La storia, i personaggi, gli eventi

Sessantotto e Musica. La musica ribelle

_di Stefano Bianchi

Un momento della serata dedicata al Sessantotto con Augusto Illuminati e Alberto Scarponi

L’utopica stagione del “Flower Power” si trasforma con il 1968 in una dura realtà di lotta. La canzone italiana scopre la voglia di combattere transitando dal Festival di Sanremo alle piazze. Il suo è un cammino non facile, inizia dall’impegno di Fabrizio De André e di Francesco Guccini per proseguire col furore militante di cantautori come Paolo Pietrangeli, che si riappropriano della tradizione folk per dare voce agli studenti e agli operai. In America e in Inghilterra, all’indomani dell’esplosione psichedelica, il rock cerca invece di mutare pelle: attraverso il timido approccio politico dei Beatles, la violenza blues dei Rolling Stones, l’imprevedibile religiosità di Bob Dylan, il ribellismo autolesionista di Jim Morrison e di Jimi Hendrix, la rabbia freak di Frank Zappa.

LA CONTESTAZIONE DEI CANTANTI ROCK

I MITI MUSICALI DEL ’68

Per meglio focalizzare il 1968 della musica in Italia è necessario fare un passo indietro. Sanremo 1967: il suicidio del cantautore Luigi Tenco, in gara con il brano Ciao, amore, ciao, produce l’effetto di scardinare un’epoca, grida: «basta» al conservatorismo festivaliero, preannuncia l’imminente rivoluzione culturale. E caratterizzerà non poco il successivo festival. Visto in superficie, Sanremo ’68 era la copia carbone dei precedenti: melodie all’italiana costruite su ritornelli da mandar giù a memoria. Nella sostanza fu invece “sessantottesco”: il primo posto ottenuto da Sergio Endrigo con Canzone per te pose infatti all’attenzione del grande pubblico un artista introspettivo, del tutto estraneo alle mode e di fede comunista. La stampa specializzata, e in particolare il periodicoMusica e Dischi, non mancò di sottolineare che «Sanremo è sempre una tappa importante, per il tormentato cammino della canzone italiana, ed è un fatto estremamente positivo che questa volta il giudizio popolare non si sia lasciato accecare dal divetto commerciale o dal cantante alla moda (che in ogni caso potranno rifarsi sul piano delle vendite, beninteso), ma abbia mobilitato la sua scelta con una serietà che nessuno, forse, si era attesa. La lezione di Tenco non è stata inutile, dopotutto: e ci sembra, questa, la conquista più autentica che traspare dai risultati della rassegna».

Quelli di Tenco e di Endrigo non furono comunque gli unici esempi di una tensione musicale palpabile che in seguito andrà ad acquisire una valenza politica. Basti pensare a Fabrizio De André, sino a quel momento confinato ai margini del business discografico per via delle sue battaglie contro il moralismo borghese, che alza orgogliosamente la testa e incide l’album Tutti morimmo a stento, ispirandosi alle poesie di François Villon; quindi, compone i versi di Senza orario senza bandiera, entrando “rivoluzionariamente” in contatto con il rock dei New Trolls. De André riannoderà i fili del ’68 cinque anni più tardi con Storia di un impiegato, tratteggiando la solitaria e disillusa ribellione di un uomo avvinto dal maggio studentesco francese.
E basti inoltre ricordare Francesco Guccini, folksinger votato a Bob Dylan e autore di sontuose pagine cantautorali come AuschwitzDio è morto (all’epoca cancellata dalla programmazione Rai) e Noi non ci saremo.

Eppure, scorrendo le classifiche dei dischi più venduti in quell’anno non troviamo traccia di canzoni barricadere. Semmai, nascosti nel grande mare nazionalpopolare di Gianni Morandi, Caterina Caselli, Al Bano e Mino Reitano, i germogli di un qualcosa che stava lentamente mutando: Patty Pravo che sfodera unghiate protofemministe nella canzone La bambola; Enzo Jannacci che, conVengo anch’io? No tu no Ho visto un re (parole di Dario Fo), trasferisce il cabaret dall’élite alla massa; Paolo Conte che scrive Azzurro e la regala ad Adriano Celentano; Lucio Battisti che con Balla, Linda pone le basi di una carriera straordinaria, da indiscusso innovatore della musica. Furono però piccole turbolenze. Troppo piccole per poter davvero scuotere il sistema. A prevalere fu l’illusione che il Flower Power, la stagione dei fiori e della felicità importata dal mondo anglosassone, dovesse protrarsi in eterno. Che lo slogan: «mettete dei fiori nei vostri cannoni», intonato dai Giganti in Proposta al Festival di Sanremo ’67, fosse il lasciapassare per un duraturo benessere pacifista.
La canzone politica

