I racconti del Premio letterario Energheia

Soltanto un nome, Eleonora Ernestine Spezzano_Reggio Calabria

Finalista Premio letterario Energheia 2022 – Sezione giovani

L’ombra si allunga tremolando sulle dune. Non sembra mia, ma di un serpente ricurvo e sottile, il fruscìo del vento rovente che smuove i granelli di sabbia sembra il suo sibilo, l’orizzonte azzurro sembra un lago verso cui si protende, assetato, strisciando su questa distesa scarlatta infinita, nascosto da ogni sguardo. Oggi il sole non ha più forma ma è solo un disco di fuoco che taglia il cielo a metà e rende l’aria pesante come mille macigni immensi. Forse sono ancora in tempo, potrei ritornare sui miei passi deboli e lenti. So che se mi specchiassi vedrei il mio viso scuro e prosciugato dalla fame, le mie pupille spente e velate di un pallore mortale, dello sfinimento. So che il sole mi uccide. So che ha ucciso le mie sfortunate compagne, giovani spose bambine come me, cadute una dopo l’altra, viaggio dopo viaggio, per un bene così scontato, così prezioso. La mia mente è trafitta come un lampo di sogno dal ricordo delle labbra secche e screpolate di Iqbal, il pallore e gli occhi stanchi di Jahid. Da quando la siccità ci aveva colpito, ogni volta che posavo inevitabilmente lo sguardo sui loro corpi sottili che avevano da tempo smesso di crescere come avrebbero dovuto, una stretta terribile mi avviluppava lo stomaco e i morsi della fame sembravano non importare.
Non li vedevo più da quando avevo lasciato il mio villaggio, mesi prima, per incontrare il mio sposo, ma con piacere ogni sera li immaginavo mangiare felici, insieme alla nonna, li immaginavo sempre più forti. Sapevo che mio marito avrebbe mandato loro parte dei suoi pochi guadagni, e che sarebbero diventati uomini sani e belli, i miei fratelli. Sapevo che questo valeva tutte le violenze, perché in fondo lui era un uomo buono, che si preoccupava della mia famiglia, anche se a volte perdeva il controllo. Una risata mi sfugge dalle labbra. Quale sacrificio è il mio? In fondo lui non chiede altro che una moglie devota e fedele, ed io, nonostante quanto fatichi per me, non sono mai abbastanza, non mi impegno mai come dovrei. Sì, sono certa che la colpa sia mia. Se solo fossi più devota, se lavorassi più duramente, allora forse mi amerebbe.

Forse un giorno mi amerà. Sento la sabbia che sferza sul mio volto come mille chiodi. I piedi avvolti dai sandali sgualciti inciampano sempre più spesso. Chissà quanti segreti cela questa distesa desolata, quanti passi l’hanno calpestata, con quella cadenza lenta dei viaggiatori stanchi del deserto, invecchiati dal lungo camminare dritto, in cerchio, su, giù. A volte dimenticano qual è la meta, a volte perdono la loro guida, allora camminano e camminano, errano nella luce abbagliante senza speranze, fino all’ultimo abisso. A volte mi chiedevo se non fossi una di loro, ogni volta che facevo quel viaggio, quell’andata e quel ritorno che cambiavano sempre e non finivano mai. La mia meta non era mai la stessa. L’acqua non scorreva mai nello stesso punto. Spesso si rintanava nelle caverne più fredde e oscure, dove il sole non poteva sfiorarla, dove non rischiava di stagnare sotto i suoi raggi, di scomparire nel cielo rovente. Allora bisognava scavare, sempre più in profondità, fino a trovare il luogo in cui si nascondeva quell’ultimo rivolo di vita del deserto, quel sorso così piccolo anche solo per poche case doveva bastare per tante, in chilometri e chilometri. Ricordo quel periodo, al villaggio. Ormai le fosse scavate non bastavano più. Le casse per seppellire i morti erano un lontano ricordo. Con orrore vidi mia madre che veniva calata nella nuda terra. Le mie dita la sfiorarono senza volerlo quando aveva ormai esalato l’ultimo respiro, il tocco fu gelido, subito mi ritrassi.
