State zitti, tutti zitti, Alice Fiorentino_Macerata
Finalista Premio letterario Energheia 2022 – Sezione giovani
Sono così tanti, troppi, tutti concentrati nei loro discorsi, nelle loro effimere conversazioni.
“cosa facciamo a capodanno?”. “ma avete visto Giulia come era vestita?”. “il nero sta bene con tutto ad eccezione del blu scuro!”.
Argomenti comuni a tutti in modo che chiunque possa dare il proprio contributo alla conversazione, per la gente come loro non c’è nulla di meglio di un insulso tema noto a tutti.
E’ ridicolo come io cerchi di appagare il mio tempo con piaceri mediocri uscendone ogni volta sempre più frustrata e delusa.
-la frittata?- domanda il cameriere. –mia, grazie-
Le foglie di prezzemolo toccano le uova, ora l’ omelette è contaminata, non la voglio più.
Osservo con disprezzo l’ insalatona della ragazza di fronte a me, un conato di vomito mi brucia la gola; almeno cinque verdure diverse sono accostate in quella pietanza, tutti quei cibi mischiati assieme mi mandano in tilt il cervello.
Osservo l’acqua danzare sull’ orlo del bicchiere e con un sorso spingo la sostanza acida da dove è venuta. Voglio del pane. No non lo voglio.
Ho la testa china sul cellulare, evito qualsiasi contatto visivo: segnale implicito ma molto potente che non voglia essere disturbata.
Forse dovrei inserirmi nella conversazione, sono ormai venti minuti che sono concentrata su un giochino del cellulare. Potrei dire qualcosa.
meglio di no, troppo rischioso.
-smettila di fissare le persone- la gomitata di Valentina interrompe il mio dibattito interiore.
Devo dire qualcosa. Devo assolutamente. Voglio che si accorgano di me. Non è difficile, ce la posso fare anche senza essermi preparata un copione.
Osservo velocemente la stanza -sapete, sono deliziose le pareti- affermo decisa.
Cala il silenzio al tavolo; sono in imbarazzo, li vedo, non sanno cosa rispondere. Ora tutti staranno pensando che io sia disturbata. La moltitudine mi sovrasta.
Qualche secondo dopo ricominciano a parlare come se non avessi detto nulla.
Ora staranno sparlando di me, anche se non lo dicono io lo so, le voci nella mia testa mi parlano chiaramente, io le sento, mi stanno insultando, so che mi stanno osservando.
Il tremore della mia gamba sta facendo ballare il tavolo, forse le dosi di quetiapina sono troppo basse, forse è l’ aripiprazolo che è insufficiente.
Lesta tiro fuori la boccetta scura con su scritto “xanax” a caratteri cubitali a faccio cadere quindici gocce sulla lingua.
Forse non sono gli altri ad essere tristi con le loro conversazioni, ma io.
si muovono, arrivano.
Sono solo allucinazioni, il dottore dice che non è reale. Basta urlarmi.
-non mangi la frittata?- chiede la ragazza di fronte a me.
Cosa devo rispondere?
Lo sento, sta arrivando.
sono in affanno, non respiro, quella sensazione angosciante che ti pervade il corpo.
Ho paura, ho tanta paura, un grosso peso mi spinge sul petto.
Eccolo di nuovo.
– tutto ok?- domanda preoccupata.
sta tornando.
straziante.
non vedo nulla ma la mia testa è pervasa da sensazioni tremende, un malessere si fa strada dentro di me.
-sì sì, stavo solo pensando a una cosa, vado un attimo alla toilette – rispondo convincente.
Ho paura, molta paura. Le lacrime mi inondano il viso e accucciata all’ angolo del bagno comincio a urlare, le urla di un’ isterica.
Nervosamente comincio a perlustrare la piccola stanza, la frustrazione di non trovare nulla di tagliente è tanta. Lo guardo, lui guarda me, ci conosciamo bene. Ho imparato a vedere in ogni cosa un attrezzo utile ai miei scopi.
Sarai l’arma del mio delitto. Quale onore per un semplice sapone da discount.
Afferro il contenitore svuotato e comincio a morderlo per rompere la plastica, finalmente la confezione cede e con un lato di plastica non levigato dalla rottura comincio a farlo correre sul mio braccio con determinazione.
Tagli freschi sono riaperti e flotti di sangue cominciano a sgorgare come un fiume in piena.Con gli occhi inondati di lacrime continuo prepotentemente a seviziare le mie povere e innocenti braccia.