Ci volle allora il ’68 della musica ribelle per mandare all’aria tali convinzioni. Un ’68 che per poter uscire allo scoperto prese le distanze dalla luccicante vetrina della hit parade radiofonica e impose la propria forza alimentandosi di canzoni in presa diretta, di cronaca sociale e politica, di messaggi di lotta. Un passaparola che si mise a viaggiare di cantina in cantina, di corteo in corteo. E per dare forma alla protesta furono sufficienti una voce e una chitarra acustica.

Le canzoni del cosiddetto “impegno”, intonate in compagnia perseguendo un’idea di spettacolo estemporaneo, on the road, senza barriere ma soprattutto estranee ai santuari della musica (il palcoscenico sanremese, le sale di registrazione), traevano spunto dal patrimonio folklorico nazionale che due gruppi in particolare – Cantacronache e il Nuovo canzoniere italiano – avevano riscoperto e reinterpretato. Il primo, formatosi a Torino nel 1957 e supportato da scrittori quali Eco, Calvino, Fortini e Rodari, combatteva il disimpegno canzonettistico dando voce alla cronaca pressante e all’attualità politica. Per farlo, oltre alla ricerca etnomusicologica approcciò gli chansonniers francesi alla Brassens, considerati maestri d’armonia, pulizia del verso e ironia. Il Nuovo canzoniere italiano, nato a Milano negli anni ’50 attorno al lavoro di Gianni Bosio e Roberto Leydi, due studiosi del movimento operaio, cominciò invece ad approfondire il canto popolare entrando poi in contatto con Cantacronache.

Dalla palestra cantautorale del Nuovo canzoniere italiano ebbe modo di emergere Paolo Pietrangeli, romano, figlio del regista cinematografico Antonio Pietrangeli e autore di Contessa, il brano promosso ad “inno nazionale” del movimento studentesco sessantottino. Composto due anni prima, durante l’occupazione dell’Università di Roma in seguito all’uccisione dello studente Paolo Rossi per mano fascista (27 aprile 1966), diviene popolarissimo in tutte le manifestazioni politiche, al pari di Bandiera rossa e dell’Internazionale.

Questa canzone-simbolo che si snoda lungo versi crudi, da spietata cronaca nera, come: «E quando è arrivata la polizia / Quei pazzi straccioni han gridato più forte, / Di sangue han sporcato il cortile e le porte, / Chissà quanto tempo ci vorrà per pulire…», era, lo ha ricordato di recente Pietrangeli, «un canto di libertà, non di mediazioni, che canalizzò intenzioni e furori di quel momento. Era scritta da uno del movimento: molti la conoscono, ma non tutti sanno chi l’ha composta. Era il nostro vezzo scrivere canzoni che fossero patrimonio di tutti. Ma fra i segreti del successo c’è una ragione tecnica: il ritornello è un dodecasillabo, ideale per la marcia».

Un’altra sua composizione, intitolata Valle Giulia («Hanno impugnato i manganelli / E hanno picchiato come fanno sempre loro; / Ma all’improvviso è successo / Un fatto nuovo: / Non siam scappati più!…»), e nata in contemporanea con gli avvenimenti del 1° marzo a Roma durante i quali un corteo di studenti, caricato dalla polizia davanti alla Facoltà di Architettura, rispose all’attacco con lanci di sassi e uova, viene proposta ai militanti alla stregua di modello comportamentale.

 

Pier Paolo Pasolini, interpretando l’ostilità della sinistra nei confronti del “ribellismo” studentesco identificato come protesta dei cosiddetti “figli di papà”, esplode in una feroce requisitoria poetica: «Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte / Coi poliziotti, / Io simpatizzavo per i poliziotti / Perché i poliziotti sono figli di poveri».

Sempre secondo Paolo Pietrangeli, «una canzone doveva entrare in sintonia con quanto accadeva, con quanto si sentiva». E confrontarsi, laddove fosse possibile, con ciò che succedeva fuori dai confini nazionali: come ad esempio l’uccisione del Che nell’ottobre del 1967, narrata in musica nel ’68 in Comandante Che Guevara, un altro grande successo popolare. Ma a fornire la materia prima per le canzoni militanti, proposte da esponenti del Nuovo canzoniere italiano quali Ivan Della Mea, Gualtiero Bertelli, Giovanna Marini, Alfredo Bandelli e Pino Masi, era pur sempre la realtà italiana.

