La storia della Basilicata
_A cura di Raffaele Giura Longo
Tratto da “La Basilicata. I tempi, gli uomini, l’ambiente” di Raffaele Giura Longo, Federico Boenzi
Lucania/Basilicata
Percorrendo la Basilicata da Oriente a Occidente, dai confini con la Puglia al Mar Tirreno, si attraversano e si distinguono tre differenti zone geografico-strutturali: l’Avampaese pugliese, di cui la Murgia materana, altopiano mediamente elevato, è la prosecuzione occidentale; l’Avanfossa bradanica che è un ‘ampia depressione caratterizzata da un susseguirsi di valli e di dorsali; la Catena appenninica, rappresentata da una serie di rilievi variamente conformati, alcuni dei quali sono degli imponenti massicci che raggiungono e superano i 2000 metri.
La Basilicata possiede un clima tipicamente mediterraneo, contraddistinto da estati calde e secche e da inverni piovosi.
La maggiore piovosità si ha sulla dorsale appenninica in corrispondenza dei più alti rilievi tirrenici.
Per quanto concerne la temperatura, occorre distinguere il territorio montuoso, freddo dall’autunno alla primavera, dalla pianura, che registra medie annuali di 17 gradi.
Una situazione climatica cosi delineata, congiunta alle caratteristiche geologiche regionali, concorre a rendere precarie le condizioni del territorio lucano. Le violente piogge a carattere di nubifragio che si registrano talvolta, provocano, infatti, improvvisi e vasti fenomeni franosi. Un breve cenno va fatto, infine, sul regime idrologico dei principali corsi d’acqua: il Bradano, il Basento, il Cavone, l’Agri e il Sinni. In generale essi non hanno portate consistenti ed i loro tratti superiori hanno carattere torrentizio a forte pendenza.
I più importanti avvenimenti della storia dell’uomo si sono svolti in quell’ultimo scorcio di tempo dell’era quaternaria, l’Olocene, che ha avuto inizio circa ottomila anni prima di Cristo. Al termine delle glaciazioni, e in coincidenza con l’inizio dell’Olocene, le condizioni climatiche dell’Europa cominciarono a divenire lentamente più temperate e più simili a quelle odierne. In particolare, dal 4000 a.C. al 2000 a. C., il clima si fece particolarmente mite. Il cambiamento del clima ebbe notevoli conseguenze sulle aree costiere. Lo scioglimento delle masse glaciali che occupavano ampi spazi del nostro pianeta, porta un innalzamento del livello del mare all’epoca circa 120 metri più in basso di quello odierno. Lungo le coste vaste zone furono quindi sommerse e il loro aspetto modificato. Il fenomeno interessò anche le coste lucane, e in particolare, quella ionica, lungo la quale doveva estendersi un’ampia area emersa digradante verso il mare che la invase.
Anche la vegetazione della nostra penisola subì una graduale modifica, così che alla steppa arborata, si venne sostituendo la foresta.
L’ultima parte dell’Olocene, che si estende tra il IX sec. A. C. e i nostri giorni, è per noi di grandissima importanza per tutti gli eventi storico-sociali in essa verificatesi e per i conseguenti effetti sull’ambiente.
Per questo intervallo di tempo le ricerche storiche, glaciologiche e paleobotaniche hanno individuato varie oscillazioni climatiche. Quella che a noi più interessa, perché più vicina ai tempi attuali, è l’innalzamento graduale della temperatura a partire dal 1850 che determinò un periodo caldo che perdura tutt’oggi.
L’età preistorica
I primi contatti tra l’uomo e l’ambiente fisico lucano, con notevoli e reciproche influenze, risalgono al Neolitico. I segni di tale civiltà, che si sviluppò tra il V e il III millennio a.C., sono evidenti soprattutto nelle parti settentrionali e orientali della Basilicata.
Numerose tracce d’insediamenti neolitici si rinvengono, infatti, nel Melfese e nel Materano lungo il confine pugliese, immediatamente a Est di Matera.
In questa zona gli insediamenti sorsero numerosi, lungo i bordi di quelle due depressioni vallive formate dal tratto alto del Torrente Gravina e dal Torrente Iesce, che poi, al cospetto della Murgia materana, convergono per formare un’articolata e ampia conca. In particolare, si trattò di una serie di villaggi trincerati che sorsero sulla sommità delle colline argillo-sabbiose e sui ripiani che bordano la Murgia materana. L’agricoltura e l’allevamento costituivano la maggiore risorsa delle genti che li abitavano.