Una goccia di profondo rosso bagna lo schermo. -Papà ho tanta paura, ti prego vienimi a prendere- digito velocemente sul display del cellulare sporco.
Gocce scarlatte macchinano il pavimento e frettolosamente cerco di ripulire uno dei tanti danni che mi vedono colpevole.
Tampono i miei avanbracci martoriati e dopo circa dieci minuti il sangue rallenta la sua corsa.
Copro le braccia con il cappotto e saluto la comitiva con un sorriso a trentadue denti.
-già te ne vai?- domanda con finto interesse Giulia -eh sì, sono proprio stanca- e imito uno sbadiglio.
-che strana-bisbiglia una voce indistinta.
Strana.
Strana.
Strana?
Il mio orecchio teso ha colto perfettamente l’ affermazione. Potrebbe essere la voce? No, non sono le voci, no no. È tutto vero. L’ ha detto. L’ ho sentito.
I miei occhietti stanchi e arrossati ricominciano a luccicare.
Sfilo il cellullare ancora sporco dalla tasca e a passo veloce svolto in un vicolo buio.
Ignoro le continue chiamate di mio padre e di mia madre.
È stretto e umido, i panni stesi mi guardano dall’ alto, chissà cosa penseranno loro. Saranno forse più clementi con me?
“dove sei amore? stiamo arrivando! Ti voglio bene, mamma.”
“Luce rispondi alle chiamate!!! Ke succede? Nn rispondi neanche alle chiamate della mamma ”
“LUCE.”
Non ho interesse a rispondere a mio padre.
Mi rendo conto che il mio respiro si sta facendo affannoso, il cuore batte forti martellate quasi volesse uscire.
Se ne vuole forse andare? Ce ne vogliamo forse andare?
Vagabondo senza meta avvolta nel buio della notte, le stradine si fanno sempre più strette e tortuose, il vento mi accarezza dolcemente i capelli, le mie morbide ciocche chiare.
Mi sono smoccolata il vestito.
Una figura losca nella penombra cattura il mio sguardo.
Un uomo accovacciato regge la bottiglia di vino con una mano mentre con l’altra tenta di risollevarsi in piedi invano.
Un’angoscia insolita mi pervade il corpo, un misto di compassione, sono solo le nove, mannaggia.
Guardandolo meglio noto un volto particolarmente giovane, la sua precoce età mi rattrista ancora di più.
Finalmente riesce a sollevarsi da terra e con un’ andatura traballante si fa strada verso di me.
Cosa vuole da me?
Lasciami stare.
Mi accovaccio a terra impaurita portando le ginocchia al petto.
Chiudo gli occhi.
Blurp.
Un conato di vomito inonda i miei anfibi e un sussurrato “scusami” arriva alle mie orecchie.
Inorridita e schifata dal mal odore estraggo un pacchetto di fazzoletti dalla borsa di tela e comincio a pulire minuziosamente.
Il ragazzo sembra stare meglio e si accascia a me.
Mi guarda ultimare il mio lavoro, sento i suoi occhi su di me.
-come ti chiami?- chiede curioso.
Silenzio.
Alzo lo sguardo ricambiando il suo, che occhi stanchi e arrossati, un azzurro sbiadito.
Riprendo la mia vissuta borsetta e prendo il tabacco, morbido e umido.
Ne prelevo una piccola quantità e la distribuisco sulla cartina, la giro un po’ tra pollice e indice e inserisco il filtro.
Lecco la cartina, le sue pupille si muovo verso le mia lingua che con un movimento lesto inumidisce la carta.
Giro un po’ l’accendino tra le mani.
L’ accendo o non l’ accendo? Non dovrei.
-accendila- il giovane parla, sembra capire il mio dilemma.
Volendo posso offrirla però volendo no, volendo posso spaccarla, volendo la mischierò.
Il fuoco brucerà, io succhierò da lei quasi tutto.
E’ lei a darmi un’ identità.
Il rumore della combustione riempie quel curioso silenzio, nessuno ha intenzione di rovinarlo.
Ma è strano che proprio adesso io mi senta infantile, che sputo nebbia.
Giocattoli, giocattoli, giocattoli…
La sigaretta vuole un posto tra i miei giocattoli.
Giocattoli, giocattoli…
Quanto tempo ho trascorso tra i giocattoli.
Chi cresce non apprezza più i giocattoli.
