I racconti del Premio letterario Energheia

Stelle, Stefano Vallini_Siena

Racconto vincitore Premio letterario Enerrgheia 2024 – Sezione adulti

Nel mio cielo ci sono tremilacinquecentoundici stelle. In un’ora riesco comodamente a contarle tutte.

Prima ce n’erano cinquemilanovecentoventitre, ma, l’anno scorso, sono arrivati gli imbianchini. Per non sporcare hanno steso un foglio di nylon a coprire il mio letto, e pure me. Attraverso il velo traslucido ho seguito incantata quei candidi acrobati, angeli in equilibrio sulle scale che volavano a coprire definitivamente i granuli di intonaco più piccoli facendo sparire le stelle meno luminose dal mio personale firmamento.

Alla fine, la grande Sirio è rimasta e anche la graziosa Venere e Giove lì a destra. Gli operai hanno lasciato anche quel piccolo cratere al centro del soffitto: il buco nero che un giorno arriverà a risucchiare tutto, anche me, ne sono certa.

Non ho battezzato tutte le mie stelle, la maggior parte sono ancora solo un numero e non credo che farò in tempo a trovare un nome per tutte.

Il mio cielo la notte scompare, le stelle si spengono e allora io mi faccio portare dalle comete che i fari delle auto, attraverso le feritoie degli avvolgibili, fanno saettare sul soffitto fin oltre il mio orizzonte.

Sono così, supina, da quando dopo un’altra giornata di compiti e interrogazioni mi sono stesa a terra tra le macchine nel parcheggio del supermarket, accanto al carrello stracolmo con la spesa del venerdì, presa da una stanchezza indicibile.

Il primo volto che ho visto da questa posizione è stato quello della giovane guardia giurata che ha portato nel mio ristretto orizzonte i suoi grandi occhi terrorizzati e il suo cappello blu con i fregi rossi. Avrei voluto dirgli, non ti preoccupare, aspetta solo un momento, un minuto e mi rialzo, è solo un po’ di stanchezza, un giramento di testa. Ma la voce non usciva. Da allora, al balcone del mio sguardo si sono affacciati medici, infermieri, mia madre, il mio bambino, qualche amica, e per un po’ anche Filippo, ma ormai sono anni che non lo vedo più. Non gliene faccio una colpa, ha sempre preferito la fantasia dei libri alle fatiche della realtà e adesso chissà in quale angolo della sua mente sarà scappato. Capisco che per lui il matrimonio e un figlio sono stati delle esperienze che sentiva di dover provare perché si rendeva conto che leggerne in qualche saggio non sarebbe stato la stessa cosa, sono stati utili argomenti da studiare e sviscerare nei suoi racconti, poi è passato ad altro. Un po’ lo invidio, come invidio tutti quelli che possono permettersi di scappare.

Ogni tanto mi perdo qualcosa, il tempo è diverso se vissuto orizzontalmente.

Spesso, mio fratello mi tocca i capelli e rimane in silenzio. Non sa cosa dire e ha la buona abitudine, in questi casi, di non parlare. Anche lui avrà i suoi problemi.

I primi tempi pensavo che una mattina mi sarei alzata, bella e riposata, pronta per ripartire con la mia consueta vita frenetica. Immaginavo di affacciarmi dal balcone su via Alicata per sentire il fresco della notte e che mi sarebbe sembrato finalmente bello, anche se il panorama mi ha sempre fatto schifo. Adesso sono sicura che questa immaginata spossatezza non finirà mai, era troppa la stanchezza che avevo accumulato e tutto il tempo non basterà a recuperarla. Credo che al balcone, per rivedere i giochi aerei degli storni, non ci arriverò mai.

Da qualche tempo mi hanno attaccato un altro tubo, un ventilatore polmonare che stantuffa a ripetizione. Roba tedesca, indistruttibile, lavora ventiquattro ore al giorno e non dipende da nessuno, svolge il suo lavoro anche quando va via la corrente.

Il mio piccolino si è fatto quasi uomo. Il mio uomo silenzioso. Quando si china per baciarmi immagino le piccole punture della sua barba, so che un giorno lui capirà che questa fatica deve avere una fine.