Studenti e operai

Il movimento studentesco, in verità snobbato dalla maggioranza degli intellettuali, solidarizzò con la classe operaia sfruttata e si unì al malcontento che si consumava nelle fabbriche. Il passaparola per voce e chitarra si trasforma: non è più il canto di lotta epico e violento di Contessa, ma il punto di vista operaio che oltrepassa la barriera degli stabilimenti per esternare pubblicamente i drammi e le utopie di un’intera classe sociale.

Qualche esempio. Il siciliano Pino Masi nella sua Ballata della Fiat canta che «I sindacati vengono a dire / Che bisogna ragionare / E di lottare non si parla più. / Signor padrone, ci siam svegliati / E questa volta si dà battaglia / E questa volta come lottare / Lo decidiamo soltanto noi». Il veneziano Gualtiero Bertelli dà invece sfogo in Suona la sirena a tutta la negatività del microcosmo-fabbrica: «Per farcela bisogna ripetere / Un gesto dopo l’altro, a cadenza / Più rapida di ogni pensiero, / Che si ferma ai cancelli della fabbrica; / Mettersi dinanzi alla macchina / È uccidere la propria anima / Per otto lunghe ore al giorno: / I pensieri, i sentimenti, tutto…». E riferendosi allo sciopero degli operai della Montedison di Porto Marghera, che occuparono la stazione paralizzando Venezia senza che le forze dell’ordine osassero intervenire, scrive Primo agosto, Mestre, Sessantotto: «E mentre vi aspettiamo, / Servi di chi ci sfrutta, / Vi siete finalmente ritirati, / In preda anche voi, per una volta, / Alla paura d’essere picchiati».

Il lucchese Ivan Della Mea compone nel 1966 la canzone O cara moglie, che diviene il simbolo dell’autunno caldo del ’68. Il suo è un accorato identikit della condizione operaia: «O cara moglie, stasera ti prego / Dì a mio figlio che vada a dormire, / Perché le cose che io ho da dire / Non sono cose che deve sentir. / Proprio stamani là sul lavoro, / Con il sorriso del caposezione, / Mi è arrivata la liquidazione, / M’han licenziato senza pietà…».

Il pisano Alfredo Bandelli, infine, si impegna con un’altra composizione “da corteo” intitolata Violenza, a concretizzare il sogno di vedere uniti il movimento studentesco e quello operaio. Ma i versi: «Sempre uniti vinceremo / viva la rivoluzione!», verranno disintegrati dalla cruda realtà degli anni Settanta. Quella delle bombe.

I grandi happening

Fuori dai confini di un’Italia in ebollizione, il ’68 votato al rock, e vissuto nelle roccaforti musicali d’America e d’Inghilterra, si rivelò un anno sfuggente, non sempre facile da decifrare. Bisognava dare un seguito alla straordinaria esperienza che, nel bene e nel male, aveva contraddistinto la Summer of Love, la lunga estate del trionfo dell’amore incoraggiata dal movimento hippie, che si era cristallizzata a futura memoria nel 1967 con l’inno All You Need Is Love cantato dai Beatles in mondovisione televisiva.

Nella West Coast, e in particolare nell’area di San Francisco, i Jefferson Airplane divennero i messaggeri della protesta e del rinnovamento, mentre i Grateful Dead elaboravano col romanziere Ken Kesey (l’autore di Qualcuno volò sul nido del cuculo) i cosiddetti acid test, iniziazioni al consumo dell’Lsd da replicare in concerto come happening collettivi. Inoltre, avevano allestito la loro Comune (un vero e proprio luogo di culto per i seguaci) in una palazzina al 710 di Ashbury Street.

A New York, l’altra faccia della medaglia, i Fugs, davano invece il via alla psichedelìa intesa come connubio di musica e poesia, e i Velvet Underground, sponsorizzati dall’esponente della Pop Art, Andy Warhol, svisceravano con furore decadente la dura realtà dei bassifondi metropolitani.

