I racconti del Premio letterario Energheia

Schegge di Simona Barbati, Casamarciano(NA)

 _Racconto finalista ventesima edizione Premio Energheia 2014.

alberi7Quando lo trovarono, nessuno si stupì, così come nessuno si sforzò di mostrarsi colpito.

Il destino di Oliver Carter sembrava essere stato sempre quello, anche se non si sapeva perché. La sua figura non riusciva ad inquietare o suscitare simpatia; vedendolo arrivare, la gente non scappava; trovandolo seduto ad un tavolo all’aperto, mai lo stesso, dello “Zeke”, non si fermava a parlare con lui. Solo, gli altri gli giravano attorno, con espressioni vuote.

Oliver Carter non chiedeva aiuto, ma sembrava a tutti che ne avesse bisogno. Non era, di certo, una persona malvagia, ma nessuno conosceva abbastanza dei suoi giorni da poterlo definire un uomo buono.

Alcuni credevano che fosse cieco, altri che fosse sordo.

L’unica persona che lo avesse mai ascoltato parlare era il cameriere più giovane dello “Zeke”, anche se la discussione si era limitata all’ordinazione di un caffè. Con molto zucchero.

Da allora, il ragazzo glielo aveva semplicemente portato così come lo voleva, senza che fosse mai stato più necessario che gli venisse chiesto. Lasciava al cliente cinque, sette minuti di ozio, durante i quali potesse fissare qualcosa di indefinito, per poi servirlo al tavolo e ricevere sempre lo stesso “grazie”.

 

La voce di Oliver Carter era profonda, striata di maturità e consapevolezza che non avrebbe dovuto avere.

Guardandolo, non sembrava che avesse più o meno dei suoi trent’anni. I suoi capelli erano castani, vagamente ondulati, e sussultavano piano nel vento calmo, senza mai scomporsi del tutto. Anche se lui non faceva nulla per tenerli in ordine, nemmeno riavviarli con una mano.

Il suo viso aveva una forma appuntita, e sulle guance magre si intravedeva, sottopelle, la barba che sembrava radere ogni giorno.

Contro il pallore della carnagione, gli occhi scuri erano quasi incoerenti per la profondità.

Non c’erano riflessi di luce, nelle sue iridi, ma, attorno ad esse, una linea nera, sfumata tanto da sembrare grigia. Quasi nessuno era mai riuscita a notarla.

Indossava jeans slavati, maglie bianche o grigie, anonime, che profumavano sempre di bucato.

Oliver Carter viveva in un appartamento piccolo, al primo piano di un condominio piccolo. Dalla strada si vedeva soltanto il balcone, chiuso in una veneziana color verde bottiglia. Arrampicandosi alla ringhiera – smaltata di bianco, ma in più punti corrosa dalla ruggine – cresceva una pianta dai piccoli fiori rosa, che si raggruppavano in bouquet e sembravano frutta candita.

Persino quando lui era in casa, il silenzio era quasi assoluto. Soltanto, spesso si sentiva il rumore della macchinetta del caffè, quando la caricava appoggiando il corpo inferiore al marmo scadente del piano della cucina. Poi, piano, il mormorare del caffè che saliva, del cucchiaino che sbatteva contro la porcellana delle zuccheriera. Più e più volte. Spesso si sentiva il rumore dell’acqua corrente e dei piatti appoggiati sul lavandino ad asciugare, o della lavatrice.

Nessuno sapeva cos’altro facesse, tacendo.

Tutti lo consideravano pazzo.

 

Oliver Carter si suicidò di domenica pomeriggio.

Era un’ora calda e luminosa, quando versò nel proprio caffè una goccia di veleno e lo bevve, appoggiando la testa agli avambracci pallidi, incrociati sul tavolo quadrato,coerentemente piccolo, e chiudendo gli occhi.

Chiunque era convinto che fosse stata la solitudine ad ucciderlo. Ognuno ammirava la compostezza della sua fine, il profumo che la casa aveva quando il giovane cameriere, preoccupato per la sua prolungata assenza, senza che alcuno trovasse bizzarro il suo gesto, aveva bussato alla sua porta, e, dopo averla forzata, lo aveva visto.

Tutto era in ordine, come se l’uomo aspettasse qualcuno. Solo, a qualche centimetro da lui, la tazzina sporca. Sul lavandino una pentola, un piatto fondo, un cucchiaio, un bicchiere. Nella camera da letto, le coperte al proprio posto, un quadro triste appeso storto.

Vi era raffigurata una donna vestita di nero, in una moda ottocentesca ma semplice, che guardava torva lo spettatore. Eppure, nell’incoerenza di quella posizione, il suo sguardo sembrava addolcirsi, le sue labbra piegarsi, verso destra, in un sorriso sghembo. Comprensiva ma diabolica. La gente lo aggiustò sul chiodo, raddrizzandolo, donando di nuovo alla donna la proprio tristezza.

