Soggiorno nel Sudan Meridionale_Fred Otieno
_Racconto finalista sesta edizione Premio Energheia Africa Teller.
Traduzione di Sara Giaccotto
Dopo molte avventure procurate e casuali, l’ultima che mi è capitata mi
ha semplicemente confermato che sono venuto al mondo per essere di
esempio agli altri. Cominciò tutto come un atto nobile da farmi pensare
che il mio destino stesse cambiando in meglio e che, per una volta,
fossi io a voltare le spalle alla società che le aveva voltate a me da molto
tempo.
Figlio di Nyapodo, stavo per intraprendere un lavoro umanitario, serio,
non le mie solite mansioni di ufficio alle prese con le scartoffie. Il mio
capo, quel trimestre, sarebbe dovuto andare nel Sudan Meridionale, dove
gestiamo alcuni bizzarri programmi umanitari che, a fine giornata,
portano il pane sulla mia tavola. Per ragioni che non conosco, questo
individuo, per molti versi così complicato, decise che aveva troppo da
fare a Nairobi e spedì il suo mazziere per fare un pò di ordine nella terra
di Garang.
Non merito compianto alcuno perché, quando quel tizio venne a darmi
le direttive, esultai tra me e me. In un certo senso, era una benedizione
per quel timbro di uscita sul mio passaporto che avevo avuto cinque anni
prima, pagando una fortuna, ma che avevo potuto usare una volta sola
alla frontiera di Malaba. Ero, pertanto, al settimo cielo che il passaporto
fosse ancora una volta timbrato, quell’anno, prima che scadesse.
Confermato il viaggio, feci poi tutto quello che ogni figlio della riva del
lago farebbe, naturalmente: vale a dire, chiamare amici e parenti che mi
avrebbero prestato ascolto, per dire loro che stavo per andare all’estero
e che non sarei stato reperibile per due settimane. Non importa come fos-
si riuscito a farlo, in quanto il mio telefono non ha mai credito, può solo
ricevere e, quando è in modalità “chiamata”, lampeggia soltanto.
Il boss, sentendo che tutto sembrava essere a posto per il viaggio e conoscendo
il mio entusiasmo, in genere, per tutto quanto è imprevisto e
libero, decise, come al solito, di stringere qua e là le viti. Sono persino
sorpreso che non mi abbia licenziato perché, oltre al suo elefante dalle
zanne lunghe, sembra che io sia l’unica altra cosa che lo diverta, specialmente
quando porto in giro la mia faccia. Non ne sono sicuro, ma devo
essere uno spettacolo con questo mio viso lungo; certo, non sono esattamente
ciò che si dice un bell’uomo. E così, per una settimana, mi diede
da fare alcune relazioni noiose lasciate incomplete dalla mia collega
negli ultimi due mesi. Ho sempre la sensazione che quei due, con me, si
divertano da matti.
Dopo sette giorni di lavoro, ero pronto per visitare la terra dei Dinka. Armato
dei miei strumenti di lavoro, di una calcolatrice, del mio passaporto
da timbrare e sentendomi abbastanza importante, volai dolcemente con
lo JKIA verso Lokichokio. Avreste dovuto vedere la mia faccia, sembrava
dire “sono cose di routine per me”. Le prime ore del mattino seguente
mi vedevano sfrecciare verso il Sudan Meridionale, in un aereo traballante
destinato al Programma “Cibo per il Mondo”. Sei ore e sei fermate
dopo, quando la mia spavalderia stava evaporando e cominciavo a pensare
a cosa avrebbero fatto i miei compagni di volo, qualora quel catorcio
si fosse schiantato nell’accidentato paese del Sudan Meridionale, il
pilota annunciò che saremmo presto atterrati a Mabior, quella che doveva
essere la mia destinazione.
L’aereo fece il suo primo tentativo di atterraggio ma si rialzò dopo aver
sorvolato più volte la pista. I passeggeri dicevano che era allagata, il che
era di ostacolo a qualsiasi manovra. Dopo molti tentativi andati a vuoto,
il pilota doveva aver deciso che non sarebbe andato da nessuna parte
con un bagaglio in eccesso quale il mio, per cui atterrò, lasciandomi
con lo stomaco sottosopra. Fui l’unico a scendere a quella fermata e gli
altri furono probabilmente felici di essersi sbarazzati di me, dal momento
che l’aereo decollò, poi, senza difficoltà.
Credevo di essere il più alto tra i passeggeri ma, ciò che vidi, mi portò a
ripensarci. Quanto al colore, poi, un compagno di classe mi aveva detto
che ero nero come tre mezzenotti messe assieme. Credo però che il ragazzo
non avesse mai incrociato un Dinka e non sapeva, dunque, di cosa
stesse parlando. Devono aver pensato che fossi un albino. Un albino
io! Mi resi conto dell’aria pesante che gravava sulla pianura, dell’umidità
e del soffocante odore della palude. Venne, poi, il primo morso di
zanzara.