La risposta britannica all’Acid Rock statunitense la fornirono invece i Pink Floyd con i loro esperimenti dediti ai suoni e alle visioni: dilatate improvvisazioni strumentali corredate da giuochi di luci stroboscopiche. Il rock, in tal modo, espandeva le coscienze utilizzando scienza e tecnologia.

Tutto quel frenetico intrecciarsi di vicende, sogni e utopie confluì nello Human Be-In del gennaio 1967 al Golden Gate Park di San Francisco e nel Festival di Monterey di giugno, apoteosi dell’esserci a tutti i costi per cavalcare in libertà le tumultuose onde del suono. «Musica, Amore e Fiori» era scritto sopra uno striscione sospeso da un lato all’altro del palcoscenico. Tre parole che il 6 ottobre di quell’anno vennero idealmente cancellate, quando gli hippie celebrarono il loro funerale per le strade di San Francisco. Motivo della protesta: l’ingordigia dei mass media e del business discografico che avevano ucciso la fantasia del movimento.

Fu difficile dare un seguito a tutto questo. Ma anche raccogliere l’eredità di un anno che aveva prodotto qu asi esclusivamente capolavori: dischi come Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band (Beatles), Between The Buttons (Rolling Stones), The Velvet Underground & Nico (Velvet Underground), Are You Experienced? (Jimi Hendrix), Strange Days (Doors), Surrealistic Pillow(Jefferson Airplane), Absolutely Free (Frank Zappa) e The Piper At The Gates Of Dawn (Pink Floyd) risultarono talmente innovativi da escludere a priori futuri sviluppi musicali. Il che determinò, negli Stati Uniti che facevano il loro ingresso nel ’68, il grande successo di due inni generazionali che riprendevano sostanzialmente l’ideologia della Summer of LoveOn The Road Again, galoppata blues proposta dai Canned Heat, e Born To Be Wild degli Steppenwolf, succo della colonna sonora del film Easy Rider.

I Jefferson Airplane, dal canto loro, dopo avere imposto all’attenzione dei media l’inno del movimento intitolato Somebody To Love, affrontarono il tema dell’amore libero con Triad, canzone scritta da David Crosby. I californiani Iron Butterfly, invece, con lasuite In-A-Gadda-Da-Vida (storpiatura della frase “In the garden of Eden”) descrissero le visioni prodotte dall’assunzione di acido lisergico.

Quei musicisti che il Flower Power aveva indubbiamente irrobustito in termini di notorietà approcciano il ’68 in punta di piedi, guardandosi attorno con circospezione. Ma si dovranno arrendere all’evidenza dei fatti: il conflitto in Vietnam come priorità della protesta giovanile, le uccisioni di Martin Luther King e di Robert Fitzgerald Kennedy, le manifestazioni alla convention del Partito democratico a Chicago. Transiteranno dall’utopica fase della pace e dell’amore a quella spietatamente realista della lotta. Alcuni vinceranno, altri perderanno la loro battaglia. Di certo suoneranno un’altra musica. Vediamone alcuni.

 

Beatles e Rolling Stones

I Beatles, reduci dal magistrale affresco psichedelico del “Sergente Pepe”, a febbraio raggiungono l’India per un soggiorno al centro di meditazione trascendentale del Maharishi Mahesh Yogi, a Rishikesh. Ma la febbrile ricerca di spiritualità, una volta scoperto che il Maharishi altri non era se non un cinico affarista, si traduce in fallimento. Quell’esperienza negativa, tuttavia, è alla base del boom creativo del White Album, antitesi pessimista e senza ideali di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band. La chiave di lettura “politica” del disco è custodita nel brano Revolution, composto da John Lennon traendo spunto dai disordini studenteschi del maggio parigino che raggiunsero il culmine in seguito alla decisione di De Gaulle di sciogliere l’Assemblea nazionale francese. E ciò curiosamente avveniva proprio nella sera in cui, a Londra, i Beatles realizzavano la canzone. Nel frattempo gli studenti britannici occupavano le loro università proclamando lo “stato di anarchia” in solidarietà coi colleghi di Nanterre e della Sorbona.

I più politicizzati, all’uscita di Revolution, incolparono Lennon di avere espresso toni troppo rassicuranti: versi come: «Dici che vuoi una rivoluzione, / Bene, sai / Tutti vogliamo cambiare il mondo. / Mi dici che è evoluzione, / Bene, sai / Tutti vogliamo cambiare il mondo. / Ma quando parli di distruzione, / Non sai che puoi considerarmi fuori? / Non sai che andrà tutto a posto?», vengono interpretati, soprattutto dalla nuova sinistra americana e dagli esponenti della controcultura, come il grido di un borghese impaurito ben deciso a chiamarsi fuori da qualsiasi ipotesi rivoluzionaria.