Diventano immondizia.
Osservo la mia vita di merda riflessa nel vomito di una pozza.
Volgo lo sguardo solcato dalle occhiaie al mio vicino ormai più lucido -quanti anni hai?- domando stanca, un – ventidue -esce rauco dalle sue labbra -e ho ventitre motivi per bere- aggiunge sempre con un filo di voce.
Mi ruba una risatina spenta.
Si raccoglie i lunghi capelli castani dietro le orecchie e gentilmente mi sfila la sigaretta dalle dita portandola alle labbra.
Un tiro, due, tre? No, me l’allunga.
Dopo un bacio, le do una schicchera e la butto a terra ma un cumolo di cenere ancora ardente mi cade sulle nocche.
Sento la pelle lacerarsi ma non mi divincolo, la lascio spegnersi lentamente.
Quel dolore mi accende, fa sentire vivo quel corpo che a volte non sento mio, quel corpo distante che guardo muoversi da spettatrice dentro la mia bolla dove tutto sembra ovattato.
Finalmente lo sto vivendo, un piacevole dolore che rende vivo quell’ automa, esisto.
Luce sei normale.
osservo la mia bollicina, la sfioro, la accarezzo.
-Mi chiamo Arturo- conclude alzandosi sbattendo le mani sui jeans luridi -buonanotte-
E siamo rimaste ancora io e me stessa.
Raccolgo le mie cose e con passo stanco mi incammino verso casa, i pensieri volteggiano intorno all’ immagine di questo Arturo in un vortice sempre più ossessivo, nella testa rimbomba la sua voce a ripetizione come un disco rotto, ogni suono sembra piano piano distorcersi fino a dimenticare il suo vero accento.
Come un volto che cerchi di visualizzare nella mente dopo tempo ma il cervello sembra avere dubbi su qualche dettaglio assumendo così una fisionomia approssimata, quasi distorta, così il suono di quelle poche parole che avevo ripetuto così tante volte diventava sempre più deformato.
I giri della chiave risuonano nella toppa tre volte e lo specchio nell’atrio riflette una me sfatta, le maniche del cappotto macchiate di sangue, il vestito stropicciato e le scarpe intrise di vomito risaltano nella minuta figura ma in tutto quel caos i miei occhi sono fissi nella piega che la pancia crea sul vestito.
La osservo in modo ossessivo, cerco di trattenere il fiato ritirando un ventre che impreca, un corpo trascinato al limite mi chiede compassione ma io sono un giudice severo.
-Luce, grazie a dio. Dove sei stata?- corre la mamma al suono dei miei anfibi sul marmo.
La osservo con la vergogna negli occhi ma lei mi conosce, con voce dolce mi abbraccia senza timore dello schifo che comunica il mio corpo.
-andiamo in bagno a pulirci, prendo gli steristrip?- mi domanda per evitarmi la vergogna di mostrarle quelle braccia.
-penso di sì- mento, il “penso” non era necessario.
Seduta sul water mi aiuta a pulire il sangue secco e osservando i tagli puliti ascolto il suo respiro farsi piano piano sempre più strozzato – Luce non puoi continuare così, vuoi ritornare in ospedale?- chiede cercando di usare un tono deciso.
A quelle parole gli occhi cominciano a sguazzare in un fiume di lacrime e un vorticare di pensieri mi stringe attorno alla gola fino a togliermi il respiro.
-se vai più giù forse non torni più- continua quando ormai sono con la testa altrove.
Un insieme di emozioni indistinte bollono dentro di me, preda di un caos emotivo, un turbamento pronto ad esplodere con un’ enorme potenza con quella forza distruttiva e disregolata fuori dal mio controllo.
sono triste? Arrabbiata? spaventata?
-non puoi fallire nuovamente Luce- ripeto dissociata –non puoi fallire- urlo.
– Parlami, dimmi qualcosa- mi supplica mia madre.
-stai zitta- esce fuori come un ruggito e un pensiero malato sembra uscire prepotentemente dalla penombra.
“Le medicine”, come una bestia affamata comincio a guardarmi incontro nervosamente “dove sono?”.
La mamma ha iniziato a nasconderle dopo l’ultimo incidente ma il flacone di ansiolitici nella borsa cattura la mia attenzione.
In un baleno le agguanto e corro verso la porta trascinandomi la donna in preda alla disperazione.
-Dario aiutami, chiama il dottore- urla tirandomi il braccio.