“Benvenuto a Mabior, mi chiamo Ajang Ayang Thong’. Lei deve essere
Dan”.
Mi voltai e mi trovai di fronte al più alto e al più scuro degli esseri umani
che abbia mai incrociato. “Sì, sono Dan”, risposi, “lei è dell’ufficio
Oxfam?”.
Rispose di sì ed aggiunse che era venuto a prendermi. Tirai un sospiro
di sollievo: il mio capo aveva avuto la delicatezza di mandare qualcuno
a prendermi. In silenzio invocai l’Onnipotente perché lo benedicesse, mentre
il signor Thong’ mi conduceva al veicolo che mi avrebbe portato in
ufficio. Mentre ci avvicinavamo all’auto, notai un ragazzo di circa dodici
anni, senza un braccio, alto quanto il più alto dei miei parenti.
Notando la mia curiosità, Thong’ spiegò: “E’ stato morso da un serpente;
ve ne sono tanti qui intorno ma non ci sono farmaci perciò hanno dovuto
amputarglielo per salvargli la vita”.
Ingoiai amaro e borbottai qualcosa di simile ad una risposta, ma non venne
fuori nulla. Certi discorsi non sollevano certo il morale di qualcuno
che progetta di trascorrere lì all’incirca una settimana. Probabilmente trasmisi
chiaramente il messaggio a Thong’ perché non mi deprimesse ulteriormente
con quel genere di cose, preferendo invece chiedermi come
fosse l’ufficio di Nairobi.
Sì, ero a Mabior e, mentre attraversavamo in macchina quella terra paludosa,
le zanzare in massa decisero di assaggiare il mio sangue fresco,
per cui presto cominciai a dare schiaffetti su ogni parte del corpo scoperto.
Vedendo la mia aria sconsolata, Thong’ mi disse che mi ci sarei
abituato. Egli stesso sembrava esserlo e le succhiatrici non lo tormentavano
più.
Qualcuno mi spieghi come abituarsi alle succhiatrici di sangue, per favore!
Il primo giorno fu una vera tortura: a parte le zanzare, il mio quartiere
era fatto grossomodo da capanne grossolanamente costruite di fango ed
erba, con il tetto così basso che entrarvi era un’acrobazia da Hollywood.
Nella capanna sembrava esserci un intero clan di lucertole e gechi. Sul
letto di paglia si sentiva tutto un crepitìo furtivo. Per farmi meglio apprezzare
la varietà di natura di questo luogo, il direttore del campo mi
disse che in questa zona possedere dei riflettori era una cosa necessaria.
Dovevo stare molto all’erta. A Mabior non si può toccare nulla senza guardare.
Gli scorpioni sono i compagni di vita e la puntura di uno di essi potrebbe
mandarti in un delirio di dolore per giorni e giorni fino alla fine.
Gli analgesici sono sconosciuti e puoi fare affidamento solo sulla tua vigilanza,
per completare le informazioni su come comportarsi, mi chiese
di essere prudente e di controllare il letto prima di dormire a meno che
non volessi giacere su un serpente.
“Ce ne sono un sacco qui! Vengono dalle paludi in cerca di terra alta”,
aggiunse.
Inutile dire che dopo aver combattuto le zanzare e osservato attentamente
ogni movimento ed azione, ero spaventato a morte. Nel frattempo riuscii
a far passare foglie di cassava e un pò di carne nella mia timida gola perché
si prendesse cura del mio stomaco che ringhiava. Arrivò, infine, il
momento più duro. Andare a letto. Allevato nella durezza delle Eastlands
di Nairobi, pensavo di essere resistente come loro, ma questo era troppo
anche per uno cresciuto nelle Eastlands. Almeno vi erano le strade illuminate
quando scioccamente ci azzuffavamo nelle Eastlands. Non sapendo
cosa aspettarmi in una capanna di fango dal tetto di paglia in una
terra straniera, timidamente rivolsi il riflettore verso il mio letto. Controllai,
ricontrollai, controllai ancora e ricontrollai prima di sdraiarmi e
spegnere la luce. Invano cominciai a combattere con il sonno che non
veniva. Poi cominciai a maledire il mio boss. Ritirai le preghiere che gli
avevo dedicato in precedenza e lo maledissi ancora. Chiusi gli occhi e
vidi il suo viso che sorrideva con aria di sufficienza. Riaprii subito gli
occhi, preferendo fissare di nuovo invisibili scorpioni e serpenti che strisciavano
da qualche parte nella capanna buia, piuttosto che dargli la
soddisfazione di ridere di me.
