L'angolo dello scrittore

Somalia “mea culpa” italiano

Nel 1960 finì la nostra amministrazione (fallimentare) che doveva educare i somali

 Amani – 12 Gennaio 2011 – di Diego Marani

 

Se esiste oggi in Africa un Paese simbolo dell’anarchia e del fallimento dello stato nazionale, questo è la Somalia. Dal 1991 è devastata da una guerra civile che pare senza via di uscita; nessuno è finora riuscito a portare ordine e sicurezza: né marines americani e paracadutisti italiani nella prima metà degli anni Novanta, né i soldati etiopi nella seconda metà degli anni Duemila. In Somalia la guerra per bande continua. Ogni giorno. Lo stillicidio dei civili e l’esodo dei profughi (almeno 120 mila solo nel 2009) ci ricordano che sono sempre i molti deboli a pagare per la guerra dei pochi armati.

Governo e amministrazione centrale sembrano impotenti. Le logiche di potere sul terreno sono totalmente diverse da quelle a cui siamo abituati in Europa e più in generale in Occidente.

Eppure la Somali è stata preparata all’indipendenza per dieci anni, con un esperimento diplomatico e istituzionale che ha ben pochi confronti in Africa. È stata l’Italia a creare lo stato somalo, ma oggi l’Italia preferisce dimenticarlo. Mentre sui giornali sono iniziati i dibattiti sulle celebrazioni dei 150 anni dell’unità d’Italia, quasi nessuno ricorda i 50 anni della Somalia.

Nel 1960 l’Italia concesse l’indipendenza alla sua ex colonia, dopo dieci anni di amministrazione fiduciaria: un esperimento voluto dall’Onu che aveva chiesto alla neonata Repubblica italiana di cercare di far dimenticare all’Africa (e al mondo), l’invasione dell’Etiopia e l’impero coloniale fascista.

I risultati di quell’esperimento, che nel 1960 i diplomatici descrivevano come positivi, se non entusiasmanti, si sono rivelati presto quasi fallimentari. Lo stato somalo è durato trent’anni, mettendoci dentro pure la dittatura di Siad Barre, l’ufficiale uscito da una scuola militare italiana, salito al potere nel 1969, che ha trasformato la Somalia, prima in una repubblica socialista e ben presto in una dittatura. Quello stesso Siad Barre che diventerà grande amico dei socialisti milanesi e di Bettino Craxi.

La Somalia sembra un paradosso di paradossi. Era abitata da somali, non aveva contrapposizioni etniche al suo interno, eppure i conflitti tra clan non sono meno feroci e meno complicati delle cosiddette guerre etniche. Era il frutto di un’unione di territori (l’ex colona britannica e l’ex italiana), non di una divisione. Le cinque punte della stella bianca in campo azzurro della bandiera somala, rappresentavano, oltre ai due territori già citati, anche la Somalia ex francese (Gibuti), l’Ogaden (in Etiopia) e il distretto somalo del Kenya; il pansomalismo dei politici sognava di riunire tutti i somali in un unico stato-nazione.

Oggi la situazione è questa: da quasi vent’anni il Somaliland (l’ex Somalia britannica) è di fatto uno stato autonomo, anche se nessuno ha il coraggio di riconoscerlo; Gibuti rimane francese, anzi sono arrivati perfino gli americani; per l’Ogaden Addis Abeba e Mogadiscio hanno combattuto negli anni Settanta una guerra così dolorosa che etiopi e somali ancora ne portano le ferite; l’Etiopia inoltre, è ciclicamente tentata di portare i propri soldati a Mogadiscio. (E l’Eritrea è oggetto delle sanzioni dell’Onu per il sostegno del regime di Asmara alla guerriglia antigovernativa somala). Il governo di Mogadiscio non governa nemmeno la capitale, figurarsi l’ex Somalia italiana. Le regioni somale del Kenya sono terra di nessuno. Non proprio un esempio riuscito di uno stato-nazionale.

Come se non bastasse, osserviamo la lingua e la religione. Lingua: tutti i somali parlano somalo, ma la Somalia ha dovuto inventarsi un alfabeto e una grammatica per scriverlo (l’introduzione del somalo scritto risale al 1972). Oggi i migliori intellettuali e scrittori della Somalia, spesso scrivono in una delle lingue della diaspora che li accoglie. Religione: tutti i Somali erano musulmani, oggi la guerra civile vede contrapposte fazioni musulmane più o meno integraliste.

Esiste poi, un altro lato della tragedia somala, che spesso non viene ricordato. Quello italiano. Che non terminò nel 1960 con l’indipendenza, ma che continuò nei decenni successivi; spesso in forme disastrose. Oggi parlare di traffico di armi, munizioni, rifiuti tossici dall’Italia verso la Somalia, tangenti tra Roma, Milano e Mogadiscio, sprechi e scandali della “cooperazione italiana al sottosviluppo”, ormai appartiene alla storia. Ma negli anni Ottanta erano fatti di cronaca che molti si ostinavano a non vedere. E negli anni Novanta, quando Mani Pulite aveva iniziato a far luce sull’Italia che viveva di corruzione e tangenti, due giornalisti coraggiosi, Ilaria Alpi e Miroslav Hrovatin, sono stati uccisi a Mogadiscio prima che potessero rivelare il lato somalo di quel sistema.

Ma sono purtroppo tanti gli italiani uccisi in Somalia: i soldati, capitati nel più colossale e mediatico fallimento delle Nazioni Unite (e degli Usa) in Africa, quell’operazione che dal 1992 al 1994, invece di riportare la speranza ai somali affamati e vittime della guerra civile, fu – come ha scritto Angelo del Boca – una sconfitta dell’intelligenza; i religiosi e i cooperanti, alcuni dei quali hanno dedicato anni e anni ad aiutare i somali. E per questo la loro morte, se possibile, resta ancora più inspiegabile e fa ancora più male. Infine, ci sono anche i somali che vivono in Italia. Anche loro, come la Somalia, quasi sempre dimenticati dagli italiani. Anzi, ci sono i figli – e ormai i nipoti – delle coppie miste somale e italiane, i quali forse meglio di tanti altri potrebbero spiegarci perché la Somalia è una nazione ma non uno stato, e quali sono i suoi legami con l’Italia. Ma troppo pochi ascoltano e leggono questi somali-italiani, anche se di cose ne dicono e ne scrivono; un nome per tutti: Cristina Ali Farah.