I passi frettolosi di mio padre risuonano e mi ritrovo braccata al muro.
-lasciatemi, non faccio nulla- sbiascico con la bocca impastata dal pianto e dopo alcuni minuti allentano la presa titubanti.
Non esito un secondo e comincio a correre, più velocemente che riesco.
Con solo una boccetta nella mano le strade deserte e silenziose sono rotte dal mio fiatone, le lacrime corrono con me nel vento, mi esplode il petto ma non voglio fermarmi, non posso fallire neanche in questo, questa vita non ha più niente da darmi.
Quando ormai dei miei genitori è rimasto solo l’eco di una voce lontana mi accascio dietro un triste palazzone.
Aiuto, l’ho fatto di nuovo e la cosa peggiore è che non c’è nessun altro da biasimare che me.
Con la vista appannata tiro fuori il flacone ma il contagocce incrina quel piano assai lontano dall’essere perfetto.
Le gocce vengono scandite ritmicamente dalla piccola apertura rendendo l’operazione tremendamente lenta e dolorosa, ho sempre immaginato una morte più dignitosa e invece siamo tutte e due patetiche.
Progettavo spesso un’uscita di scena eclatante, tutto studiato meticolosamente.
Cosa aspetta a venirmi a prendere?
L’orario, il giorno, il luogo, in una c’era una corda, in una la lametta, in alcune una macchina.
Le pupille corrono a nascondersi in un piccolo buchino infastiditi dalla forte luce dei neon.
L’ago cannula in vena pompa velocemente la soluzione nella sacca della flebo, ancor prima di aprire gli occhi avevo già capito.
Le delusione in volto è lampante, sono di nuovo qui.
-ciao Luce, ti sei affezionata che ci vieni a trovare così spesso?- cerca di essere leggera la psichiatra -andiamo di là che mi racconti un po’-
Rintronata mi faccio leva sul lettino e i primi passi sono barcollanti e indecisi, la seguo mansueta trascinandomi il palo della sacca come un fardello.
-cosa hai combinato ieri sera? La mamma era molto spaventata, sai?- prova ad incitarmi.
Non sono mai stata una paziente difficile. Credo.
Ho sempre fatto tutto quello che mi si chiedeva di fare, ho sempre cercato di raccontare e di raccontarmi.
Entrata in cura vedevo nella mia dottoressa una speranza, la famosa luce in fondo al tunnel, lei mi avrebbe salvata.
Ci credevo tanto, ero come un piccolo vaso prezioso in frantumi nelle mani del più bravo dei restauratori ma incollando pezzi ne venivano giù altri.
Cercavano di mettere tappi qua e là tra i buchi ma non vedevano l’enorme lacuna, stavo affondando.
-non so più cosa fare, ho paura di aprire gli occhi la mattina perché non voglio iniziare a soffrire. Mi sto trascinando nei giorni come un morto, sono esausta. Penso che sarebbe meglio non esserci- le ripeto per l’ennesima volta.
La matita dell’ufficio si spezza tra le dita e i miei occhi salgono lentamente colpevoli verso la donna.
-dimmi di più Luce- insiste –non ho voglia di parlarne ora- chiudo secca.
-stai aggiornando il diario?-
-sì-
-come va l’alimentazione?- lo sguardo corre su ogni centimetro della parete tranne che sulla figura della dottoressa.
Conosco ogni dettaglio di quei quadri orrendi nel suo studio che le fanno i pazienti ma sono incerta sul colore dei suoi occhi.
-normale-
– quante abbuffate ci sono state questa settimana?- domanda sbattendo l’unghia smaltata sulla superficie di plastica della scrivania per richiamare la mia attenzione su di lei.
-tutti i giorni, quando alle tre mia mamma lascia casa iniziano i pensieri intrusivi- così li chiamiamo –è come fosse una sveglia. Non riesco a pensare ad altro, devo mangiare qualsiasi cosa. Non voglio mangiare ma devo, non riesco a fare altro, ho solo quello nella testa, non ho scelta-
-cosa hai mangiato?-
-uno sfilatino di pane, un ciambellone, un pacco di biscotti, della pasta cruda e poi ho vomitato due o tre volte- confesso piena di sensi di colpa per non aver resistito.
-la pasta cruda?-
-volevo mandare giù qualsiasi cosa, era una smania irrefrenabile, non riuscivo ad aspettare che si cocesse- alcune volte non trovando niente da mangiare mi capita di mangiare anche carne e rinnegare i miei ideali in preda all’isteria ritrovandomi così con i sensi di colpa sia per essermi abbuffata sia per aver mangiato un animale.
