Sogno di un’altra vita_Letizia Giannunzio, Roma
_Racconto finalista diciassettesima edizione Premio Energheia 2011.
Di nuovo una di quelle occasioni che proprio non mi piacciono. E’ da molto che Tito ha inaugurato l’Amphiteatrum, ma ancora non mi capacito all’idea di veder morire dei prigionieri di guerra. Non pensavo i munera gladiatoria potessero essere così truci, né le venationes così spietate. Non immaginavo lontanamente un uomo potesse chiamare a gran voce la morte di un altro.
Domani sarà un giorno che condizionerà tutta la mia vita, mi presenterò al Pontifex Maximus e forse diventerò Vestale.
Sono stata prescelta da Vesta, ora sono la sua serva. Accudirò con dedizione il sacro focolare, suo simbolo di protezione divina nel Foro, dove già mi trovo. La Virgo Vestalis Maxima si è raccomandata di ascoltare i suoi insegnamenti, ci ha spiegato che siamo fortunate ad essere state scelte, che saremo felici. Ho incontrato un giovane uscendo ieri, mi ha guardato profondamente e il mio cuore ha iniziato a pulsare ad una sconosciuta e folle frequenza. Gli occhi imbarazzati erano incantati su lui, e il suo corpo danzava armoniosamente col mio, in una magica danza ultraterrena. Così in uno sguardo sono state dette più di mille parole, e persa in quegli occhi mi sono riscoperta. Mi si è avvicinato e, inginocchiatosi, mi ha chiesto di sposarlo. Io sono una Vestale e ho giurato castità al Pontifex Maximus. Se solo mi avessero visto in quel momento, non sarei ancora qui… annaspavo con voce inquieta, cercando le parole adatte, ma non riuscii a rispondere nulla. Retrocessi quindi velocemente all’Atrium del foro. Lì dimenticai a malincuore l’accaduto, reprimendo in me un lecito desiderio d’amore adolescenziale.
Il giorno seguente dovetti ancora uscire, serviva l’acqua per la nostra purificazione quotidiana, mi recai così alla fonte Egeria: fui sorpresa e intimorita nel rivedere il ragazzo.
– Mi chiamo Claudio – aveva esordito, – sono un soldato. Sapeva chi ero, mi aspettava proprio davanti al foro.
– So che non hai facoltà di sposarti – aveva continuato, – ma nessuno potrà ostacolare ciò che proviamo, ciò che quello sguardo ha dato a entrambi. Vedrai, ti porterò fuori di lì -, poi se ne andò.
Ero tanto lusingata dal suo interesse per me, quanto ammaliata dal suo sguardo, mi ero innamorata della sua immagine e della sua voce. Da quel momento avrei fatto qualsiasi cosa per riuscire a sposarlo.
Iniziammo a vederci, bramosi d’un amore clandestino che in ogni occasione si riproponeva fatale. Non confessai certo a nessuno di questi incontri, ho sentito dire che una vestale colta in espliciti atteggiamenti con un uomo, era stata lasciata morire nel Campus Sceleratus, mentre lui era stato ucciso immediatamente. Bisogna saper essere cauti ed accorti: se ci scoprissero per noi sarebbe la fine.
Claudio è così audace, non capisco come faccia a non temere la morte che io sento sempre così vicina! E’ un’invisibile ombra che non mi lascia mai e tormenta le mie notti. Vesta, mia padrona e madre, la tua più umile servitrice ti prega: non abbandonarmi ora Madre. Domani Claudio andrà a parlare con il Pontifex Maximus, implorandogli la mia mano. Io l’ho pregato piangendo di non farlo! Ti supplico fa’ che non gli accada nulla di male, non potrei sopravvivere senza di lui!…
Sono passate quattro notti di profonda inquietudine e sottomesso castigo. Claudio è nel carcere Tullianum. Il Pontefice è stato profondamente scosso alla richiesta, e ha risposto dicendo che io sarei dovuta essere solo sua, io, che non sono come le altri vestali. Ho paura di non rivederlo più, di non poter condividere la mia vita con lui, paura che lo uccidano. Il tempo fugge, con il suo imperterrito trascorrere, ma il mio amore cresce nell’ombra, con il nuovo timore della figura del Pontefice, che ormai, sempre più spesso, desidera vedermi e dialogare con me. Devo assolutamente recarmi al carcere Tullianum. Devo parlare con Claudio.