Oggi è il mio compleanno, sono sicura che il mio Giacomo mi farà un regalo. L’interruttore della macchina pneumatica è lì a destra, l’ho visto quando l’infermiera mi gira sul fianco per lavarmi la schiena.

Eccolo che appare, si china per baciarmi, ma è solo una speranza, non ha nemmeno mai guardato la piccola leva rossa, anche se mi illudo ogni volta. Alza la mano per una carezza e, come al solito, il movimento si ferma a mezz’aria. È già sparito oltre l’angolo buio, mi è parso di sentire un piccolo click, stavolta è venuto a portarmi il regalo più gradito. L’unico.

Quando riapro gli occhi è ancora con me.

Finalmente il mio orizzonte si allargherà a dismisura, non sarà più il cielo stellato di questa stanza e nemmeno quello limitato e meschino della mia lontana vita verticale, uguale a tante altre prospettive. Dall’alto potrò vedere il mondo intero. Vedrò la vita di noi orizzontali, di noi storpi, malnati, dei dementi, dei morti di fame, degli avanzi di galera, dei dimenticati per mare, di chi dorme nei cartoni, delle suore di clausura, dei pazzi furiosi rapati a zero, sedati e legati. Vedrò l’inutile vita dei normali, in equilibrio perfetto sulla media della banalità. Gli orgogliosi normali, consolati dalle nostre vite disgraziate, salvi grazie al nostro inferno terreno, sereni per ignavia, gioiosi per irradiazione televisiva, liberi di odiare, piangere, stuprare e farsi la guerra.

Anche le stelle nascono, ardono e infine muoiono: una supernova, una catastrofe galattica, una pennellata più densa e tutto sparisce.

Invece io rimango qua, ferma, con i tubi che non riesco a vedere e nemmeno a sentire, ma che so entrare nel mio stomaco, nella mia trachea, nella mia vescica. Immobile, a galleggiare su questo mare nero, profondo, i capelli sciolti in fili lunghissimi a seguire il moto delle onde, il fluire delle correnti.

Niente, nemmeno stavolta. Né il figlio demente, né il fratello fannullone. Maledetti. Al mio risveglio c’è ancora questa macchina che pompa aria dentro i miei polmoni, senza sosta. Come un mantice a soffiare ancora qualche alito nella brace, mentre il fabbro martella il tempo nel tempo alzando ancora qualche scintilla, flebile, appena palpitante. Il ferro non è più rosso vulcano, ma bruno e scaglioso, pieno di rughe e decubiti. Solo l’interno, ancora ardente, mantiene una minima memoria dell’energia di un tempo, un’eco riverberata su un battito di ciglia, null’altro. Odio, amore, odio amore e riprende la circolarità del soffio, del carico inspirante e del rilascio espiratorio, questo ripetersi ellittico del tempo, matematicamente scandito, insistentemente ricorsivo sullo stesso punto che sottolinea i limiti, il confine, la frontiera del sopravvivere. Al di là, solo in nostro essere, libero, illimitato, incomprimibile, ma debole, in quanto ancora sostanza, ignobilmente ipocrita per materialità, scopertamente bugiardo per peso e gravità.

Tempo fa Max ha fatto entrare il prete per la benedizione delle case. L’ho sentito chiedere E come sta la cara Noa? Ferma, don Paolo, come vuole che stia. Mio fratello allora si è sentito in dovere di dire La vuole salutare Don Paolo? Una preghiera non può far male, no? ha detto Don Paolo. Poco dopo è apparso nel mio orizzonte, aveva la barba mal rasata e un piccolo taglio vicino al naso, i capelli era almeno una settimana che non li lavava. Credo che mi abbia preso la mano vincendo la repulsione di toccare qualcosa di inanimato e caldo. In realtà, immagino che sia così, che ne so io di cosa prova al tatto la gente quando mi tocca. Comunque, credo l’abbia fatto, poi si è fatto il segno della croce e ha unito le mani. Vuol dire che non mi stava più toccando, meglio per me e per lui. Ha cominciato: Ave Maria piena di grazia…

…adesso e nell’ora della nostra morte, amen.