Lennon, di fatto, aveva già sposato la causa pacifista e in seguito, reagendo alle provocazioni di Black Dwarf, l’organo di stampa del comitato per la solidarietà al Vietnam, dichiarerà: «Sapete cosa c’è di sbagliato nel mondo? La gente. E allora volete distruggerla? Finché voi-noi non cambieremo il nostro modo di pensare, non c’è alcuna possibilità. Ditemi una rivoluzione che ha avuto successo. Che cosa ha rovinato il comunismo, il cristianesimo, il capitalismo, il buddismo, eccetera? Le menti bacate, e nient’altro».

Anche i Rolling Stones, proverbiali concorrenti “maledetti” dei Beatles, attraversano il ’68 indecisi se sguainare o meno la spada della protesta. Mick Jagger, che si era recato in pellegrinaggio dal Maharishi Yogi più per farsi notare che per ritrovarsi spiritualmente, aveva battuto coi suoi compagni la remunerativa strada psichedelica con risultati sconfortanti: il long playing Their Satanic Majesties Request si era rivelato un pasticcio, così come lo sgangherato inno alla stagione dei fiori furbescamente intitolato We Love You, con John Lennon e Paul McCartney a fare i coristi. Viceversa l’album Beggars Banquet, con la sua copertina raffigurante la parete di un gabinetto pubblico ricoperta da scritte oscene, assecondò le esigenze dei giovani britannici i quali, stanchi delle stravaganze psichedeliche, ricercavano le ruvide radici del blues quasi a volere ritrovare l’autenticità di quello spirito ribelle che il Flower Power aveva per molti versi sopito. E ciò non poteva che soddisfare il proletariato e la sinistra rivoluzionaria. Ma bisognava avere il coraggio di spingersi oltre, dare voce al malcontento giovanile. Jagger, nel corso del ’68, aveva peraltro mostrato attitudini rivoluzionarie dichiarandosi contrario alla proprietà privata e partecipando a una dimostrazione contro la guerra in Vietnam organizzata dalla sinistra a Londra, in Grosvenor Square.

I risultati (anche se rimane il dubbio sull’autenticità barricadera del cantante) non si fanno attendere: l’album Beggars Banquet mette in evidenza una forte spinta eversiva a partire dal brano Street Fighting Man («Ehi, penso che sia arrivato il momento per una rivoluzione. / Ma dove vivo la regola del gioco è una soluzione di compromesso»; e ancora: «Cosa può fare un povero ragazzo / Se non cantare in una banda di rock’n’roll, / Perché nella sonnacchiosa Londra / Non c’è assolutamente posto per un combattente di strada»), identikit di un disagio che sarebbe riduttivo imprigionare in un ambito esclusivamente politico, per proseguire con Jig-saw Puzzle fra donne anziane che danno alle fiamme la loro pensione, vagabondi che divorano sandwich al mentolo e la Regina d’Inghilterra che incita le forze dell’ordine a caricare i dimostranti; Factory Girl, ritratto neorealista di un’operaia senza un soldo da parte; Salt Of The Earth, inno alla «gente che lavora duro», e Sympathy For The Devil, luciferina epopea di tensioni e rivolte sociopolitiche.

La religiosità di Dylan

Gli anni Sessanta identificarono nel menestrello del folk-rock Bob Dylan, originario di Duluth, nel Minnesota, il portavoce della protesta pacifista. Canzoni come Blowin’ In The WindMasters Of WarA Hard Rain’s A-Gonna Fall eThe Times They Are AChangin’ furono gli atti coraggiosi di un uomo, ma soprattutto di un poeta, che non aveva paura di urlare la verità in faccia al sistema.

Nel 1966, dopo la pubblicazione dell’album Blonde On Blonde, un incidente motoristico lo costringe a una lunga assenza dalle scene durante la quale registra iBasement Tapes (che usciranno soltanto alla metà degli anni Settanta) ed elabora brani scarni, dai testi pacati e meditativi. Una svolta radicale: il Dylan del 1968, ben lungi dalla rabbia generazionale, con John Wesley Harding (il nome è quello di un pistolero del Far West) punta tutto sulla religiosità. Imprevedibilmente. È lui stesso a definirlo: il suo è «il primo disco di rock biblico». Nel brano I Dreamed I Saw St. Augustine, immaginando il martirio di sant’Agostino, si esprime così: «Ho sognato che vedevo sant’Agostino, / Vivo e con respiro ardente e forte, / E ho sognato che stavo tra quelli / Che lo mandarono a morte. / Ah, mi son svegliato nell’ira, / Così solo e spaventato, / Ho graffiato i vetri con le dita, / Ho chinato il capo e ho singhiozzato».