Quella mattina, sul fare del giorno, giunsi nell’Atrium Vestae.
Non vi era nessuno e solo il buio della notte e il silenzio delle taciturne stelle accompagnavano la mia fuga. Eccomi, ero davanti al carcere, invocando muta il nome del mio amato.
Ma sento ora un suono che mi pare amico, e con la massima attenzione seguo quella che mi sembra essere la sua origine.
Mi avvicino ad una delle celle, tenendo stretto il mantello e coprendomi persino il volto. Sento sussurrare il mio nome.
Ho paura di essere vista, di non trovarlo, non pensavo neanche di poter arrivare sin qui, senza essere notata. Ma ora mi rendo conto, devo andarmene, le luci dell’aurora iniziano ad affacciarsi e i raggi di sole, provenienti dall’immenso carcere, mi illuminano la veste. Cerco una scorciatoia, mi incammino a grandi passi, ricercando un’agilità di cui non posso godere per via del mio abito. Mi sono persa, i vicoli sono tutti così simili, le stelle che mi hanno guidato nella notte, ora mi stanno lasciando e così anche le mie forze e la mia speranza. Mi nascondo e socchiudo gli occhi.
– Madre, assistimi –, sussurro.
Con rinnovata forza, mi giro e cerco di riprendere la via, ma ahimè, di fronte a me si para il pontefice con due uomini fidati al suo seguito, di quelli che, vedendoli si preferisce cambiar strada e prendere la seconda via. Quello mi prende con forza, sembra divertito e sogghigna, tra i denti sibilanti, parole che non posso comprendere.
– Miei cari commensali, sono più che mai lieto di ricevervi e vi prego vivamente di consumare questi ben di Dio, elargizioni del nostro imperatore Teodosio. Pro sit! –, esortò il religioso.
Tutti i presenti partecipavano attivamente alle conversazioni politiche, e molti di essi per l’aver ecceduto col vino, avevano cadenze stravaganti e barcollavano da seduti, accennando a molteplici discorsi volgari e ridendo di gran gusto. Solo uno, tale Don Candido, si manteneva fermo e composto, e il suo sguardo penetrava con aria di sfida quello del padrone di casa.
Era un uomo austero, di nobili origini e cugino del pontefice stesso. Si alzò tra la confusione d’un pranzo ben poco virtuoso e frugale, si avvicinò al parente e portandosi una mano alla bocca gli ricordò: – Abbiamo scommesso ventimila denari: se la giovane vestale sarà tua, li avrai.
Claudio era stato portato nel carcere. Sedeva ora nel loculo maleodorante e ben poco accogliente, piangendo il destino e la sua amata. Non l’avrebbe più rivista, né forse sarebbe mai uscito da quel posto. I piedi nell’acqua, a fissare lo stesso scenario che doveva aver contemplato Vercingetorige, quasi cent’anni prima. Vercingetorige, il grande comandante de Galli, che si dice resistette per cinque anni e più, in attesa della sua condanna, e cioè, della sua morte. Ma ecco, delle voci estranee si odono dal carcere. Saranno venute le guardie a portar da mangiare? I passi si fanno sempre più vicini e sicuri, le voci non si odono più.
– Vogliono uccidermi. Come ho potuto solo pensare di poter sposare Cossinia? Ora son venuti a prendermi e qui, nel mezzo delle tenebre più oscure del mio cuore, vogliono tentar d’insediarsi. Giammai! Se devo morire, morirò con il nome dell’amata fanciulla sulle labbra; quello non si potrà strapparmelo via. Che la dura morte non confonda mai le menti innamorate, Cossinia mia, io muoio per te.
Nel contempo, mentre il giovane pativa le pene della sua intrepida azione, una carrozza era giunta nella Domus Publica, sul Palatino, e lì una ragazza soffriva nel silenzio…
– O benevola Madre! Ma dove sono? Sento delle voci confuse e nient’affatto sommesse, mi gira la testa… che succede? Il pontefice deve avermi portato qui! In questa stanza estranea v’è un letto e un’aria gelida. Una piccola finestra è socchiusa. Che mi capiterà ora? Vorrà mandarmi nel Campus Sceleratus?
