Scrittura e coscienza storica, Emanuele Cerullo
Tema affrontato in occasione della XXVII edizione del Premio letterario Energheia, 2021
Spesso mi si chiede di tenere lezioni di scrittura creativa, ma io non so come si faccia ad insegnare a scrivere e quindi non esiste, da quando ho iniziato a scrivere cioè grossomodo a 12 anni, neanche una mia lezione di scrittura creativa perché io non so come si scrive, so solo che si deve scrivere. Ognuno è spinto da una necessità ben precisa che non necessariamente debba coincidere con un’altra. Per l’incontro di questa sera ho riflettuto molto sul concetto di creatività e quindi mi sono chiesto: ma siamo davvero sicuri che la scrittura sia solo creatività? La risposta è nel titolo che ho voluto dare a questo incontro. “Scrittura e coscienza storica”. È fin troppo radicato il pregiudizio che vede nell’ispirazione un atto romanticamente innato, magico, frutto di sollecitazioni provenienti da sentimenti ed esperienze della nostra quotidianità.
Esperienze e sentimenti ricoprono senz’altro un ruolo importante nella psicologia dei personaggi e nello svolgimento della storia, ma io mi soffermerò sul rapporto tra scrittura e storia, e su quest’ultimo termine, storia, che oggi, tra Facebook e Instagram, sta ad indicare un contenuto multimediale di quindici secondi pronto a sparire dai radar dei nostri smartphone 24 ore dopo, in realtà ha avuto una certa importanza nella nostra letteratura. Quindi non mi riferisco nemmeno alla storia che si studia a scuola, perché essa ignora alcune cose che sono fondamentali per l’armamentario dello scrittore.
A tal proposito entro subito nel merito dell’argomento leggendovi questa frase: la storia è “una scrittura continua di privilegiati”, ecco perché se un giovane scrittore ha coscienza storica potrà illuminare sulla pagina esperienze e sentimenti di chi privilegiato non è stato, trasmettendo ai lettori un’altra storia. La frase che vi ho citato, ad esempio, è tratta da Il sorriso dell’ignoto marinaio, un romanzo di Vincenzo Consolo pubblicato nel 1976. Il titolo del romanzo fa riferimento al Ritratto d’ignoto marinaio di Antonello da Messina.
Prima di parlare rapidamente di alcuni temi importanti di questo romanzo volevo contrapporre a questo sorriso di un ignoto marinaio quello di un uomo tutt’altro che ignoto. È il sorriso di Borso d’Este, duca di Ferrara nel 1471. Questo è un sorriso benevolo e paterno, ritrae il duca nell’atto di pagare un buffone di corte. Questo ritratto è un particolare del mese di Aprile conservato nel Salone dei Mesi all’interno del Palazzo Schifanoia di Ferrara. Gli artisti che hanno realizzato queste opere appartengono alla scuola artistica ferrarese che gravitava nell’ambiente del potere politico espresso dalla potente famiglia estense, infatti il Salone dei Mesi è stato realizzato proprio per esaltare , con finalità naturalmente propagandistiche, le gesta del potere sulla città.
Il gesto del duca che consegna una moneta al buffone di corte vuole trasmettere un messaggio concreto: io sono con voi, io sostengo gli artisti della mia corte. In realtà lo stesso autore di quest’opera, Francesco del Cossa, dovette accogliere un netto rifiuto da Borso d’Este alla richiesta di un compenso più dignitoso. Quindi l’immagine di un Borso d’Este generoso e accogliente con gli artisti (un’immagine che vediamo in questo ritratto e anche nell’Orlando furioso di Ariosto) non corrisponde alla realtà dei fatti. Il potere vuole conservare, perpetuarsi, vuole trasmettere ai posteri il proprio linguaggio dell’ottimismo, un ottimismo autoassolutorio, confortante anche per i posteri, ma fino a un certo punto, cioè fino a quando non si scava a fondo per svelare i meccanismi di quel potere. E questo spetta anche allo scrittore. E il ritratto d’ignoto marinaio è la controparte del ritratto del duca potente. Due sorrisi, due ritratti realizzati negli stessi anni, due storie da raccontare, una storia che non è quella trionfalistica, non è quella che ancora domina nella scuola, non è la storia delle gesta straordinarie dei potenti che addirittura ci inducono a credere che solo la nostra sia un’epoca di confini e disuguaglianze. E le disuguaglianze di ieri ci aiutano a riconoscere quelle di oggi, il che non è semplice, perché questo bombardamento quotidiano di notizie, di pubblicità, tende semmai ad omologare l’uomo facendogli accettare lo stato delle cose.
Non so se avete presente la pubblicità che si vede spesso su La7: un giovane papà che, poveretto, si sveglia nel bel mezzo della notte perché il suo bimbo piange. E allora lui per tranquillizzarlo lo porta in giro, sta in auto, prende il cellulare per pagare con l’app, si sente il suono della notifica di avvenuto pagamento e il bimbo non piange più. È questo il punto, no? Essere buoni e ubbidienti consumatori. In questa pubblicità non farete fatica a riconoscere il buffone di corte e Borso d’Este. Ma il marinaio ritratto in questo dipinto di Antonello da Messina diventa un pretesto, per Vincenzo Consolo, per riflettere sul ruolo dello scrittore nella società.