Canzoni che trasudano amore come I’ll Be Your Baby Tonight convivono accanto ad I Am A Lonesome Hobo I Pity The Poor Immigrant, dalle quali emerge un sentimento compassionevole nei riguardi dell’umanità. Ma l’allegoria che sottintende The Ballad Of Frankie Lee And Judas Priest («Be’, la morale della storia, / La morale della canzone, / È solo che uno dovrebbe starsene / Al posto che gli appartiene. / Per cui se vedete il vicino trasportar roba, / Aiutatelo se è pesante, / Ma non andate confondendo il Paradiso / Con la casa sul marciapiede di fronte») è in realtà un concreto atto d’accusa contro i falsi profeti americani. E la cupa All Along The Watchtower, con l’incalzante quesito iniziale: «Deve pur esserci una via d’uscita», tratteggia lo scenario più inquietante che il rock abbia mai osato descrivere. Lo specchio fedele del 1968.

Jim Morrison, il ribelle

9 dicembre 1967. A New Haven, nel Connecticut, si stanno esibendo i californiani Doors. Sono loro il grande evento, il gruppo rock del quale tutti parlano, lo schiaffo in faccia al sistema. Jim Morrison, il leader (1943-1971), è in scena per ribadire tutta la sua trasgressione da «Edgar Allan Poe tornato dall’aldilà per reincarnarsi in un hippie», come hanno proclamato i giornali. Ogni volta che sale sul palco è un punto interrogativo, un’incognita: ondeggia il corpo come uno sciamano, usa musica e sesso per spingersi oltre la soglia del pudore, incarna l’universo visionario di William Blake («C’è un mondo oltre le porte della percezione»: da qui il nome Doors, “le porte”). Morrison, quella sera, ferma improvvisamente la musica. Parla al pubblico, racconta che un poliziotto lo ha assalito dietro le quinte mentre si intratteneva con una ragazza. Lo urla al microfono, infiamma gli animi, suscita la reazione di un agente. Lui lo sbeffeggia e viene arrestato.

Ma che importa a questo demone rock dalla faccia d’angelo? Per lui, il ’67 che finisce è solo una tappa della grande battaglia contro la «american way of life».

Il suo slogan generazionale è: «We want the world and we want it now!», vogliamo il mondo e lo vogliamo subito! È Jim Morrison l’ingombrante mito che l’America vuole annientare, il ribelle estremo. Il 1968? Un anno da bruciare in fretta, contrapponendo al “potere dei fiori” l’oltraggioso “potere del sesso”.

Purtroppo, però, l’album Waiting For The Sun (il titolo, metaforico, allude all’attesa della rivoluzione) non produce l’impatto dirompente del precedenteStrange Days. Benché la popolarità dei Doors abbia raggiunto il culmine, non è supportata da nuove canzoni che reggano il confronto con Light My FireBreak On ThroughThe EndMoonlight Drive When The Music’s Over. L’immenso talento poetico di Morrison, novello Rimbaud, evapora fino alla normalità. Il gruppo si sforza di dare voce alle tensioni politiche, ma lo fa nel modo peggiore, con presunzione, gettando fumo negli occhi. The Unknown Soldier, ad esempio, riduce il pacifismo a luogo comune: «Questa dannata guerra finirà / Quando saremo troppo vecchi per goderci la pace. / Il milite ignoto / Vaga fra le righe del telegiornale. / I bambini tirano le cuoia a 26 pollici, / Sul video sono vivi, abortiti, vivi, morti. / Un proiettile perfora l’elmetto / Ed è l’ultimo rintocco per il milite ignoto, / L’ultimo schianto per il milite ignoto». Five To Onevorrebbe invece imporsi ad inno di rivolta ma snocciola ovvietà come: «Loro sono armati, / Ma noi abbiamo i numeri dalla nostra parte. / Vinceremo, sì, abbiamo già in mano il controllo della situazione»; oppure: «Tesoro, ce la faremo nella nostra primavera, / Basta che uniamo le nostre forze ancora una volta». Non manca neppure l’addio da romanzo rosa alla stagione dei fiori di Summer’s Almost Gone: «L’estate sfuma via, / Esala gli ultimi sospiri, / Batte gli ultimi rintocchi, / L’estate è quasi finita. / Dove ci rifugeremo / Quando l’estate sarà svanita?».