Oliver Carter fu portato via e sepolto senza una lapide, perché nessuno ne aveva pagata una, sotto un cipresso malato.

Molti visitarono la sua casa. Lo spettacolo era abbastanza macabro da interessare le persone. Mentre la polizia non faceva nulla – in fondo non restava di lui che un nome – gruppi di ragazzi frugavano fra le sue cose, rubandone alcune, deridendone altre.

 

Oliver Carter mi amava.

Odiavo che i miei stessi amici seguissero il branco e si riversassero in casa di quello sconosciuto, violando il suo passato. Eppure, una sera, una settimana dopo la sua morte, bussarono alla mia porta. Mi conoscevano troppo a fondo, da troppo tempo per cercare di avvertirmi, per dirmi di sedermi e respirare.

Appena chiusa la porta alle proprie spalle, non fecero altro che estrarre dalla borsa diversi quaderni di pelle marrone, alcuni con le pagine ingiallite, altri più recenti; tutti, però, erano disordinati, a causa di molti fogli che si erano staccati e non erano mai stati incollati al proprio posto, ma tenuti nella posizione che spettava loro, giorno dopo giorno, soltanto trattenendoli con una mano quando cercavano di perdersi.

Non ebbero il coraggio di ridere, né di spiegare.

“Leggili.” Dissero. “Noi ci siamo fermati, ad un certo punto.”

Mi lasciarono sola, quasi scappando mentre chiedevo loro cosa fosse accaduto, mentre dicevo di non avere alcun diritto su quelle pagine.

 

La sua calligrafia era fitta, a tratti incomprensibile. Usava una penna nera qualsiasi, cancellava spesso con linee nervose, talvolta con scarabocchi circolari.

Lessi la descrizione di una ragazza dai capelli castani, gli occhi scuri, le mani gentili.

Nel cuore della seconda pagina, lessi: June Charmichael.

Il quaderno mi cadde dalle mani, dalle quali era defluita ogni forza, a terra, con un rumore secco.

Io non avevo mai conosciuto Oliver Carter, non gli avevo mai detto il mio nome.

Mi capitava soltanto di vederlo ogni giorno, seduto ad un tavolo dello “Zeke”, a fissare il niente. Ma capii che i suoi sguardi erano stati infinitamente discreti, mentre passavo accanto a lui, ridendo, senza guardarlo.

Forse aveva afferrato il mio nome quando qualcuno dei miei amici lo aveva gridato per strada.

Era rimasto per scoprire qualcosa di me, scheggia dopo scheggia.

 

Oliver Carter mi aveva creata, così come credeva che fossi, e mi aveva amata.

Quando ebbi il coraggio di riprendere la lettura, rabbrividii della sua capacità di capirmi. Poche erano le caratteristiche del mio carattere che non era riuscito a cogliere, e le parole che pagina, dopo pagina, dopo pagina usava per descrivermi erano intrise di una dolcezza disperata.

Mentre lui aveva speso la propria vita, da quando mi aveva vista per la prima volta, a fare di me una dea, io mi ero avvicinata appena quanto bastava per avvertire il suo profumo.

Ricordai un solo sguardo che, una volta, ci aveva legati. Ricordai quella linea di materia abissale attorno alle sue iridi, e sentii tutta la sua sofferenza.

Non riuscivo a sentirmi colpevole della sua morte, e mai nessuno fra coloro che vennero a conoscenza della storia credettero che avessi mai avuto a che fare con lui.

Tuttavia, avvertivo nelle sue parole il vuoto lasciato da un futuro mai vissuto, lo stesso che sentiva anche lui, e che scrivendo aveva forse cercato di colmare. Riuscivo a soffrire dell’assenza di quell’uomo che mi aveva scritto lettere lunghe pomeriggi e notti intere.

 

Fra noi c’erano stati tredici anni di differenza. Avevo soltanto diciassette anni, ma si era innamorato di me, dell’immagine di me che le sue notti insonni avevano nutrito.

Oliver Carter mi aveva amata in un terrificante, dolcissimo delirio.

Oliver Carter mi aveva amata ed aveva preferito morire, piuttosto che interrompere la mia vita. Non riusciva a considerarsi altro che sofferenza.

 

“Lascerò che tu sia mercurio liquido nelle mie vene. Scorrerai, fin quando dovrò cedere al dolore.  Mai, tuttavia, ti permetterò di sbagliare con me; amore mio, mai ti permetterò di amarmi.”

 

Strappai all’oblio l’immagine di lui, e lo conobbi, scheggia dopo scheggia. Parlai con il cameriere, ricostruii le onde della sua voce, lo rividi mentre sedeva al tavolo.