Poche persone dai volti scuri che avevano già pianto tanti altri morti erano raccolti intorno a quella voragine che pareva estendersi senza fine nel profondo nero della terra, intonando canti funebri bassi e stonati, che narravano di dei e antenati, di dolce sonno e riposo eterno. Tante facce mi scorrevano davanti. Indifferenti, dispiaciute, addolorate, alcune più di altre. Tante voci cariche di compassione mi sfioravano i timpani come lamenti insignificanti, piagnucolii incomprensibili. Poi svanivano come se non ci fossero mai stati, lasciandomi nel sole di nuovo, in quella realtà che sembrava un sogno. Questo è solo un brutto sogno, mi ripetevo. Ma non mi svegliai.

Mio fratello Jahid si strinse a me, mentre il maggiore rimaneva in silenzio. Non chiese mai il mio conforto. Muoveva le labbra ma senza emettere un suono, e il suo silenzio disperato si perdeva fra le voci, proprio come i singhiozzi di mio padre. Piansi solo quando il sole si era ormai nascosto dietro l’orizzonte, a versare le proprie lacrime silenziose dietro le alte montagne dove nessuno poteva vederlo, così io mi rintanai nel buio circondata dal ricordo di quelle tragedie, soffocata da quelle pareti nere, dal legno ammuffito che trasudava in ogni centimetro l’odore di mia madre, le lacrime soffocate di mio padre che non avrebbero mai smesso di scorrere. Avrebbe imparato di nuovo a sorridere, un giorno, questo lo sapevo, ma il dolore per l’amore che aveva perduto non avrebbe mai avuto fine. Una parte di lui era morta insieme a mia madre, e ora giaceva sepolta e immobile, nella più profonda e fitta oscurità. Le immagini dei giorni felici che non sarebbero tornati mai più mi attraversarono la mente come la vampata improvvisa di una fiamma. La mamma che preparava la sua minestra di yam, io e Iqbal che le porgevamo gli ingredienti uno a uno. Jahid che gattonava e si rotolava sul tappeto, ridendo felice, mentre papà si stendeva accanto a lui, stanco per il lungo lavoro, facendogli il solletico, e la sua risata profonda e stanca riempiva la casa di gioia. Era finita oramai. Ricordare era solo il mio ultimo, estremo tentativo di fingere che nulla di brutto fosse successo, di fingere che la parte più importante della mia vita non fosse andata in rovina, non fosse crollata, non fosse seppellita metri e metri in fondo alla terra. Il mio ultimo respiro di vita, che giorno dopo giorno scivolava via. Era ormai irrecuperabile. Nel buio mi nascondevo e cercavo di dimenticare, come l’invisibile fantasma di quello che ero quando mia madre era viva.
Sul pavimento, un colpo dopo l’altro, ecco avvicinarsi la vecchia veggente a passi lenti sulle sue tre gambe, due della sua carne e una del legno nodoso dell’annosa quercia, unica ad aver vissuto tanto quanto lei. La nonna, cieca da anni ormai, camminava guidata dal ramo secco che non l’aveva mai
tradita. Mi si sedette accanto, sul letto, e mi strinse a se dicendo ‘ adesso io sono tua madre’. E piangevamo, perché avevamo perso colei che ci amava entrambe e che entrambe amavamo. Così fu per molte notti. Mia nonna era molto saggia. Si dice che una notte del secolo scorso l’abbiano trovata che piangeva e strillava con tutta la forza dei suoi piccoli polmoni sotto la grande quercia, al centro del villaggio. Non era arrivata da nessuna parte, quella bambina, era solo comparsa un giorno, era venuta dalla terra, dicevano, era una dea, o forse l’aveva lasciata lì una leonessa sacra, o forse addirittura era un angelo del paradiso. Divenne figlia del villaggio. Quando aveva cinque anni, mentre giocava per strada insieme ad altri bambini, cadde a terra in preda a spasmi e convulsioni. Tutto il villaggio accorse sul posto, compreso il sacerdote che era considerato l’unico medico in chilometri. Dopo qualche minuto, la nonna rinvenne come se nulla fosse, poi dichiarò che quella notte vi sarebbe stato un grande dolore per tutto il villaggio. Quando le chiesero il perché affermasse ciò, lei rispose che non sapeva dare alcuna spiegazione, semplicemente sapeva che sarebbe accaduto. Così come aveva detto, la giovane moglie del sacerdote cadde nel buio sull’ uscio della porta e morì portando con se il bimbo che stava per dare alla luce, colui che avrebbe portato avanti il mestiere del padre, che era ormai troppo vecchio e stanco e non aveva altri eredi. Nessuno sapeva come la vecchia saggia avesse potuto prevederlo, ma ciò che ormai appariva certo era che non era come tutti gli altri piccoli orfani. Da quel giorno, venne servita e onorata al pari di una dea, in molti si convinsero che era figlia della Luna. Uomini e donne viaggiavano da altri villaggi per le sue predizioni, portando doni e abiti meravigliosi e ricchissimi di diamanti di vetro lucente per la piccola, e donandole tutto ciò che potevano permettersi. Presto, le voci che predicavano sulla natura mistica della nonna si affievolirono, soprattutto quando, nel periodo della sua adolescenza, una delle prime grandi carestie- che la giovane aveva prontamente annunciato- colpì la regione.