Come avrei voluto dire quell’amen insieme a lui, l’avrei gridato con tutto il mio cuore o con la mia anima se preferisce Don Paolo. Ma niente, non è uscito niente.

Aspetti un attimo Don Paolo, Max fermalo che gli devo chiedere un consiglio, vorrei sapere una cosa Don Paolo. Questo libero arbitrio che dite abbiamo tutti e quindi anch’io, come dovrei fare per usufruirne? Perché, a quanto mi ricordo del catechismo, sembra che qualcuno ce l’abbia dato questo cazzo di libero arbitrio. Mi dica un po’, ce l’hanno donato e allora è nostro e ne facciamo quello che ci pare oppure l’abbiamo trovato per terra e allora dobbiamo restituirlo al legittimo proprietario quando si farà vivo e intanto che ce l’abbiamo, possiamo solo conservarlo senza consumarlo troppo? Se non è un dono, io penso che chi ce l’aveva prima non l’abbia perso davvero, ma che se ne sia disfatto, pesava troppo, era inutilizzabile per le cose importanti. Infatti, sembra che si possa usare solo per scegliere il colore della macchina, per decidere il tipo di pasta lunga o corta, con il pesto preferisco gli spaghetti e anche con la carbonara e allora che cazzo l’hanno fatta a fare la pasta corta? E poi a me cosa me ne frega della pasta o dell’automobile, mica mangio e nemmeno vado in gita.

Magari questo benedetto libero arbitrio potremmo utilizzarlo per qualcosa di più decisivo, tipo quando morire. Eh, che ne dice Don Paolo? Che poi non è nemmeno tutta questa libertà, mica puoi decidere per il sì o per il no, è sempre sì, per forza. La fine ci sarà ed è bene così, l’alternativa alla morte è una condanna, gli immortali fanno le peggio cose per ingannare il tempo, costruiscono mondi e inventano cose, hanno talmente tanto tempo, un tempo infinito, che hanno inventato anche la morte, ma solo per gli altri, non per loro. Potrebbe sembrare una perfidia, ma io, invece, penso che l’abbiano fatto per bontà. Hanno fatto in modo che l’uomo e tutte le bestie del creato possano avere una via d’uscita, un traguardo passato il quale si possano acquietare e smetterla di correre. Io per questo ho già smesso da un pezzo. Ma se superato il traguardo ti puoi riposare, perché non puoi decidere di farlo prima? Perché se trovi una panchina comoda lungo il percorso non ti puoi sedere per sempre?

Cosa c’è di male a decidere in proprio? Vorrei solo che mi venisse detto: fai ciò che credi meglio, ti lascio libera, puoi disporre del tempo e della vita, la tua vita. Vorrei che risuonasse una voce profonda e potente, quella di un uomo calmo e risoluto, con i muscoli al posto giusto, ma anche dolce nelle carezze, che tanto non posso più sentire, che mi dicesse: la vita che ti ho dato non è un vuoto a rendere, io ci ho messo un po’ del mio, ma all’inizio, tanto tempo fa, ma ora è roba tua è una tua responsabilità, se hai fatto una cazzata non dare la colpa a me. Se pensi di averne abbastanza, fai pure, la libertà che hai, non mi ricordo nemmeno più se era roba mia o di qualcun altro, la tua libertà, dicevo, è vera, ne puoi essere certa, io non posso mentire, la sincerità è una cosa che ho nel sangue, quando dico una cosa si avvera sempre, è la mia maledizione. Pensa a non poter dire niente per scherzo, non potersi mai pentire di una sciocchezza detta senza pensare, la dici ed è così per sempre. Voi se non siete soddisfatti, per contratto, avete il reso, io no, quello che dico o faccio è subito legge divina. Non sai la fregatura.

Don Paolo, Don Paolo, che mi dice? È peccato o no?

Niente, Max ha salutato e il Don è andato via. Speriamo di non ritrovarci la prossima primavera.