I Doors andranno ancora avanti, zoppicando, per due anni. Jim Morrison si ridurrà a farneticante prigioniero di droghe e alcol, simbolo di un rock che alimenta dentro sé il buco nero dell’autodistruzione. Fino a trovare la morte, in un appartamento del Marais, a Parigi. In circostanze mai del tutto chiarite.

Nel ricordo del Festival di Monterey c’è l’indimenticabile concerto durante il quale Jimi Hendrix (1942-1970) cercò e trovò la sua rivincita personale. Il chitarrista nero di Seattle, snobbato in patria e osannato dalla Swinging London, la sera del 18 giugno 1967 entrò finalmente nei cuori dei ragazzi americani. Gli bastò estrarre dalle corde della sua chitarra elettrica il blues, il grande sogno psichedelico, la distorsione del rock. Al termine dell’esibizione abbandonò lo strumento a terra, lo cosparse di benzina e gli diede fuoco con un accendino, consumando un rito voodoo che ipnotizzò i cinquantamila spettatori.

Oltre la psichedelìa

Il chitarrista Hendrix sapeva come stringere in pugno il pubblico: utilizzando la chitarra come macchina del suono, boato, orchestra, addirittura parodia della voce umana. Ne estraeva l’istinto animale, il sesso, la provocazione; ma anche un’inebriante dolcezza, il misticismo, la desolazione.

Il 1968 lo inonda di successo: è lui il più grande chitarrista di tutti i tempi, la bandiera della nuova generazione. E lo uccide lentamente, il ’68, come sta facendo con Jim Morrison. Perché Hendrix ha i tratti somatici autodistruttivi di un genio egocentrico, geloso, schiavo della droga, poco propenso a scendere a patti con Mitch Mitchell e Noel Redding, i suoi musicisti. Pubblica l’album Axis: Bold As Love mentre la sua vita rincorre paradisi artificiali sempre più rischiosi: ma è nuovamente grande musica, come quella del disco d’esordio, Are You Experienced?, che sembrava irraggiungibile tanto era bella e rivoluzionaria. Suoni rallentati, astratti, metafisici, che incorniciano il parlato del brano Up From The Skies: «Voglio sapere degli spazi dietro le vostre menti. / Vedo soltanto il vuoto, oppure sto diventando cieco? / O si tratta di un ricordo delle vibrazioni e degli echi del passato, / Cose come “Amate il mondo” e “Lasciate correre la vostra fantasia”. / È vero? Vi supplico, lasciatemi parlare / Parlare con voi».

Jimi Hendrix vuole strafare, superarsi, diventare un mito assoluto, sovrannaturale. Incide il doppio disco Electric Ladyland e ritorna con la composizione Voodoo Chile all’amato blues. Canta: «La notte della mia nascita, lo giuro, la luna divenne rosso fuoco. / La mia povera madre gridò: “Signore, la zingara aveva ragione!”. / E la vidi cadere di colpo morta (abbiate pietà)/ (…) / Ho fatto l’amore con te. / E il Signore sa che non ti ho fatto male / (…) / Perché sono lontano milioni di miglia / E allo stesso tempo sono proprio qui, / Nella tua cornice (ascolta ciò che dico!) / Perché io sono un figlio del voodoo. / Il Signore sa che sono un figlio del voodoo».

Arriverà poi il 1969 della partecipazione a Woodstock, con l’esecuzione estremista dell’inno statunitense (Star Spangled Banner), durante la quale la sua chitarra elettrica produrrà il fragore dei bombardamenti aerei sul Vietnam. «Basta una serie di note. Il resto è improvvisazione», dirà Hendrix prima di morire a Londra, per un’overdose di barbiturici.