La nonna non si sposò giovane, come facevano le altre ragazze. Il sacerdote, ormai troppo vecchio per avere altri figli, l’aveva presa in casa propria come fosse figlia sua, istruendola perché diventasse suo successore nell’arte della magia e della medicina. Si innamorò solo a vent’anni, quando ormai, secondo le nostre tradizioni, il tempo di sposarsi era passato. Ho sempre desiderato essere come mia nonna. Fantasticavo su chi fosse davvero, mi chiedevo da dove venisse. Forse una dama misteriosa l’aveva lasciata ancora in fasce sotto quella grande quercia, o forse era davvero una dea figlia della luna. Alla mia nascita, mia madre sperava che quel dono misterioso e incomprensibile che la nonna possedeva avrebbe baciato la mia anima come non aveva fatto con la sua. Invece si sbagliava. L’ho sempre desiderato ardentemente, speravo che un giorno anch’io avrei visto il mondo come lo vedeva la nonna, speravo che anch’io avrei avuto la sua saggezza. I piani di mia madre per me erano grandi. Voleva che studiassi, che diventassi un medico. Voleva che il mio nome fosse conosciuto nel mondo, voleva che con le mie mani cambiassi la vita di molti uomini e donne, che portassi bene e trovassi fortuna ovunque andassi. Voleva che viaggiassi verso occidente, verso le terre ricche, le terre dei grandi dottori, degli studiosi, dei filosofi. In quei luoghi di inimmaginabile bellezza il sole non sorge e non tramonta mai, così diceva. I villaggi sono sempre affollati e illuminati a tutte le ore, c’è cibo in abbondanza anche se i raccolti sono scarsi e il cielo non porta pioggia. Lì, gli uomini occidentali non hanno da preoccuparsi della fame e delle malattie. Sembrava un mondo fantastico e paradisiaco, dove tutto era così semplice, il mondo dove tutti noi avremmo voluto vivere. Da piccoli io e Iqbal facevamo finta di essere due ricchi mercanti occidentali che commerciavano la seta. Io ridevo delle sue fantasticherie, prendendolo in giro per le sue cinque mogli immaginarie, per i suoi grandi tesori accumulati in mucchi nella sua cantina, per i suoi banchetti di dolci e prelibatezze.

Niente ci faceva paura al tempo, non finché avevamo una madre che ci abbracciasse dopo ogni incubo, non finché non conoscemmo la morte, finché non la vedemmo con i nostri occhi e rimase impressa per sempre nelle nostre menti. Guardavo i miei fratelli. I loro volti scuri, segnati dalle lacrime, da strati e strati di dolore che rendeva irriconoscibili i loro lineamenti infantili. Loro erano troppo giovani per non avere una madre. Di giorno, io ero quella che li consolava, che li abbracciava ogni volta che avevano voglia di piangere. Stringevo a me Jahid, dicendo che sarebbe andato tutto bene. Consolavo Iqbal, che non me lo aveva mai chiesto, condividendo il suo dolore, e in silenzio lui si appoggiava alla mia spalla, chiudendo gli occhi stanchi e arrossati. Di notte, ero di nuovo io, un fantasma senz’anima, senza futuro né passato, intrappolato dal tempo nell’ombra di un periodo felice che non riuscivo a dimenticare, che come un leone splendente e luminoso mi graffiava il petto con i suoi artigli, mi tormentava e mi affascinava per la sua bellezza, per il desiderio di affondare il volto nella sua criniera e finalmente chiudere gli occhi, non sentire più il sangue scorrere dal mio petto portando con sé tutto quello che rimaneva dentro di me, lasciando solo un immenso vuoto. Odiavo quel flusso di ricordi senza inizio né fine che scorreva come un velo sbiadito di fronte ai miei occhi e lo fa ancora oggi. Mi seguiva ovunque, nei miei sogni e nelle mie veglie. Sentivo il tepore del ventre di mia madre, le sue mani che mi accarezzavano il volto, i capelli, la sua voce che mi consolava con parole incomprensibili, in un’illusione che durava un attimo prima dell’alba.