La macchina continua a respirare. Un colpo, poi un altro, ogni colpo una stella, sessanta stelle in un giro di cuore. Il tempo non è una costante, non trascorre lineare: prima, quando vivevo orizzontale, era una retta, adesso, ruota, gira, orbita, arriva alla fine e poi ricomincia da quella che fine non era. Sessanta di sessanta ed è passata un’ora. Ascolto questo scorrere di fiume e l’insistito battito ritmare i suoi stessi multipli per accordarsi con i giorni, i mesi, le stagioni, gli anni, la vita tutta, per l’eternità.

Perché contare il tempo è rimandare la morte, perché la principale attività umana è stata e sarà sempre posticipare l’appuntamento. Tutte le scuse sono ammesse, medicina, religione, cabalismo, arte, sport, modellismo, guerra, black jack senza la morte niente di tutto questo esisterebbe. È la morte la verità rivelata al genere umano e che questa verità sia stata comunicata dal dirigente massimo del paradiso terrestre quando ci ha messo alla porta con l’indice puntato verso l’ignoto oppure che si sia scoperto da soli quando, ancora coperti di peli, abbiamo alzato lo sguardo verso le stelle non è importante, perché, comunque, sapere che dobbiamo morire non ci aiuta a comprenderne il significato.

Ormai lo spazio della solitudine si è dilatato. Non ne faccio una colpa a nessuno, so di non essere una compagnia troppo interessante. Troppo loquace un tempo e adesso più muta di un pesce. Agli inizi era forse per questo che gli amici si sedevano qui accanto e parlavano dei loro guai: chi non vorrebbe una platea, per quanto minima, così disponibile all’ascolto. Io vi leggevo anche una sottile soddisfazione, una rivalsa su chi, per anni, li aveva subissati dei propri racconti fatti di niente ai loro occhi e adesso anche ai miei. Come un anticipo in terra del contrappasso nell’eventuale aldilà. Ma è durato poco anche il ruolo dell’ascoltatrice passiva, probabilmente anche il silenzio deve essere sembrato un commento troppo critico.

Adesso quasi mi compiaccio di occupare l’ultimo posto in classifica. L’ultimo posto è sicuro, non è in competizione con nessun’altro. Mi è sempre piaciuta la domanda impossibile: se in una gara superi l’ultimo cosa diventi? L’ho raccontata tante volte a Giacomo e lui non mi ha mai risposto, segno che l’aveva capita al volo. L’ho sempre saputo che Giacomo è straordinario, se la domanda è sbagliata la risposta non esiste. E ora me lo godo proprio quest’ultimo posto, non posso superare nessuno e nessuno mai mi supererà. La gara l’ho lasciata ormai agli altri, ai normodotati, quelli che rispondono “penultimo”.

Spesso Max mi lascia la radio accesa. Qualche volta la musica mi fa compagnia, ma altre volte trasmettono canzoni così vomitevoli che vorrei spengerla. Max basta, spengi! Max!

Qualche volta la radio parla e quelli che ci parlano dentro si sentono in diritto di dire un mare di cazzate. È la libertà. Tempo fa raccontavano di uno svedese, un certo dottor Erson, manco so come cazzo si scrive. Questo dottor Erson aveva fatto un esperimento con dodici persone, sane hanno tenuto a precisare, e con un metodo complicatissimo fatto di telecamere e occhialini speciali, tipo il gioco delle tre carte, faceva vedere a ognuno di questi tizi la propria immagine riflessa a metri di distanza. Da tutto questo ambaradan è riuscito a capire che se uno viene toccato, anche se non vede chi lo tocca, si sente toccato. Bella scoperta. Ma hanno scoperto anche che il cervello ha una reazione anche se vede una mano che tocca il corpo immaginario, insomma se vedi che toccano il culo a una tua foto, anche te ti senti la mano sul di dietro.

Io, caro dottor Erson, mi vedo da fuori da anni, ma se mi toccano il culo non lo sento. Se venivi qua ti avrei detto io che i tuoi esperimenti sono tutte cazzate, anzi non ti avrei detto niente.