-va bene. Allora Luce che ne dici se stai qualche giorno qui in ospedale? Così puoi stare un po’ tranquilla perché vedo che hai accumulato molto malessere- mi spiega ponendola come una domanda.
-io non ci torno là, sono tutti matti. lo so come funziona. Mi pisciavo nelle mutande senza accorgermene per colpa di tutte le flebo di tavor che mi facevate che mi riducevano in uno stato di trance. L’infermiere grasso mi toglie il cellullare quando non voglio mangiare. Non mi lasciano neanche due minuti in bagno, c’è sempre una persona con me, mi devo fare la doccia con una infermiera che guarda un corpo che io non voglio vedere neanche nella bara- vomito pensieri sconnessi come un flusso di coscienza cercando di sembrare il più autoritaria possibile.
-lo facciamo per il tuo bene- mi dice come mi dicono sempre tutti.
-ho diciotto anni, non decidono più i miei genitori. Io non mi ricovero punto- la congedo sfilando l’ago e sbattendo la porta.
-andiamo- ordino a mamma e papà seduti nel corridoio dirigendomi verso l’uscita.
-amore è pronto a tavola- chiamano dalla cucina e la fiammella di terrore emana la sua prima piccola luce -non ho molta fame mamma-
– ci eravamo già messi d’accordo che i pasti non si saltano Luce, non ricominciamo- mi ricorda con voce materna e la fiamma comincia ad espandersi dentro di me fino a guidare con la sua ombra malata il mio pensiero -ho mal di pancia, ho la nausea- insisto –mangio qualcosa più tardi- non è vero, non lo farò mai.
-comunque stasera esco- annuncio con largo preavviso per prevenire ogni possibile reazione.
-con chi?-
-con il gruppo-
-quale gruppo?-
-mamma ho lo stesso gruppo da dieci anni- tuono esausta.
Lei mi conosce e io conosco lei. Sa del 26 dicembre, sa che non ero con Marco a passeggiare ma da sola sotto la pioggia ad aspettare lo spaccino come in una scena pietosa.
Sa che Luigi non era l’unico ma c’erano Matteo, Umberto, Gianmarco, Ettore, Lucia e molti altri. No forse di Lucia non sa.
Sa della mia promiscuità.
Mi concedo ad ogni persona mi dedichi anche solo una minima attenzione, la maggior parte di quelle persone neanche mi interessano ma voglio sentirmi apprezzata.
Molto probabilmente non piaccio neanche a queste ragazzi, o ragazze, vogliono solo divertirsi ma mi va bene così.
Mi piace l’idea di piacere, ne ho bisogno.
Mi sento in dovere di aprire le gambe, loro sono gentili e io devo ripagarli con quello che vogliono. È uno scambio equo, ognuno ottiene ciò che vuole.
Peccato che poi rimango sola, usata e svuotata.
E ricomincio da capo: mi dicono che sono bella, entrano e poi escono. Così per tante volte per riprovare ogni volta quel briciolo di “amore”, è un circolo vizioso dove ogni volta ne esco sempre peggio.
Come il ragazzo pazzo che per toccarmi le tette mi ha promesso le vette per abbandonarmi alle sette di mattina su una panchina.
Ho sempre pensato che al mondo fossimo tutti diversi, ognuno con i propri bisogni, ognuno con il proprio carattere, ognuno con le proprie idee ma mi sbagliavo.
Siamo tutti uguali, tutti abbiamo bisogno di essere amati.
Ma questa volta non ho detto una bugia, esco veramente con il gruppo.
-a che ora torni?- chiede sempre dall’ altra stanza la mamma, nessuna delle due vuole guardarsi, abbiamo paura di vedere troppo. Così possiamo far finta di non sapere.
-verso mezzanotte suppongo, ti aggiorno su whatsapp-
-Luce sei sicura di voler uscire?- domanda questa volta nella mia stessa stanza –ieri è stata una serata pesante e non ti nego che sono un po’ preoccupata-
-mamma sto bene, per qualsiasi problema ti chiamo. Ti ho preso dieci euro dal portafoglio- le urlo ormai più fuori che dentro casa.