Quante volte abbiamo visto le piramidi egiziane? Dei faraoni ci è stato tramandato qualcosa. Ma degli uomini che hanno costruito quelle piramidi, invece, cosa resta? Ecco, Il sorriso dell’ignoto marinaio, ambientato nella Sicilia risorgimentale, racconta una rivolta popolare di contadini, tenete presente che le rivolte non sono rivoluzioni, perché la rivoluzione trasforma lo stato delle cose, la rivolta, invece, vuole sovvertire lo stato delle cose ma senza riuscirci. In questo caso è la rivolta dei contadini contro i nobili, contadini che rivendicavano i loro terreni all’indomani dell’irruzione garibaldina, ma i rivoltosi saranno poi presi e giustiziati. Ma chi è che funge da tramite? Di certo non un contadino, che può farsi testimone, per ragioni di formazione, di una tradizione tutto sommato orale. Il Barone di Mandralisca, che è appunto uno dei protagonisti di questo romanzo di Consolo, è lui che riflette su queste disuguaglianze. E questo libro esce in un periodo, gli anni Settanta, in cui si impone in Italia una corrente di ricerca storiografica che abbiamo imparato a chiamare la microstoria. La microstoria pone in rilievo le culture locali, regionali, e quindi arricchisce con originalità questo grande puzzle che è l’Italia. Perché lo storico si immerge nelle fonti delle epoche passate ed estrae una cultura che è quella bassa, quella del mugnaio friulano del Cinquecento (penso a Il formaggio e i vermi di Ginzburg), ma anche ai vari riti sciamanici praticati anche qui, nel nostro paese. Ma questa cultura bassa, in contrapposizione alla cultura “alta” che è quella borghese, la troviamo anche ne Il mare non bagna Napoli, un’opera di Anna Maria Ortese che guarda nei vicoli miseri e grondanti di vitalità della Napoli del secondo dopoguerra. Naturalmente la mano che scrive non è quella del popolano privo di istruzione, è pur sempre filtrata dall’aspetto intellettuale, se vogliamo borghese, che è lo stesso con cui ha combattuto Pier Paolo Pasolini, che da un lato era immerso nel sottoproletariato urbano, e da un altro lato era cosciente della sua estrazione al punto tale da detestare il ceto al quale lui stesso apparteneva. Ma quel libro della Ortese, apprezzato, peraltro, da Pasolini, è stato a sua volta la contrapposizione della sua raccolta d’esordio, Angelici dolori, e lei stessa più tardi affermerà che in quell’opera prima “manca la storia”. La storia, o meglio, la coscienza storica, sarà appunto preponderante ne Il mare non bagna Napoli. Napoli che è stata la città più bombardata d’Italia. Non a caso in aula ho introdotto la mia lezione sulla Liberazione facendo ascoltare, certo, Bella Ciao, ma anche la Tammurriata Nera.
A Napoli c’è stata tutta una generazione di figli della guerra, ossia di bambini nati dalla relazione tra una napoletana e un soldato americano. Ma oggi i giovani non hanno idea di quanta sofferenza, quanta miseria, quanta disperazione ci fosse a Napoli, non sanno che molte donne napoletane mettevano a prostituire le figlie, non sanno che molti napoletani prendevano l’acqua dal mare, non sanno che un soldato inglese, Norman Lewis, ha tenuto un suo diario, pubblicato da Adelphi, Napoli ’44, che è un affresco lucidissimo di quei giorni.
Da uno scrittore siciliano di cui vi ho appena parlato, Vincenzo Consolo, passiamo ad un suo conterraneo, Leonardo Sciascia, che di libri ne ha pubblicati tanti ma la sua opera alla quale era particolarmente legato si intitola Morte dell’inquisitore. Il titolo dice già molto. Conosciamo tante vicende di eretici bruciati vivi. Quest’opera di Sciascia, che si regge su uno stile che fonde la narrativa e la saggistica, sintetizza molto bene il senso di queste mie riflessioni. Diego La Matina, che è il fulcro dell’opera sciasciana, è un religioso ma soprattutto un libero pensatore, un uomo che viene considerato eretico ma che si ribella e, con le catene spezzate, ferisce a morte il suo inquisitore. Quello di Diego La Matina è un caso più unico che raro: un detenuto che riesce ad uccidere il suo inquisitore. Diego La Matina è realmente esistito, ed è qui che storia e letteratura diventano una cosa sola. Le ricerche di Sciascia, le sue letture, l’hanno portato a conoscere questo suo conterraneo, perché anche Fra’ Diego è di Racalmuto. E lo stesso Sciascia ha motivato la scelta di occuparsi di questa vicenda denunciando la persistenza dell’Inquisizione nel mondo. Non è vero, afferma sostanzialmente Sciascia, che l’Inquisizione è sparita. La ritroviamo anche oggi, con altre forme, ma c’è ancora. Pensiamo ai tanti casi di body shaming, al revenge porn, ma anche al conformismo del pensiero unico politicamente corretto, pensiamo al popolo dei social.
Perché io oggi sono qui a oscillare tra citazioni, opere letterarie, episodi della nostra storia, canzoni, sorrisi di potenti e di marinai? Perché sto qui a parlavi di quanto, nella scrittura, sia importante la coscienza storica? La stessa coscienza storica che mi induce a credere che tra l’innocenza di una donna uccisa da Al Qaeda l’11 settembre e l’innocenza di un bambino ucciso dalle nostre bombe non c’è, in realtà, nessuna differenza… Perché questo mondo ci sta sradicando e i giovani, questi giovani che dal 2007 sono i destinatari principali dei miei libri, che incontro spesso nelle scuole, questi giovani non possono permettere tutto ciò, altrimenti tenderanno a patire la storia, consciamente o meno. Ma anche perché noi siamo i nostri luoghi e spetta a noi ritrovare e cospargere come il grano i frammenti sparsi della nostra memoria collettiva. Una memoria collettiva che è memoria dei nostri luoghi, delle nostre individualità in quanto uomini.