Imparai a riconoscere il suo fantasma immobile, con i capelli bagnati dal sole.

Visitai sempre più spesso la sua casa.

Vidi la donna triste. E capii che non era stato un caso.

Lui aveva avuto bisogno che quella donna lo guardasse con dolcezza, aveva desiderato che fosse sua complice. Mi sembrò così ovvio che lo sentii accanto a me, assorbii ciò che di lui permaneva in quella casa, senza poterlo mai stringere. Mentre lacrime che spaventavano persino me mi incollavano le ciglia, rimisi il quadro così come lui lo aveva lasciato.

Nella cassettiera troppo grande trovai tutte le sue maglie. Azzurro cenere, verde molto scuro. Bordeaux. Il mio colore preferito.

In un altro cassetto, trovai fogli di tutte le dimensioni, interamente colorati di nero con un carboncino. Mi sporcai le dita. Il mio battito accelerò. Richiusi il cassetto con un movimento isterico.

 

Non aveva mai desiderato distruggermi, ma, anche se contro la propria stessa volontà, non aveva potuto fare a meno di attrarmi. Mi aveva chiamata.

Fare ciò che, probabilmente, aveva sperato che facessi richiese tempo.

Ma, un giorno, mi distesi sul suo letto, su un fianco, e respirai il suo odore nel cuscino. Era molto più che detersivo, o caffè. Era il profumo di un uomo, l’odore che il sole lasciava sulla sua pelle.

Era lui stesso che si raccontava a me, nelle lunghe lettere dei quaderni. Tutto ciò che recuperavo di lui non era mai abbastanza, ma lui mi parlava dei suoi capelli, mi descriveva le ossa delle sue mani e le vene sul suo avambraccio.

E mi spiegava a me stessa. Parlava dei miei occhi, diceva che erano oppio. Ricordava le scaglie nere che si irradiavano dalla mia pupilla, come quelle attorno al polline dei papaveri.

Non riuscivo a non perdonargli il suo desiderio di avermi accanto, perché sentii distintamente la sua assenza, il bisogno delle sue braccia pallide attorno alla mia vita, la sua voce nella mia testa, per dirmi che non era mai davvero andato via, che non stavo sbagliando a venerare un uomo morto.

Non mi bastava più che mi descrivesse le sue giornate, che mi parlasse dell’eco nella casa troppo vuota, dei fiori sulla ringhiera, o che mi insegnasse quanti cucchiaini di zucchero gli piacevano nel caffè. Tre normali, tre da tè. Volevo averlo accanto, così come lui aveva voluto me, volevo scoprire il nome di quella pianta, inventarlo se neanche lui lo avesse saputo, volevo imparare a preparargli il caffè.

Amavo ogni singolo tratto su quelle pagine, perché nulla di lui mi era rimasto. Seguivo, piangendo, il corso delle parole, lo ritrovavo quando si fratturavano o accarezzavo le linee senza più un senso, in quelle pagine che avevo trovato piegate, come se avesse provato vergogna nel mostrarmele.

Sapevo che quelle erano le ombre di cui mi parlava a volte, che si annidavano agli angoli delle pagine. Lo trascinavano via sempre più spesso, e di notte tornavano. Amava quando arrivavo a diradarle e restavo per tenere la sua testa fra le mani, fin quando il battito non fosse tornato regolare.

Lui credeva di aver fatto bene a morire prima che lo conoscessi davvero, ma ora la sofferenza di non avere più il suo corpo vivo era lancinante.

Non avevo neanche un suo sorriso. Non sapeva parlarmene. Se avessi potuto immaginarlo, tutto sarebbe stato più difficile, ma per un attimo, un istante soltanto della sua gioia, seppur riflessa, anche se assopita, avrei sopportato tutto il resto.

 

Non fu la ragione a lenire il sentimento che avevo imparato a provare per Oliver Carter, ma soltanto il tempo.

I mesi mi insegnarono quale fosse stato il suo dolore.

Non era stata la solitudine, non ero stata io ad ucciderlo.

Oliver Carter non sbagliò ad innamorarsi di me, mai gliene feci una colpa. Riuscii a riamarlo. Non aveva mai smesso di tenere insieme tutti i suoi pezzi – le schegge, il vuoto – con grazia e forza, resistendo, prima di andare.

Non ero stata che l’ultimo atto, l’ultimo dolore, l’unico davvero dolce.

Nonostante ciò che ci legava, non potei fare altro, per Oliver Carter, che sanare il cipresso sulla tua tomba, alle cui radici immaginavo legarsi le sue vene bellissime, verso i cui rami vedevo le sue iridi rivolgersi, contemplando il mondo che non era mai riuscito ad odiare.