Tra il Neolitico e l’Eneolitico, agli inizi del III millennio a.C. si assistette a un cambiamento dell’organizzazione sociale ed economica dei gruppi umani. In pratica, nella regione si andò affermando un’economia prevalentemente pastorale con riti, culti e strutture sociali differenti da quelli del precedente mondo agricolo neolitico.
Questa trasformazione economico-sociale è comunemente spiegata con fatti storici ed è messa in relazione con il sopraggiungere da Occidente di popolazioni dedite principalmente alla pastorizia, che si affiancarono alle precedenti. Tuttavia non è da escludere che una notevole influenza su questo cambiamento dei generi di vita l’abbiano avuta le mutate condizioni ambientali, dal momento che si cominciò a passare da una fase climatica umida favorevole all’agricoltura, a un’altra tendenzialmente arida più consona alla pastorizia. Con l’inizio dell’Età del Bronzo, dopo il 1700 a.C., nel periodo corrispondente alla “Cultura appenninica”, le condizioni economiche subirono un altro cambiamento.
Alla pastorizia, caratterizzata dalla transumanza stagionale, eredità dell’Eneolitico, si affiancò l’agricoltura e si ebbe così nuovamente la rinascita d’insediamenti stabili, alcuni dei quali continueranno ad esistere anche nei successivi periodi.
La scelta dei siti sembra, tra l’altro, essere stata determinata dalle condizioni geomorfologiche dei luoghi. Infatti, molti di essi, come ad esempio Timmari, S. Marco di Metaponto, S. Vito di Pisticci, Termitito, S. Maria di Anglona, etc., erano ubicati sui terrazzi marini e fluviali del retroterra ionico, dove più facile era il connubio tra allevamento e agricoltura, oppure sui ripiani della Murgia materana, già sede dei villaggi neolitici.
Alcuni di questi insediamenti dell’Età del Bronzo, quale quello di S. Maria di Anglona, per la loro posizione assunsero una notevole importanza commerciale.
Nella prima Età del Ferro la Basilicata era abitata da Enotri e da Coni, popolazioni dedite soprattutto alla pastorizia e all’agricoltura, che, tutto sommato, sembra convivessero in un rapporto abbastanza equilibrato con la natura.
La colonizzazione greco-romana
L’arrivo dei coloni greci nella regione, verso la fine dell’VIII sec. a.C. ebbe notevoli conseguenze sull’ambiente fisico specie nella parte centro-orientale dell’Avanfossa bradanica, dominata dai rilievi argillosi e dai terrazzi marini. La colonizzazione greca fu, nel complesso, una conquista di terre da coltivare e dalle quali trarre il maggior utile possibile, sia agricolo che commerciale.
L’immigrazione fu, infatti, dapprima sporadica, ma poi sempre più massiccia e continua.
Tra il VII e il III sec. a.C. tale area fu sottoposta, in effetti, a un’intensa ed estesa organizzazione agricola, dimostrata dalla fitta suddivisione particellare osservabile in particolare sui terrazzi, nonché dalle numerosissime fattorie sparse su tutto il territorio.
La penetrazione e colonizzazione avvennero attraverso le valli fluviali. Una volta fondati sulla costa ionica i capisaldi urbani, quali Siris, Metaponto e Heraclea, i coloni si spinsero all’interno, assimilando gradualmente le colture indigene e controllando così ampie aree del territorio, che divennero parte integrante delle città. La grande espansione dell’agricoltura portò alla distruzione del bosco, per cui estesi tratti dei versanti argillosi, privati della copertura vegetale, furono soggetti a intensi fenomeni di erosione, dando vita alle prime forme calanchive.
Tra la fine del V sec. a.C. e gli inizi del IV la prosperità delle città greche della costa ionica fu messa in pericolo dal sopraggiungere di popolazioni italiche, provenienti dall’area del Sannio e localmente note con il nome di lucani.
Nel complesso dovette trattarsi di una vera e propria bellicosa ondata migratoria, che si abbatté e si diffuse in Basilicata con la creazione di centri fortificati su alcuni rilievi posti a guardia dei fondovalle e di cui Serra di Vaglio, Civita di Tricarico e Monte Croccia sono un esempio.
