Le stime contrastanti sulla densità abitativa negli slums, ovvero: 125mila individui per kmq
Nello slum a fare la conta
Amani – 25 Marzo 2011 di Stefano Marras
Le autorità keniane tendono a non riconoscere ufficialmente (o si limitano a riconoscere non ufficialmente) l’esistenza delle baraccopoli che macchiano il tessuto urbano di Nairobi, considerandole, fittizziamente, insediamenti umani non permanenti, al pari di campi profughi. In alcune mappe ufficiali, l’area su cui sorge Libera è indicata sotto la dicitura “forest land”, come se nulla fosse cambiato nell’ecosistema dai tempi dei primi sodati cubani a cui venne data in uso dagli inglesi, negli anni venti, questa terra, allora ricoperta da una foresta.
Anche quando l’emergenza e la denuncia di eventi critici (insicurezza, malattie, estrema povertà) da parte dei mass-media ed attori sovrastatale, rende imprescindibile l’intervento delle autorità nazionali, queste riconoscono l’esistenza delle baraccopoli, escludendo però i loro abitanti dal raggio d’azione del diritto di cittadinanza e facendoli ricadere sotto l’egida dell’azione umanitaria. Così facendo, le autorità hanno l’opportunità di ottenere finanziamenti internazionali, la cui consistenza aumenta con l’aumentare della popolazione che si suppone vivere in queste zone.
La baraccopoli di Libera è conosciuta per essere una delle più grandi del mondo. Innumerevoli attori (autorità keniane, Nazioni Unite, ONG, associazioni locali, ricercatori accademici, mass media), hanno fornito e pubblicato, nel corso degli anni, crescenti stime riguardo le dimensioni numeriche della popolazione residente in questo insediamento informale: molti sostengono che si tratti del più grande slum dell’Africa, con oltre un milione di persone; altri, più cauti, lo pongono al secondo posto, dopo Soweto in Sud Africa. Stando alla stima riportata da Mike Davis, uno dei più conosciuti e stimati studiosi mondiali di slum, Libera, con 800mila persone, si piazzerebbe tra i primi 10 slum dell’Africa e tra i primi 30 del mondo. Un’importante ONG attiva nell’ambito dell’housing sociale, stima in un suo rapporto che nell’area di 225 ettari (2,25 kmq) occupata dalle baracche risiederebbe mezzo milione di persone, per una densità di 200mila individui per kmq (a Milano la densità è di 6.900).
Tutte queste stime fanno direttamente o indirettamente riferimento a numeri e statistiche rilasciate dal governo del Kenya e dall’agenzia delle Nazioni Unite per gli insediamenti umani (UH-Habitat). Quest’ultima ha pubblicato, nel corso degli ultimi anni, stime che variano tra 350mila e un milione di persone. Stime queste, derivanti da calcoli basati su analisi di immagini aeree del territorio. I soli rilevamenti sistematici e diretti, condotti dalle autorità all’interno della baraccopoli, risalgono al 2003, nel quadro del Kenya Slum Upgrading Programme (KENSUP), governo del Kenya e UN-Habitat hanno mappato le strutture e censito la popolazione nel villaggio di Soweto East, uno dei tredici villaggi che compongono l’intera baraccopoli di Libera. I risultati di tale rilevamento non sono mai stati resi pubblici dal governo keniano.
