Simone Carella, sempre dentro-fuori la scena
Dal volume I Teatronauti del Chaos, Fermenti, 2009
1.1 Non mi ricordo più chi una ventina e passa di anni fa lodava il soma artaudiano di Carella rifritto in salsa romanesca. L’erratico percorso del regista pugliese, trapiantato nella capitale dagli anni ’60, del resto era stato omaggiato dagli (allora) Magazzini Criminali in Ritratto dell’attore da giovane (1985), adombrando la sua figura nel personaggio di Simon Mago, interpretato dallo stesso Federico Tiezzi. Questo per far comprendere quanto forte sia stata l’influenza, palese e sotterranea, di Carella su un’intera generazione di teatranti alternativi, formatasi negli anni ’70 e da lui tenuta a battesimo nella storica cantina del Beat 72. Magistero il suo, peraltro, mai supponente o indisponente. Esercitato di sguincio e di rimessa, con un fare e saper fare assieme mobile e nobile. Artista puro Simone. Ossia strutturalmente irregolare, intermittente, epifanico, per una combinazione sempre imprevedibile di istinto e progettualità.
Figlio della stagione dell’happening artistico e delle performance di poesia, la sua cifra personale è stata quella di essere costantemente dentro-fuori la scena: dentro il teatro la sua pulsione era quella ad esorbitare, a dirompere, a saltarne via; fuori il teatro tendeva sempre a rientrarvi in modi fantasiosamente laterali. Dopo Iperurania (1980) il suo abbandono della scena durò oltre un lustro. Così, I plebei provano la rivolta (1987) di Günther Grass fu per lui un vero ridebutto, un ricominciamento, anche inatteso, con attori e drammaturgia. Del pari Stalker (1988) si motivava, in buona misura, da un caso di ibridazione empatico-umorale con un attore chiamato (Victor) Cavallo. E comunque, a ben riflettere, la sperimentalità di Carella è sempre stata all’insegna dello spiazzamento e della rifondazione. Per esempio, con La cavalcata sul lago di Costanza (1975) Carella bruciava i margini di un lavoro di regia diretto alla depersonalizzazione dei ruoli scenici. Seguì, allora, un radicale atto di ‘Teatro di Ricominciamento’ senza attori, con lo storico e, per me spettatore, cruciale Autodiffamazione (1976). Scheggia mirabile di elaborazione analitico-concettuale sulla luce e sul fotogramma. Filmizzazioni fredde della contact-dance di Steve Paxton e delle linee minimaliste del musicista La Monte Young. E poi l’icona-santino di Majakovskij. Sulla scena, sotto un cono luminoso, una sedia vuota. Segno tragico (o stoico) di assenza e, al contempo, di un mirato oggettivismo semantico. Di qui Carella si inoltrò, vedi Esempi di lucidità (1978), verso un teatro tecnologico-cibernautico integrale. Per poi virare bruscamente nel 1979, inventandosi col complice Franco Cordelli-Pat Garrett la più straordinaria, geniale e generazionale kermesse para-teatrica e sfida letterario-politica della storia della cultura italiana: il Festival dei Poeti sulla spiaggia di Castelporziano. Ultimo, grandioso rigurgito e flop antropologico del movimento post-’77 (e quanti i poeti italioti-Billy the Kid caduti!).
1.2 Salto al principio del XXI secolo e ritrovo Simone ancora in linea con le sue radici – cioè legato alla poesia, a Roma e al dentro-fuori la scena – che allestisce lo spettacolo Al suo poeta Peppe er Tosto (2001) all’aperto, presso la riva del Tevere, tra i fabbricati del Teatro India. Avvalendosi della collaborazione di un poeta-critico del calibro di Elio Pagliarani, Carella prova ad inscenare una sorta di omaggio ai sonetti romaneschi di Giuseppe Gioacchino Belli scegliendo una forma, peraltro fittizia, da “teatro di strada”. Carella in pratica rovescia Belli. Se il massimo poeta romanesco coi suoi 2250 sonetti aveva inteso erigere “un monumento” della plebe ottocentesca capitolina, nobilitandola attraverso una strepitosa rappresentazione espressivo-linguistica, Carella abbatte il monumento restituendo i versi belliani a una degradata moltitudine plebea contemporanea.
Così, convoca una folla di oltre settanta interpreti, in maggioranza non attori, che rimastica alla meno peggio i sonetti e, mimando il caos e l’entropia urbana della Roma odierna, dà vita a una sgangherata, multicolore passerella tra vecchi sproloquianti, bambini colla maglia di Batistuta, litigiose sore Nunziate, procaci squinzie, palestrati bulli, umili proletari, puttane in ghingheri e loquaci tassinari. In fondo, Carella rimane fedele alla sua trentennale poetica antiteatrale, ed è pressocché un’autocitazione la presenza nel ‘mucchio selvaggio’ di alcuni reduci dell’avanguardia anni ’70, dagli ex-Gaia Scienza Guidarello Pontani e Alessandra Vanzi, ad una scarmigliata Rossella Or, a una matronale Patrizia Sacchi. Come se nel magma dei detriti antropologici della Roma attuale si commemorasse anche un teatro alternativo che fu ed ora non c’è più.
1.3 Ma i diastematici lampeggiamenti di Simone non sono cessati. Ripresi i contatti col vecchio sodale Ulisse Benedetti, nel 2007 ha inaugurato con una festa per gli 80 anni di Pagliarani un nuovo spazio: l’E-Theatre/Nuovo Colosseo. Che sarebbe, nei suoi intendimenti, il Beat 72 del nuovo millennio. Un teatro i cui eventi e spettacoli vengono trasmessi in streaming sul Web. Un teatro interconnesso con la Rete, per aggiornare e rendere praticabile la sua vecchia idea di mass-mediatizzare il teatro, che lo aveva condotto anni fa a dare vita prima a TeleBeat e poi a Canale Zero, un’epifenomenica emittente locale che doveva riversare il teatro d’avanguardia nello spazio televisivo. Oggi Internet consente di rendere plausibile e globalizzabile questa utopia. Si vedrà, chi vivrà saprà. Carella resta il più romantico degli avanguardisti e il più avanguardista dei romantici.