Con un fragore la porta si aprì e ne vennero dentro il pontefice ed una vecchia, una serva, a giudicare dal suo abito, nonché dalla sua espressione, corrugata dagli anni di sforzo e infelice per una vita senza gioie ed amori. Il pontefice aveva un viso tra il punitivo e il compiaciuto. Non capivo cosa avesse da sogghignare, ma la mia testa rimase china e umile per tutto il suo discorso. Non mi riusciva di sollevarla, neanche per staccare il mento dalle clavicole e il sudore mi rigava lateralmente il viso, nel tremolio complessivo del mio corpo e delle mie mani, che, impaurita, nascondevo sotto al mio abito. Ero seduta in ginocchio, nell’angolo più scomodo e nascosto della stanza, le parole dell’uomo si ripetevano più dure dentro di me e non potei fare a meno di piangere, piangere fiumi di lacrime per quell’aspro rimprovero senza precedenti, per la turpe umiliazione, per la vergogna e per il sacrilegio.
Quella notte fu un cupo cielo senza stelle, rischiarato forse, ora che ci penso, sol dalle parole di quella donna, che con gratuita volontà mi abbracciava, e mi tranquillizzava circa le volontà del pontefice. Lui aveva detto che non avrei più rivisto Claudio, poiché era stato ucciso. E del resto, ben poco doveva importarmi, a suo dire, che la mia fine era da stabilirsi.
Non potevo credere che Claudio fosse morto, ma era questo il destino che la grande Roma riservava al nostro crimine. Roma, la mia terra e la mia patria, la mia origine e la mia sorella, lei mi aveva preso l’Amore. Aveva raccolto, spietata, il sangue del mio giovane amante, cui ora volgo il pensiero.
– Tu, Roma, come l’hai permesso? Come hai potuto lasciare che i tuoi figli uccidessero i loro fratelli? Roma, una grande potenza, una grande fama, madre mia, ora mi uccidi.
Nel frattempo lo scalpitio di passi, udito da Claudio minacciava l’imminente venuta di qualcuno, ed ecco infatti che il nostro giovane dal carcere…
Due centurioni mi tirarono fuori di lì. Ero bagnato, non sentivo quasi più i piedi per la permanenza nell’acqua gelida, ero spaventato, mi tremavano le gambe e le braccia, e devo aver avuto un’espressione di quelle ben poco spavalde. La forza mi venne meno e i calci che mi davano per sbrigarmi a uscire da quel lurido posto, affaticavano le gambe, stanche dal mancato riposo. Era tardo pomeriggio e il sole batteva debole nel grande cielo. I suoi raggi rischiaravano l’aria; feci un profondo sospiro che mi scaldò il cuore nel sottile e fugace godimento di quell’attimo. Avremmo dormito fuori dal carcere quella notte, i due uomini avevano della lana con loro, vi si sarebbero coperti. Non invidiavo tuttavia la loro condizione, pensavo piuttosto al destino cui avrei dovuto obbedire e che non mi era ancora lecito sapere. Annidavo in me ogni rimorso per la perdita di quella donna. Potevano averla uccisa, no sarebbe stato uno scandalo, specialmente in questi tempi dove la fermezza delle istituzioni sembra iniziare a vacillare.
L’avrebbero condotta nel Campus Sceleratus in segreto? No, vi avrebbero condotto anche me. E allora? Quanto spero che stia bene e non soffra le conseguenze del mio atto, che tuttavia rifarei cento e più volte, implorando di avere colei, e lei sola che così dal primo sguardo ho amato. Ora ero imbarazzato, le persone che deambulavano serene, dinnanzi alle porte del carcere, sembravano guardarmi come si guarda un nemico di Roma, la potente Roma, contro cui nessuno può nulla. Nemico dell’Impero o più semplicemente, poco attento e curante alle regole delle sacerdotesse vestali non importava, io ai loro occhi ero un traditore, io che osavo andar contro alle antiche tradizioni della Capitale, io che non riponevo, né nutrivo fiducia in una religione che viene professata, per la maggiore, solo per il fatto che racchiude la quintessenza della nascita stessa della patria. Il sole calava e si innalzava un ponentino vivace e malandrino, non soffrivo il freddo, né la fame; ma piangevo per l’ignota sorte, ahimè, della mia amata. Tra le delicate lacrime di un amore profondo, s’adoperava la mente d’una povera donna che avendo passato una vita di repressioni, auspicava ardentemente aiutare la giovine.
Ora la vecchia serva che mi osservava nel pianto, mi confessava d’aver origliato una conversazione privata nella stanza del cardinale.
– Sono sicura d’aver sentito il Pontifex che diceva a quei due omaccioni di centurioni, sai di quelli che controllano le carceri, di far uscire di lì il ragazzo, e di fargli patire le pene per l’azione commessa la mattina seguente, all’aperto.