Al termine della scorsa estate, quando a Nairobi ancora il cielo era basso e carico di pioggia, avevo chiesto e ottenuto un incontro informale con un funzionario a capo del KENSUP, per mostrare quelli che ritenevo essere i più che significativi risultati della prima fase del Map Libera Project (www.mapkiberaproject.org), un progetto nato nel maggio 2008 con l’ambizione di mappare strutture, infrastrutture e popolazione dell’intera baraccopoli di Libera. Assieme ad un team di giovani locali, mi ero messo a bussare porta a porta tra le baracche di un altro villaggio, Kianda, situato all’estremità opposta della baraccopoli, rispetto a quello scelto dal KENSUP. Mappe, formular, matita e temperino alla mano, per tre mesi abbiamo scandagliato il territorio, fino all’ultima stanza delle 1500 baracche del villaggio. Vorrei lasciarmi andare al romanticismo e dire che ho in mente gli occhi dell’ultima delle quindicimiladuecentodiciannove persone che abbiamo registrato. Ma non me li ricordo; non mi ricordo se la sua baracca fosse di lamiera, fango o legno. Non ricordo più il momento in cui abbiamo scritto l’ultimo numerino sul formulario. Ero troppo stanco, sinceramente. Ricordo la zona. Doveva affacciarsi sulla ferrovia che traccia il confine orientale del villaggio, e che corre da Mombasa a Kampala (Uganda). Due volte al giorno, un treno scivola sfiorando coi lati le baracche, riflesso nelle pupille di scolaretti dalle divise colorate che corrono fuori dalle classi a salutare la locomotiva, che risponde loro con un lungo fischio che li spaventa e li fa ridere a crepapelle, mentre giocano a centrare coi sassi i portelloni aperti dei vagoni merci. Una volta mi fermai anch’io, sorridendo e il conducente mi rivolse un allegro fischio intermittente.
Il terreno sul quale poggia Kianda ha la forma di una banana, l’area di 20 campi da calcio e scivola lungo un dislivello di 30 metri: il lato elevato è disegnato dall’unica strada asfaltata, che si perde, dopo aver compiuto un tornante, in una foresta collinare, riserva dei boy scout. Il lato depresso del villaggio, che si affaccia sulla foresta, è solcato da un’ampia fogna a cielo aperto, che gli abitanti li chiamano “river”.
Seduto al tavolo del caffè, immerso nel verde del quartier generale delle Nazioni Unite, il funzionario ascoltava e osservava un po’ distrattamente le mappe e i dati che gli stavo mostrando dal computer. Lo schermo era polveroso e il riflesso impediva una visuale ottimale. Mi scusai e chiesi cosa ne pensasse. Gli pareva un lavoro interessante: “…E’ un peccato, d’altronde, che sia stato fatto in una zona così distante da Soweto Est… le consiglio, la prossima volta che avrà un progetto del genere, di informarsi su dove sono in corso progetti simili, così da poter cooperare”.
Ascoltavo quelle parole e piano piano le vedevo spegnersi, fino a lasciarmi al buio. Una eco di luce baluginò ad un tratto dalla bocca di quel funzionario, a sua insaputa: mi riferì che il governo keniano aveva registrato una popolazione di circa 20mila persone a Soweto East, rifiutandosi, però, di fornire ufficialmente tale dato alle Nazioni Unite. Con tono dubbioso e diffidente, il funzionario notò che la cifra appariva in forte difformità rispetto alla precedente stima effettuata da Un-Habitat, che prevedeva invece, nello stesso villaggio, la presenza di circa 70mila persone, vale a dire più del triplo. Quello che per il funzionario era un dubbio, per me era una conferma. Lo dissi. Non ci fu risposta. Mi salutò. Ringraziai. Tornò al suo ufficio. Tornai a Libera. Mentre tornavo verso il centro, guardavo fuori dal finestrino del matatu e facevo alcune rapide proporzioni: considerando che Soweto East è di poco più grande di Kianda, 20mila persone registrate nel primo, erano del tutto coerenti con le 15mila che avevano contato nel secondo.
Tornavo senza appoggi istituzionali, senza prospettive di finanziamento, ma con la conferma della validità ed attendibilità dei risultati che avevamo ottenuto. Preso dall’entusiasmo, mi spinsi oltre. Visto che tutti fanno stime, a questo punto mi sentivo più in diritto di tutti gli altri, più delle Nazioni Unite in primo luogo, di azzardare una stima sull’intera Libera. Feci un semplice ma accurato calcolo: risultò che nella nostra “foresta” non ci potevano essere più di 250mila alberi. Da annaffiare, certo. Ma non troppo, perché rischierebbero di marcire.