Però mi vedo, eccome. Riesco a vedermi dall’esterno, vedo che cosa schifosa sono diventata, una inutile pisciona, una che si caca addosso e quando riempi il pannolone gli altri ti fanno i complimenti, dicono brava hai sbloccato l’intestino. E non solo mi escono fuori sostanze schifose senza controllo, ma anche pensieri della stessa qualità.

Mi escono pensieri degni dell’ultima delle sfigate. Mi sembra di essere diventata una di quelle signorine deluse dall’amore che usano solo parole disperate, la protagonista di un Harmony qualsiasi. Ma io quelle parole non posso nemmeno pronunciarle, le penso e le tengo dentro e a lungo andare ammuffiscono e puzzano, come fiori regalati a una moglie tradita e gettati nel secchio della spazzatura della vita.

Dove cazzo sono andati a finire i miei sogni bagnati, i miei pensieri pornografici di accoppiamenti colorati, promiscui e molteplici. Il mio attuale pattume di pensieri marci si è sostituito alla ricerca del piacere di un tempo, a tutto il mio desiderio di sesso, che è rimasto, appunto, solo un desiderio da pensare.

Penso che alcune notti mi lascino in casa da sola. Adesso che Filippo ha convito Giacomo ad andare in istituto, è giusto che Max si prenda qualche serata libera. Alcune volte rientra tardi che è quasi mattino. Non mi lamento, e come potrei, ho poche pretese, i bisogni me li faccio addosso e perlopiù dormo.

Però adesso, appena riemersa da un altro sogno, sento dei rumori fuori dalla mia stanza, dal corridoio arriva il rumore ovattato di passi prudenti, sembra che qualcuno si stia muovendo piano nella penombra. Guardo i numeri rossi su nel cielo e mi dicono 23 e 14, poi spariscono. È andata via la corrente, chissà quando ritornerà. Solo la luce azzurrina del ventilatore combatte il buio della stanza con le sue batterie teutoniche a lunga durata. Ancora rumori in corridoio. In casa non dovrebbe esserci nessuno, Max rientra sempre tardissimo e non si è ancora fatto vivo. Se c’è qualcuno non è Max, lui appena varcata la soglia dice, Ciao, sono Max, come stai? È chiaro che mio fratello passa troppo tempo con Filippo. Poi accende la luce, chiude la porta con un colpo che una volta mi avrebbe fatto sobbalzare e poco dopo viene nella mia stanza, qualche volta mi fa una carezza. Invece ora le luci sono spente e c’è solo il ventilatore che continua a vivere.

Una scarica di adrenalina. Finalmente!

Gioco con la paura, è come se un po’ di vita mi scorresse nelle vene, sento il caldo del sangue o me lo immagino solamente. Ma non importa. Pensate che mi possa divertire in altro modo, che abbia a disposizione altri passatempi oltre a questo? Un tempo ricercavo la bellezza, la palestra, la corsa, le serate di burraco. Adesso, se anche arrivasse un soffio di felicità non mi darebbe le stesse gioie di un incubo ben congeniato. Il dolore non esiste più per forza di cose, per mancanza di terminazioni nervose, quindi benvenuta sorella paura. Ti amo. Mi fai sentire come tutti gli altri, terrorizzati da qualcosa: il buio, il nero, la povertà, la solitudine, la violenza, la bontà, la gente, gli arabi, la perdita, i furti, gli omicidi, i barconi, i fascisti, i negri, i preti, i barbari. Ora però ti lascio, accanto al mio letto c’è qualcuno in attesa che ha bisogno di tutta la mia attenzione, sento appena il suo respiro, è un respiro che sa di buono, non può essere una minaccia. Non temo nulla, non spero nulla.

L’ombra si china su di me, non è più un ragazzo, ma ha una bella faccia, me ne potrei anche innamorare. Sento un click, la luce azzurra del ventilatore si è spenta, gli stantuffi si sono fermati. Sto aspettando. Mi sembra di sentire una voce appena sussurrata, mi sembra che stia contando i secondi.