Infondendomi, così, nuova speranza circa la vita del mio amato, e animandomi come una benevola madre accudisce fin da piccoli i suoi bambini, preparandomi ad un gesto senza precedenti, mi proponeva una fuga dalla domus.
La stessa notte progettammo il piano. La povera donna, al servizio d’un uomo senza scrupoli, non si era mai potuta sposare; nutriva tuttavia un amore puro e incondizionato verso Decio. Quest’ultimo, non era altro che il tuttofare del cardinale che risiedeva nell’ala più remota del palazzo, assieme ad un altr’uomo, che però all’apparenza si mostrava ben diverso da Decio. Si mormorava che quello fosse stato un uomo crudele, con un passato di quelli raccapriccianti, e che si trovava lì, perché compagno d’avventure del cardinale in gioventù. Ma nessuno aveva mai osato chiedergli chi fosse, e il suo nome rimase un segreto celato nelle immense fauci delle più infime tenebre. Decio, uomo popolano e povero, era uno di quegli ingenuotti che a branchi dobbiamo affrontare nella vita di tutti i giorni. Tuttavia, era anche uno dei pochi che con un’anima grande e misericordiosa, sapeva donarsi completamente all’altro.
Durante la notte dunque, Decio sarebbe uscito senza far rumore dalla sua stanza e sommessamente avrebbe raggiunto la porta di quella camera spoglia e fredda, che avrebbe aperto a Cossinia la speranza di una nuova vita, con il suo Claudio. Con il suo liberatore si sarebbero recati davanti alle carceri e lui avrebbe intrattenuto e distratto le guardie, mentre lei fuggiva con il giovane. Ora lei, rinvigorita da quel calore materno e da una nuova fiamma di speranza, dedicava a Vesta, nel silenzio della sua mente, una delle sue più coinvolte preghiere. Voltatasi per un secondo, verso quell’apertura nel muro, contemplava la maestosità della luna, bianca e completa, luminosa e allo stesso tempo emblema delle tenebre. Luce ed ombra, bianco su nero, la dolce sfera sembrava indicarle che quello, la fuga, doveva essere il giusto sentiero. Con Vesta e la luna favorevoli a questa nuova iniziativa, e con un rinnovato amore nei confronti di Claudio, ogni pensiero di Cossinia si faceva più vivido e imminente. Si sentì uno scricchiolio pacato, la ruggine del ferro che scorreva ricercando un’impossibile mutezza, il gesto fermo e deciso. I cuori delle due trepidanti si fermarono ansiosi, ma il pulsare di quell’organo vitale riprese in simbiosi, al riconoscimento da parte della più anziana del suo amato Decio, che avrebbe condotto Cossinia alla libertà e all’amore…
I due uscirono e lui, destreggiandosi bene nelle note tenebre della Domus, s’avviava a gran passi davanti al Tullianum. La strada era più che mai deserta e Cossinia manteneva un buon passo, seguendo il suo liberatore. Ecco, svoltiamo ora per l’Aedes Concordiae, siamo arrivati.
– Vedo i due centurioni -, disse Decio – mi avvicinerò a loro, li distrarrò. Il ragazzo è sveglio, quando mi sentirai chieder loro del vino, va verso lui e fuggite insieme, il resto sarà compito mio. Va’, e che la notte ti conceda d’esser libera!
Detto questo, andò. Io rimasi lì, col fiato sospeso e l’animo in subbuglio, cercando di percepire il massimo di quanto sentivo da Decio.
Lui, avvicinò i due e così inizio a parlar loro: – Ave, coraggiosi soldati! Stasera il ponentino si fa sentire, eh? Ma che fate qui? Oh non ditemi che costui è un nemico di Roma!
– Non ti sbagli, buon uomo. Egli ha tradito le istituzioni, la tradizione e la patria!
– Come mai dunque non lo si è già ucciso? Gli si sta serbando forse una pensa più esemplificativa? Sarebbe pur buono ciò!
– Poichè si vede che non sei uno spifferone –, disse il primo – ti dirò che domani avverrà la condanna, assisterà il cardinale in persona e tutto il suo seguito, sarà un’esecuzione che passerà alla storia!
– Avete ben parlato! Le do la mia parola d’onore, nessun saprà ciò che codeste vecchie orecchie hanno udito. Avete per caso un goccio di vino?
