte», ripete l’uomo, Mauro obbedisce e la scatola con la bambola – col suo fiocco rosso e azzurro –, riappare in un istante nella mano aperta del mimo.

«Ehi! ma come… come…», tentenna Mauro.

«Magia». Dice l’uomo soffiando sul fiocco come farebbe un qualunque prestigiatore della televisione.

Mauro lo fissa ancora incredulo.

«Ricordati ragazzo, viviamo delle nostre fantasie. Ci alimentiamo di quelle, nient’altro. Le divoriamo una dietro l’altra, senza sosta. E poi, poi un giorno, senza una vera ragione, quel frullato di colori ci diventa indigesto… ecco, ecco che allora ci appare la realtà. Solidificata: immobile. Come una creta cotta che a modellarla si spezza. Ma non è così. Non è mai così, fin tanto che noi crediamo che non lo sia. La creta della vita si può sempre modellare, non secca mai».

«Sei tutto matto», risponde Mauro divertito, mentre stringe, ancora incerto, quel pacco fra le mani.

«Raro».

«Raro», si corregge Mauro. Ride. Si stringono la mano.

Mauro guarda sul fondo della via, poi scende.

«Mauro!», lo richiama l’uomo dal finestrino aperto.

«Si?»

«Tutti si cade prima o poi».

«E allora?»

«Per rialzarsi serve sempre uno, almeno uno che tenda una mano». Mauro continua a fissarlo. «Non è come credi tu. Nessuno può farcela da solo.»

Mauro annuisce, gli sorride e l’indica con un dito, come ha visto fare nei film. «Piazza Navona. Verrò a vederti. Sei un bel personaggio».

«Lo sei anche tu», dice il mimo prima d’andare via.

Compie ventuno anni sua sorella ed è come ne avesse vissuti trecento, pensa Mauro. Fissa quella casa, il giardino del cortile che affaccia sulla strada e quel cancello sempre mezzo aperto. Esita. Si volta per ritrovare coraggio, ma quella macchina non c’è più.

È sparita senza fare rumore. Forse non è mai esistita. Forse è semplicemente camminando, camminando e bevendo che è arrivato sin lì. Non importa, perché ora è li. Ma avverte salire la paura, quella paura strana sotto pelle, che graffia lo stomaco.

Frena i pensieri. Ora di nuovo si sente immerso di realtà, la sua cupa realtà. La tranquillità è sparita, insieme all’auto.

Che dirà a sua sorella? Tutto quel tempo senza darle notizie.

Come può credere di presentarsi lì come niente fosse, in quello stato, senza avvisarla. Per un attimo pensa di venire via; scivolare dietro il palazzo, riprendere l’aereo: partire di nuovo.

Dimenticare.

Poi scorge quello strano cane randagio dal pelo rado e nero. Fermo davanti al cancello di casa sua. Quello stesso della stazione. Sembra fissarlo. E lui alla fine si fa coraggio.

Avanza pieno di paura, mentre si fa coraggio.

Quando è a tre metri l’impulso di fuggire è ancora forte e allora, con l’ultima stilla di coraggio, strilla il suo nome. La chiama, anche se ancora non sa cosa dirgli, anche se non ha preparato nessun discorso, anche se non ha in testa nessuna parola: la chiama. Lei si blocca, è stupita, sorpresa, le scivolano i panni di mano, ha riconosciuto quella voce, dopo un attimo di incertezza si volta, deglutisce, trema e poi gli corre incontro. Arriva fino quasi a toccarlo, ma si ferma, resta diversi istanti immobile davanti a lui. Scuote la testa, sembra incerta.

Lui la fissa, è ancora dolcissima. Lei l’abbraccia.

Lui ha ancora un’enorme paura, l’enorme paura che lo manderà via, che non se la sentirà di aiutarlo. Ma sa che deve scioglierla in quella stretta.

A lei mancava da anni quell’abbraccio. Guarda il viso del fratello. Appoggia la testa sulla sua spalla, quasi ce l’abbandona.

E poi piange. Dopo il pianto alza la testa: «Sono stanca Mauro. Tanto stanca e ho paura, l’enorme paura di non farcela più», lo sussurra improvvisamente nell’orecchio di lui.

Per una frazione di secondo, per una minuscola frazione di secondo dopo quelle parole Mauro pensa proprio di scivolare via e fuggire. Perché è tossico. Perché sa di non avere nulla da offrirle. Perché è spiazzato, perché fino ad un momento prima pensava d’essere lui quello che doveva essere aiutato.

Perché teme che gli mancherà la forza per aiutarla. Ma poi si ricorda il volto dell’uomo che l’ha accompagnato sino a lì: il suo sguardo. Lo strano sorriso. Sei uno che sa dare tranquillità gli ha detto quell’uomo straordinario e non scherzava. E allora ci crede. Vuole crederci fino in fondo. Modellare la creta come se non fosse già cotta.

«Non devi aver paura. Sono tornato Claudia. Non devi più aver paura di niente. C’è tuo fratello».

Lo dice rapido senza neppure darle il tempo d’avvertirla per intero quella enorme paura e col palmo aperto della mano le carezza la nuca, in quel modo delicato, che lui sa, da sempre le infonde sicurezza.