-aspetta, prendi due pasticche di Xanax per sicurezza-
-ho il flacone-
-no dammelo, non ci fidiamo a lasciartelo io e papà- tende la mano verso di me -due pasticche bastano se hai una crisi-
Le lascio la boccetta e scappo nella notte.
Sgattaiolo silenziosamente tra le persone che si fanno sempre più numerose avvicinandomi al centro, giunta al pub comincio a guardarmi intorno alla ricerca di qualche volto familiare e i ricci voluminosi di Valentina mi rassicurano in una folla di volti quasi anonimi.
Tra spallate e piedi pestati sguscio tra corpi ammassati e raggiungo quel viso rassicurante, con un sorriso tirato faccio la mia entrata nella comitiva.
-ciao vale- mi focalizzo su di lei.
-ciccia, stiamo andando a prendere da bere al bar di Fabio, prendi qualcosa?-
-non penso ma vi accompagno volentieri- ormai conosco le calorie di ogni singolo alimento o bevanda, non ricordo come tutto è iniziato e forse neanche voglio ricordarlo, e l’alcol ne ha troppe, posso farne a meno.
Ho imparato a fare a meno di molte cose.
Il piede scalcia su i sampietrini e gli occhi passano distrattamente su infinite facce.
Quanto ci mettono a prendere due drink? Che coglioni.
Mi sento sempre sotto un riflettore su un palco vuoto, la platea mi osserva nella penombra e attende.
Stropiccio il vestito per cercare di coprire le cosce, la spallina del vestito è forse caduta? Tiro fuori il cellulare per controllare i capelli, il trucco, i denti.
Se è tutto a posto perché mi sento comunque fuori luogo, sporca, inadatta?
-assaggia luce, è buonissimo. Sa di cocco. Ti piacerà sicuramente- mi allunga il bicchiere la mia amica.
Eccoli finalmente.
Appoggio le labbra alla cannuccia senza tirare su neanche una goccia.
-mh buono-
-andiamo a sederci- fa un cenno con il braccio Marco.
Stringo la mano al dito di Valentina e mi lascio guidare tra la gente –siediti c’è posto- batte Marco con la mano sullo scalino dov’è seduto.
-sto bene anche in piedi grazie- non è vero, ho le gambe distrutte ma devo continuare a bruciare calorie.
-dai su, siediti con noi. Che stai a fare in piedi!- insiste.
Cerca di essere normale Luce per favore.
Mi accomodo accanto a lui sulla punta dello scalino perché il mostro che ho dentro ha distorto l’essenza di ogni singola cosa tirando fuori un’essenza fittizia in funzione della mia malattia.
Solo la punta del sedere è appoggiata allo scalino, la maggior parte del peso sulle gambe mi consente di continuare a bruciare calorie.
Vedere le mie enormi cosce aderire sulla superficie e dilatarsi mi terrorizza, rimanere all’estremità del posto a sedere mi consente di camuffarle. Così vuole la vocina nella testa.
Ci sono tante persone, ridono e scherzano, chissà se c’è qualcuno come me.
I miei amici chiacchierano e io sono lì ma non sono con loro, quello sguardo.
Sempre stanchi, chissà cosa vede lui nel mio.
Mi sorride con gli occhi e la voce del suo amico sembra diventare un lontano sottofondo per lui, senza lasciarmi un secondo con le iridi con la mano lo zittisce e si avvicina lasciandolo solo e perplesso.
-ciao- si inserisce nella nostra cerchia.
-chi è Luce?- mi bisbiglia Maria vicino all’orecchio –è uno gnocco-
Questa sera la maglia non è stropicciata, i jeans non sono impolverati, le converse non hanno una macchia e i capelli sono sistemati ma gli occhi non è riuscito a ripulirli.
-Arturo- sorrido eccitata di averlo rivisto.
-come stai?-
-bene grazie- è incredibile come il mio umore dipenda dal più insignificante degli eventi.
-comunque ciao, sono Maria, un’amica di Luce-
-ah Luce-
Il telefono mi vibra nella mano e il messaggio di mamma illumina il display “come va amore? Ti diverti?”
-vieni, siediti pure- lo invita Maria e il ragazzo si accomoda accanto a lei.
Perché lei ci riesce e io no? Perché non posso essere la prima scelta di nessuno? Non è giusto.
Cosa mi aspettavo? L’ho visto solo una sera, in quelle condizioni poi. Mi ha già etichettato come “pazza” sarà solo venuto a salutarmi per cortesia.
Falla finita Luce, sei insignificante.