Era il segnale, dovevo andare e affacciarmi per vedere se i due erano voltati nella mia direzione. Nessuno s’interessava di guardare qui, vicino a dove giaceva il mio amato.
– Claudio! – Bisbigliai.
Egli si voltò e io gli feci cenno di star zitto.
Non appena fu momento egli, con rumore simile ad uno che si gira per prender meglio sonno, sgattaiolò via da quell’angolo e mi raggiunse. Ora stringeva le sue mani forti nelle mie, infondendomi un calore che mi attraversava lo sguardo e il cuore, ed un brivido mi percorse tutto il corpo.
– Scappiamo al Tevere, poi ti dirò tutto ciò che conviene sapersi –, lo esortai.
Mi seguì senza esitazione. Corremmo verso il fiume quindi passammo il teatro Marcello ed arrivammo. Lì ci aspettava un buon uomo, compare di Decio, nostro liberatore; lui ci avrebbe portato fino ad Ostia, lì saremmo stati liberi finalmente.
Non sarei più sottostata al controllo del Pontefice, inoltre l’imperatore era ad Aquileia a combattere con un tale Magno Clemente Massimo, e di certo non sarebbe tornato indietro per una vestale scappata.
Nella Domus regnava un grande caos per la sparizione di Cossinia, lei, una delle vestali più rette ed oneste, semplice ed umile. Lei che alimentava un grande interesse da parte del Cardinale, per via della turpe scommessa col cugino, Don Candido, 20 mila denari se solo la vestale fosse stata sua.
Un’impresa che era possibile per il Pontefice, che però non riusciva a capacitarsi di come ella fosse scappata e avesse lasciato la Domus. Egli era da quel momento più scortese del solito, limitando persino i banchetti con tutti quei conoscenti, dove si consumavano cibi e beni destinati all’ordine vestale da Teodosio. Quasi non parlava più con nessuno, tranne che con il compagno di stanza di Decio, che convocava personalmente nella sua stanza, per lamentarsi della situazione.
Salimmo sulla barca e ci sedemmo in attesa di arrivare.
Mentre ci allontanavamo tra quelle acque, ci faceva compagnia il loro scroscio che, continuo ed armonioso, rasserenava i nostri cuori. Claudio si è addormentato, doveva essere stanchissimo, chissà cosa starà sognando…
– Socchiudo gli occhi e riprendo fiato –, è stato ciò che ho appena detto a Cossinia, come interrompendo una serie di veloci pensieri che immagino si affollino dentro la sua testa.
Quante volte da ragazzo son venuto a giocare da queste parti!
Quante partite a follis, quelle erano le mie preferite! Lì facevo vedere a tutti quanto valevo e come sapevo muovermi bene, grazie anche alla mia statura e alla mia corporatura, che sono sempre state precoci. Ricordo gli amici che frequentavo, il tempo a pensare da solo, o quando mi rifugiavo qui, sfuggendo ai mille doveri diretti o indiretti cui ognuno di noi è soggetto. Il tempo trascorso a pensare era uno dei migliori: è quello che mi ha fatto crescere. Lascio tutti i miei affetti, tra questi salici riposerà une parte del mio cuore. Ed ora, ripenso a codesto mio trascorso, costretto ad abbandonare la terra che mi ha fatto crescere, che mi ha protetto, che mi ha accolto ed amato, e dove ora potrei morire. Ma dividermi da te significa unirmi alla mia amata, ed è questo il mio desiderio più grande.
È arrivato il momento del nuces delinquere, diceva sempre mia mamma. Addio dunque, colle che mi hai partorito, addio dolci acque, lasciarvi è come dover celare una parte di me e del mio passato…
– Qui c’è un bellissimo paesaggio –, pensai. L’acqua è trasparente e i salici sono di un verde così intenso! Vi è un forte profumo di vegetazione e il canto degli uccelli che iniziano a volare nei nostri cieli accompagna il nostro viaggio.