Eccomi di nuovo a casa. La consapevolezza di quale fosse la realtà mi bloccava, mi faceva pulsare le tempie, mi toglieva il fiato. Ed è così ancora oggi. Sogni e speranze distrutti che ritornano a tormentarmi e a far male come la prima volta. Ogni giorno perdevo mia madre e ogni notte piangevo la sua morte.

La scuola mi piaceva. Era una piccola stanza, una vecchia stalla dove entrava poca luce. L’odore degli animali impregnava ancora l’aria secca e calda, la paglia era sparsa in terra qua e la, e in grossi mucchi vicino alle pareti. Spesso al mattino i bambini più dispettosi vi si nascondevano, e all’arrivo del maestro Malak saltavano fuori strillando e terrorizzandolo. Egli era un ometto basso e pauroso, proveniente da una città distante chilometri di cui non ricordo il nome, e che veniva pagato una miseria. Mi fece sempre una gran pena, perché nonostante i suoi sforzi, le sue lezioni sporadiche interrotte di continuo dai miei agitatissimi compagni servivano a poco, e molti di noi a malapena imparavano le prime lettere dell’alfabeto. Certi giorni troppo caldi tutti i bambini del villaggio si riversavano in una piccola pozza d’acqua fresca, che le donne utilizzavano per cucinare e lavare i vestiti, e che oggi è ormai prosciugata. Io e Iqbal poi uscivamo dall’acqua e ci appoggiavamo alle radici di un albero dalle fronde basse, sotto l’ombra delle sue foglie, fino ad addormentarci cullati dal fruscio del vento. Dopo la morte di mia madre, la sera, una volta finite tutte le faccende, lasciavo bollire l’acqua in piccoli pentolini con tutto ciò che avevamo, cercando di ricavare da quei pochi alimenti un brodo magro e insipido. La nonna prendeva posto sull’unico, instabile sgabello della casa, mentre Iqbal e Jahid si sedevano accanto a me, prendevano con cura le loro ciotole facendo attenzione a non far cadere nemmeno una goccia di quel privilegio che non tutte le sere potevamo permetterci. Poi, nelle occasioni più fortunate, vi intingevano il pane secco che alcune donne del villaggio, un tempo amiche di mia madre, cercavano di risparmiare per noi, quando possibile. Con avidità consumavo la mia porzione, sempre un po’ più piccola rispetto alla loro, poi prendevo ciò che era rimasto e lo mettevo da parte per quando, a tarda notte, mio padre avrebbe fatto ritorno dai campi.
Dopo cena uscivamo sempre fuori, sotto le stelle. Mia nonna diceva che nostra madre adesso era una di quelle stelle, che brillava e vegliava su di noi. Osservavamo attenti mentre la nonna ci spiegava le storie di eroi e nemici, bestie feroci e dame, dei e mortali, che si celavano dietro ognuno di quei punti luminosi, che si univano formando costellazioni di ogni forma, e illuminavano il buio altrimenti grottesco della notte. Iniziai a pensare che, così, forse un giorno avremmo imparato a convivere con il dolore, con la sua assenza, con il suo ricordo. Saremmo cresciuti, ognuno di noi avrebbe trovato l’amore e avrebbe costruito la propria famiglia, forse avremmo lasciato quel posto per sempre, e saremmo partiti per visitare le terre più ricche e più fertili. Avremmo visto luoghi meravigliosi, paragonabili solo a quelli degli antichi miti, luoghi senza miseria. Iniziai a pensare che forse sarebbe andato tutto bene. Ma quella speranza durò ben poco, spazzata via il giorno in cui tutto finì. La luna splendeva alta nel cielo limpido la sera in cui la nonna mi sussurrò all’orecchio che qualcosa di terribile stava per accadere. Quando le voci agitate fuori dalla nostra casa ci svegliarono di soprassalto, I miei fratelli corsero all’esterno allarmati, mentre io aiutai mia nonna ad orientarsi. Misi un piede sulla soglia e vidi mio padre arrancare, sostenuto debolmente da due braccianti, suoi compagni. Il suo cuore aveva ceduto. Troppa fatica, dissero. Non c’era nessuno nel villaggio che potesse fare qualcosa per lui, nemmeno mia nonna, che aveva lentamente iniziato a dimenticare non solo la medicina, ma anche la forma delle cose, ormai solo uniforme oscurità per lei. Cadde giù come un albero gracile sotto un soffio di vento, affondò nella debolezza andando lentamente in pezzi come una casa in rovine sotto le intemperie del tempo. Fu l’ultimo tassello di me che sprofondò nel buio, dentro una cassa da morto.