-vado al distributore a prendere le sigarette- annuncio stizzita.
Perché te la prendi Luce? Non te lo meriti neanche quel ragazzo.
Non intrometterti, è meglio Lei.
-ti accompagno- si accinge a seguirmi.
-non serve-
-devo comprarle anche io-
-te le compro io-
-voglio fare due passi-
Allungo il passo per lasciarlo indietro. Deve starmi lontano.
Cosa ha fatto per riceverei questo trattamento? In fondo niente ma non so comportarmi altrimenti.
Perché non ho rapporti sani con le persone?
-son contenta di averti rivista, sai?-
-grazie-
Il silenzio totale fino al tabaccaio.
-so di non aver fatto una bella impressione ieri- Arturo rompe la quiete.
-neanche io-
-a me l’hai fatta invece- continua -si sta proprio bene questa sera, vuoi vedere un posto che mi piace tanto?- cerca di convincermi.
-devo tornare dagli altri-
-solo dieci minuti-
-sono stanca-
-va bene ho capito, stammi bene Luce. Buona vita-
No per favore. Insisti. Un’ultima volta. Ti dirò di sì a tutto. Ti prego.
Lo osservo allontanarsi e gli occhi cominciano a luccicare.
Se ne vanno sempre tutti.
Non dire stronzate Luce. Sei tu che te ne vai sempre.
Una lacrima corre velocemente lungo la mia guancia e comincio a trascinarmi in un qualunque marciapiede.
Le macchine corrono, le osservo incuriosita.
Mi chiamano.
Ne passa una grigio topo, una nera metallico, una bianca sporca di fango.
Le lacrime scorrono sempre più copiosamente, il pianto rotto fa un rumore assordante, le urla della sofferenza sono strazianti.
-ciao amore, come sta andando la serata?- mi risponde al telefono mamma.
Escono parole incomprensibili, storpiante dalla bocca impastata dal pianto.
-Luce, amore mio. Dove sei? Arrivo subito-
-Luce-
È lei. Una macchina rossa piena di ammaccature, vecchia e sporca ha svoltato la curva e corre lungo la strada.
Sarà lei.
Lascio cadere il telefono sul marciapiede e mi avvicino lentamente al ciglio della strada.
Un passo dietro l’altro e la macchina è sempre più vicina.
Saranno le mie ultime lacrime, finalmente.
Voglio morire. Voglio morire.
Corro al centro della corsia.
L’uomo in una frazione di secondo mi trova davanti alla sua via e la sua espressione sconvolta è terrificante.
Scusami Valentina, perdonami papà, ti amo mamma. Riuscite a vedere il buio?
Non si torna indietro.
Oh no, non si torna indietro.
Voglio vivere, voglio vivere. Dentro di me ho sempre voluto vivere.
Mi sveglio, apro gli occhi e vedo un ospedale.
sono tutti lì.
-si è svegliata- esulta incredulo papà.
-come stai?- domanda mamma.
-si ricomincia da qui. Voglio vivere una vita degna di essere vissuta- confido dolorante –voglio salavarmi.
-un negroni, grazie- ordino al barista.
-vale hai preso il vestito alla fine?- mi rivolgo all’amica- ti sta da dio-
-no, mi piace molto ma mi segna i fianchi- confida con una punta di imbarazzo.
-il tuo corpo è un involucro di protezione di tutto ciò che contieni. Abbine cura e rispetto, presentalo al meglio e più forte che puoi, ma non lasciare che diventi quello che sei. Quello che sei è dentro- la sgrido.
-quanto ti voglio bene. Mi dispiace di non esserci stata abbastanza- ammette.
-non è colpa tua- la abbraccio e una felice lacrima solca la stessa guancia che ha visto solo lacrime di dolore.
-guarda, non è il tuo amico quello là?- mi indica un ragazzo.
Arturo.
Corro verso di lui -ciao- esclamo ancora lontana
-Luce, quanto tempo. Come stai?- mi guarda sorpreso.
-bene, non sto così bene da anni. La più bella vita che potessi desiderare. Tu?- questa volta sono sincera.
-son contento. Io vado avanti- mi risponde seguendo con un sorriso per alleggerire la confidenza.
-ti va di farmi vedere quel posto che ti piaceva tanto?- chiedo speranzosa- così mi racconti un po’-
Gli occhi sono sempre stanchi ma in quel momento mi sembra di scorgere una sfumatura di un azzurro più acceso.
-certo-