– Vesta, madre mia, tu dea del sacro focolare, tu che mi hai protetto, che mi hai ascoltato e capito, te io invoco. Ho rinunciato al servizio trentennale per coronare un sogno d’amore nato da uno sguardo, per poter provare un amore diverso da quello filiale e universale, perché quello non era nella mia indole: né vi nacqui, nè mai lo scelsi. Madre, ti supplico, perdona la mia mancanza. Perdona la mia disubbidienza, e riconosci in me grande sottomissione ed abbandono. A te affidai la mia infanzia, nel tuo nome ora fuggo verso l’Amore. Come io continuerò a chiamarti a gran voce ed a ringraziarti, tu proteggi questo giovane e candido amore nato sotto di te…
Intanto nella Domus la notizia di un evento singolare aveva scosso ulteriormente il Pontefice. I due centurioni avevano perso il loro ostaggio, che sarebbe dovuto essere stato condannato l’indomani, all’alba di un gran sussulto popolare. Il cardinale chiamò subito a sé i soldati ed essi vennero spediti quasi immediatamente nel carcere Tullianum. Avevano mancato al loro dovere, e dovevano essere puniti. Il Pontefice non poteva allontanarsi dalla Domus, ma, ostinato a vincere la scommessa con il cugino, scelse due tra i suoi uomini più fidati, e ordinò loro di trovare i due giovani e di informarlo subito nel caso li avessero visti. La spedizione fu programmata con cura, così come anche i luoghi dove cercare meglio. Non potevano essersi allontanati. I due scagnozzi si misero subito sulle tracce degli amanti.
– Siamo arrivati –, esordì il barcaiolo. Dopo un caloroso ringraziamento e sentite benedizioni per lui e i suoi cari, i nostri fuggiaschi si allontanavano verso Ostia. Era il diciotto di Aprile e, all’insaputa dei due, nel tempio dei Monsores venivano celebrati i Ludi Ceriales, in onore di Cerere, dea delle messi. Essi trovarono infatti, nel teatro una grandissima rappresentazione delle recenti vittorie riportate dai romani, e l’uccisione degli schiavi riportava il pensiero di Cossinia ai munera gladiatoria nell’anfiteatro Flavio; ma ora non era più sola. Stringeva il braccio del suo amato, forte di una protezione fino ad ora sconosciuta. Assistettero per un poco ai ludi scenici e poi s’infiltrarono nella città, atteggiandosi come normali cittadini liberi, appoggiandosi l’un l’altro. Nessuno sospettava di loro, assorti nella distratta fantasia d’un amore novello. Ma ecco, si sentono delle grida in lontananza e gran parte degli spettatori al teatro scappano terrorizzati. Due uomini, due soldati erano venuti a cercarci.
– E’ stato ordine del Cardinale! – urlò Claudio, che impugnò il pugnale e si disse pronto a proteggermi non appena essi ci avessero raggiunto.
Vi era un gran disordine e Cossinia era spaventata, più che mai, nel vedere tutti che correvano nella direzione opposta a quella in cui procedeva lei, ormai con gli occhi serrati, tremante e nascosta dietro al corpo del ragazzo. Claudio cercò di tranquillizzarla, lui sarebbe morto per lei, nessuno le avrebbe fatto del male, nessuno avrebbe ardito. L’amore trionfa sempre, ce l’avrebbero fatta. I due uomini che avevano causato tanto terrore non si vedevano in lontananza e questo preoccupava il giovane che, tuttavia, non esternava i suoi pensieri. Era arrivato l’Imperatore a comunicare un grande cambiamento. Tutti si fecero attorno a lui, inginocchiandosi e riverendolo. Teodosio il grande, dopo aver sconfitto Magno Clemente Massimo ad Aquileia portava agli abitanti di Ostia un messaggio nuovo: l’ordine delle Vestali era stato soppresso per far posto al crescente cristianesimo. Cossinia era libera, questa volta definitivamente. Nessuno avrebbe più potuto ostacolare il loro amore, puro e genuino, nessuno l’avrebbe più portata al cospetto dell’odioso Cardinale che, chissà per quale motivo, teneva tanto a lei. Nessuno avrebbe cercato di uccidere Claudio poiché traditore di Roma. Non vi era più alcun pericolo ed i due giovani, allegri più che mai, e animati da un amore profondo che iniziava a mostrare le gioie che questo sentimento può dare, ripercossero il Tevere, e tornati sul Campidoglio vi rimasero. Accanto a loro presero dimora Decio e la serva che aveva aiutato la giovine e si sposarono.
Il Cardinale venne mandato nel carcere e lì scontò le pene dei suoi errori, e dovette pagare 20 mila denari al cugino per aver perso la scommessa. I nostri due eroi, dopo aver affrontato tante avversità, vivevano ora serenamente nella loro casa con i loro tre figli e mai, vi dico, vi fu coppia più affiatata ed unita nell’intera Roma imperiale.