Mi alzai di scatto. Per nulla al mondo avrei potuto perdermi una cosa simile:
quello era uno scoppio di fucile, almeno la mia educazione nelle
Eastlands avrebbe potuto aiutarmi a distinguere lo sparo di un fucile dal
monotono gracidare delle paludi vicine. Si ripeté e il mio cuore accelerò
i battiti come stesse per scoppiare. E maledissi ancora una volta il mio
capo. Sentii una voce, fuori, chiamare il mio nome, ma la mia gola era
troppo secca per rispondere. Riconobbi che era quella di Thong’.
“Non preoccuparti, Dan, sono solo soldati di pattuglia ubriachi”, disse.
Percependo la mia paura, doveva essere venuto ad aiutarmi. Devo aver
replicato qualcosa confusamente, ma le sue parole rassicuranti facevano
poca differenza. Continuai a chiedermi se ne sarei uscito vivo. Questo
è il vero Sudan Meridionale: se i serpenti e gli scorpioni ti risparmiano,
non c’è bisogno che ti preoccupi, ti finirà il governo del Sudan bombardando
le campagne. Il sonno si rifiutò di venire fino alle prime ore del
mattino, quando crollai in un sonno agitato. Mi svegliai con gli occhi rossi
e, appena potei, uscii subito dalla capanna, preferendo affrontare l’ignoto
nello spazio aperto e non confinato lì dentro.
“Spero abbia riposato bene”, mi salutò il direttore del campo ed io sentii
di dirgli tutto ciò che pensavo di lui e della sua terra maledetta ma ci
pensai meglio e “Alla grande!”, risposi, “dove sono le docce?”.
Mi guidò verso una strana doccia improvvisata, fiancheggiata da erba alta
e secca.
Dopo una colazione a base di patate dolci locali e tè tiepido, cominciai
la mia giornata di lavoro a Mabior, ma il mio cuore era letteralmente tornato
indietro a Nairobi. Maledissi ancora una volta il mio capo.
Per quattro giorni andai avanti con la routine del lavoro, fingendo di abituarmi
alla situazione, in realtà contavo ogni secondo che ancora dovevo
trascorrere in quella terra. La sola comunicazione con Nairobi fu attraverso
una radio ad altissima frequenza e mi fu chiesto di fare, almeno
una volta al giorno, il resoconto. Quando feci il primo, quell’individuo
osò chiedermi come me la passavo. Stavo per coprirlo di insulti prima
che mi passasse per la mente che avevo promesso a qualche discendente
di Eva di renderla madre dei miei pargoli e si dà il caso che individui
come quella sono molto schizzinosi con i ragazzi senza lavoro. E così
rimandai a un altro giorno le parole sgradevoli. Tornò a dirmi di come
fosse rimasto favorevolmente colpito da me e mi fece un energico discorso
sull’attaccamento al dovere.
Come avrei voluto che i capi sapessero ciò che pensano di loro i dipendenti!
E finalmente venne il giorno della partenza. Ero molto eccitato e mi ripromettevo
le birre più fredde mai prodotte. Anche Thong’ notò che fischiettavo
alcuni vecchi motivetti volgari, che ero uso fischiettare quando
facevo le ore piccole a Nairobi. L’aereo doveva venire a prendermi
all’una del pomeriggio e contattai per radio la biglietteria di Loki per
confermare. Per la prima volta da quando sono arrivato in questa terra
deprimente, ho gustato la colazione ed ho atteso con comodo l’ora in
cui sarebbero venuti a prendermi. Mi sono persino interessato alla storia
dei Dinka e Thong’, con il suo racconto, mi ha condotto nei meandri
dei loro rituali di matrimonio e mi ha descritto i canoni delle bellezza
Dinka.
Mi stava dicendo “Più una ragazza è alta, maggiore lo spazio tra i denti
e nere le gengive, più aumenta il prezzo della sposa e delle rotondità…”,
quando accadde l’inevitabile.
Le nuvole, che erano andate accumulandosi silenziosamente, si aprirono
e cominciò a piovere. Thong’, che mi stava illustrando i riti dei Dinka,
stupito, s’interruppe di colpo, portando alla bocca le sue mani nere.
“Spero che smetta presto, altrimenti non partirai”, mormorò.
“Non m’importa se piove a dirotto. Sono diretto a casa”.
“A meno che non le lancino una corda”, spiegò con innocenza, “nessun
aereo oserebbe atterrare quando piove qui. La pista si allaga anche con
pochi millimetri di pioggia e basta questo per impedire l’atterraggio”.
Continuò a piovere ancora per un’altra ora e la tristezza mi avvolse come
un manto. All’una smise di piovere. Alcuni istanti dopo arrivò l’aereo
che per tre volte fece il giro della pista decidendo, infine, che non
valeva la pena rischiare di schiantarsi per me. Per la quarta volta sorvolò
tutto intorno la pista, prese le tangenti e si diresse dove, intuii, dovesse
essere Loki.
“Che si fa ora, Thong’? Quando c’è il prossimo volo?”, chiesi disperato.
Mi guardò con tristezza e rispose “Stesso giorno, la settimana prossima”.