La debolezza che accompagnava ogni movimento di mia nonna mi riempiva il cuore di sconforto e terrore. Il filo che ci legava all’unica persona che ci fosse rimasta al mondo era fragile e pronto a spezzarsi. La sua salute peggiorava con l’aumentare della siccità. Era come se la sofferenza della terra si riflettesse sul suo corpo tormentandolo e indebolendolo ogni giorno di più, prosciugandole il volto, scolorendole le guance, togliendole il fiato. Il giorno in cui mio padre morì seppi con certezza che il mio destino era stato cambiato per sempre. Poco tempo dopo, la nonna mi prese per le spalle, mi guardò con gli occhi che brillavano da un misto di colpevolezza e rassegnazione. “Mi dispiace”, disse, mentre le lacrime le scorrevano lungo il viso rugoso come corteccia. ‘Non c’è altra scelta’. Strinsi a me i miei fratelli, che non volevano lasciarmi. Lei mi baciò sulla fronte, mi strinse le mani fra le sue, poi se le portò al volto e baciò anche quelle. ‘Continua sempre a camminare’, sussurrò, prima di affidarmi al mio sposo, colui che avrebbe da quel giorno mantenuto la famiglia. Lui era vecchio. Ben vestito, per quanto il denaro gli permettesse. Il naso tozzo e storto gli oscurava il volto. Gli occhi erano piccoli e giallognoli. Non so di che colore fossero, non li ho mai guardati davvero. Non ho mai saputo cosa pensasse o cosa provasse per me. Sapevo solo che il suo non era amore. Ma questo adesso non ha importanza. Eccomi qui, ora. Passo dopo passo, sono sempre più vicino. Le tempie pulsano, il caldo è soffocante. La lunga tunica trascina su di se gialle strisce di sabbia che brillano al sole come piccoli diamanti. Mi ha ordinato di prendere l’acqua. Manca ancora poco, solo qualche passo. L’ultimo pozzo d’acqua rimasto è proprio laggiù. Stringo la corda con forza fra le dita e tiro su il secchio di ferro coperto di ruggine, aspettando impaziente di assaporare l’acqua fresca e dolce sulle mie labbra secche. Piano piano lo tirò su, e già sul mio volto si dipinge un lieve, esausto sorriso. Vuoto.
Sgrano gli occhi. Sento il petto che si schiaccia sotto una fitta indicibile. Le gambe cedono. Le mani affondano nella sabbia secca e incandescente ma non sento dolore. Non sento il vento che sferza sul
mio volto come una frusta, non sento le lacrime scendermi lungo le guance. Ecco solo un altro pozzo prosciugato quanto me, svuotato di tutto, seccato dal sole, che esiste per nulla. Solo un buco vuoto nella sabbia. Vorrei solo essere da un’altra parte. Non qui, in questo deserto sconfinato, non distrutta dal sole, dalla sete, dalla stanchezza. Vorrei tornare sotto le fronde leggere dell’albero sulle acque dolci di quella pozza tranquilla, socchiudere gli occhi stanchi, dimenticare il dolore e la speranza bugiarda che ormai mi abbandona. Vorrei che le braccia calorose della mamma mi stringessero ancora, vorrei sentire la sua voce che canta per me e scivolare nel sonno sognando di un tempo senza tristezza e senza fame. Cullata dal vento del tempo che passa senza farsi notare e non sferzata da questa tormenta di sabbia incessante e violenta. Se solo il mondo mi conoscesse. Una ragazza come mille altre, una creatura insignificante in un villaggio africano senza nome, una fra milioni di piccole spose date in pasto alla crudeltà del mondo, alla durezza della vita, all’asprezza del deserto dove l’aria si fa irrespirabile. Ma il mio nome è solo uno dei tanti che non saprete mai. Una voce dispersa nel vento. Un flebile e ultimo respiro. Un’ombra di passaggio nella luce di un mondo incandescente di splendore, che passa inosservata, che cade nell’oscurità di un pozzo senza fondo. Io andrò avanti, continuerò a camminare. Un altro giorno e un altro ancora, avanzando da sola, nella sabbia, nella luce e nel buio, portando con me nient’altro che un nome che non cambierà la vita di nessuno e che nessuno conoscerà. Soltanto un nome.