La guerra del freak Zappa

Ribellarsi al sistema, puntare il dito contro il modo di vivere americano, non significò soltanto aggregarsi a quel Flower Power che peraltro si ridusse a moda smarrendo l’originaria autenticità. Volle dire, soprattutto a Los Angeles, combattere da freak: cioè buttar fango sull’America, inneggiare al comunismo, scuotere le coscienze tirando oscenamente in ballo il sesso come arma contro il perbenismo. Tanto, sostenevano i freak, è inutile perdere troppo tempo con la politica: perché la rivolta studentesca verrà presto dimenticata, mentre il futuro apparterrà alla rivoluzione sessuale. Vestire trasandato, dire parolacce, praticare l’amore libero, disprezzare il “dio denaro”, farsi beffe dei genitori e dell’intera società: l’identikit del perfetto freak era questo. E la sua lucida eccentricità si concretizzò nella cosiddetta “musica totale” che, partendo dal rock, abbracciava altri generi: il jazz, la canzonetta più commerciale, il rumore puro, il blues, il folk. Attraverso la fusione di essi fu possibile creare l’ideale suono della satira e della provocazione.

«Mister America, / Tira dritto / Davanti alle scuole che non insegnano. / Mister America, / Tira dritto / Davanti alle menti che non riesci a dominare / Mister America, / Cerca di nascondere / Il vuoto che hai dentro / Se anche ti rendessi conto di come hai mentito. / E degli squallidi trucchi che hai tentato / Neanche allora fermeresti la marea che sale / Di freaks affamati, o amore mio», cantava Frank Zappa in Hungry Freaks, Daddy, un brano che divenne l’inno underground dei mendicanti d’utopia e degli emarginati.

Zappa (1940-1993) si è rivelato un «fool on the hill» (parafrasando i Beatles), il più geniale fra i sabotatori della scena musicale. Nato a Baltimora, adottato dalla California, aggredì polemicamente il Flower Power e il movimento giovanile. Nel 1968, a Berlino, effettua un concerto con il suo gruppo, le Mothers Of Invention(da una frase di Platone: «La necessità è la madre dell’invenzione»): il pubblico, inferocito, lo taccia di qualunquismo politico. Lui alza le spalle e prosegue per la sua strada proclamando che «per fregare il sistema basta rivoltarlo». Del resto, la provocazione è nei suoi cromosomi: l’anno precedente, al Garrick Theatre di New York, aveva invitato sul palco tre marines e dopo averli obbligati a cantare aveva consegnato loro una bambola esortandoli a infierire su di essa «come se fosse una piccola vietnamita dal muso giallo». Il ’68 “zappiano”, prima d’ogni altra cosa, è incastonato nella copertina dell’album We’re Only In It For The Money.

L’immagine, che ritrae Zappa e i suoi musicisti in abiti femminili con tanto di scritta Mothers composta con frutta e ortaggi, è la velenosa parodia di quella delSgt. Pepper beatlesiano. E i contenuti del disco? Acidi, insolenti, un sonoro schiaffo in faccia ai figli dei fiori. I proclami della controcultura vengono fatti a pezzi nel brano, Who Needs The Peace Corps: «Ogni città deve avere un posto / Dove i falsi hippy si possano incontrare. / Prigioni psichedeliche / Che spuntano in tutte le strade. / Andate a San Francisco». Flower Punk, invece, prende di mira il falso hippie smidollato: «Hey Punk, dove stai andando / Con quel distintivo sulla maglietta? / Beh, sto andando a un love-in / a sedermi e suonare i miei bongo / Nell’immondizia. / (…) / Hey Punk, dove stai andando / Con quelle perline intorno al collo? / Sto andando da uno psichiatra / Perché possa aiutarmi / Ad essere un nevrotico». E, “dulcis in fundo”, Idiot Bastard Son, canzone di odio sincero nei confronti del tipico figlio d’America che per la prima volta viene chiamato per nome e cognome: “Idiota Bastardo”, per l’appunto.

We’re Only In It For The Money, elettroshock destinato ad un 1968 già sufficientemente scosso da terremoti sociopolitici, fu a suo modo il caustico elogio funebre di un’intera epoca. Poi si volterà pagina: nel ’69 del colossale Festival di Woodstock e del concerto di Altamont organizzato dai Rolling Stones e macchiato col sangue di un diciottenne nero accoltellato dagli Hell’s Angels. Lo slogan: «Peace & love» non avrà davvero più senso. E il rock avrà paura, dopo la scomparsa ravvicinata delle sue icone più osannate (Brian Jones, Jimi Hendrix, Janis Joplin, Jim Morrison…).

Eppure, nonostante tutto, riuscirà a risorgere dalle sue ceneri.

BIBLIOGRAFIA

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