A causa di questo incombente pericolo, le colonie greche furono costrette ad allearsi, a creare una lega che ebbe sede prima a Crotone e poi a Heraclea.
Nella prima metà del III sec. a.C. si assistette, comunque, in tutta la regione a un abbandono pressoché generalizzato. I centri fortificati, le fattorie, i piccoli santuari rurali furono abbandonati. Ciò fu la conseguenza dell’intervento politico e militare di Roma.
L’affermazione di Roma si caratterizzò, tuttavia, anche con la fondazione di alcuni capisaldi-colonie, quali soprattutto Grumentum e Venosa, posti a controllare strategicamente la viabilità di accesso al territorio e le sue genti.
Tra la fine dell’età repubblicana e gli inizi dell’Impero, cominciò ad affermarsi ovunque, ma soprattutto nell’area costiera, il latifondo, che si estese con sempre maggiore vigore. Vastissime aree furono messe a pascolo e a monocoltura, mentre al centro dei latifondi sorgevano le grandi ville di tradizione romana, testimonianza di una ricchezza controllata da pochi gruppi di privilegiati.
Alla fine dell’età imperiale Metaponto, Heraclea e altre colonie un tempo floride della Magna Grecia erano ormai ridotte a piccoli centri privi d’importanza. Le aree interne apparivano spoglie e spopolate, con ampi spazi incolti, utilizzati a pascolo o coperti da boschi, che, poco per volta, riprendevano il sopravvento e rioccupavano le aree perdute in precedenza.
I Romani avevano fornito il territorio ora circoscritto all’odierna Basilicata di una struttura viaria essenziale, che tuttavia, più che attraversarlo, lo lambiva, scorrendo quasi ai suoi fianchi e proseguendo nelle due direzioni principali, quella verso Sud sulla linea per Reggio e quella verso Sud-Est secondo il ben noto tracciato della grande via Appia.
Queste due arterie principali, nel tratto che ci interessa, partivano entrambe da Capua. La prima era la via Popilia, che ai Romani serviva per raggiungere la Sicilia e l’Africa. Essa da Capua puntava a Sud verso Reggio, attraversando il Vallo di Diano, cioè l’ampia e amena valle del Tanagro.
La via Appia invece, giunta a Capua da Roma, piegava verso Sud-Est e puntava su Brindisi, attraversando Venosa che perciò aveva assunto ben presto una posizione strategica e commerciale di grande rilievo.
L’attuale territorio della Basilicata, così come fu consegnato dai Romani all’età medievale, era dunque una parte di una più vasta regione e costituiva essenzialmente un insieme di montagne boscose la cui vocazione economica naturale era l’attività silvo-pastorale.
Tale territorio era anche caratterizzato da alcuni insediamenti urbani tra loro collegati da una linea viaria perimetrale, i cui capisaldi erano rappresentati da Venosa, Potenza, Grumentum, Nerulum e Heraclea.
Il mondo romano aveva quindi reso omogeneo il territorio interno e montuoso dell’attuale Basilicata al resto del territorio circostante, collegandolo anche per quanto era allora possibile.
E mentre la costa ionica tra Metaponto e Heraclea sembrava allora dar origine al secolare abbandono fatto d’impaludamenti e malaria, lungo il confine orientale di esso, e cioè lungo la via Appia da Venosa a Taranto e Brindisi si era venuta attestando una particolare forma di dinamismo sociale ed economico, come paiono dimostrare alcune presenze ebraiche antichissime a Venosa, Lavello e Matera.
A occidente, invece, la regione si apriva verso il Vallo di Adriano, che era un luogo attivissimo di convergenza interregionale anche per gli scambi commerciali.
All’inizio del Medioevo, e precisamente nella fase di passaggio dall’età romana alla successiva, l’asse della vita regionale sembra più decisamente spostarsi dalla Valle dell’Agri e del Sinni verso il Vulture, cioè verso il Nord.
In pochi secoli si consuma, infatti, l’abbandono definitivo della costa ionica lucana, cui fece seguito la scomparsa di centri lucani prima molto importanti, non solo della Magna Grecia, ma anche dell’età romana. Da questo punto di vista, fu significativo il destino di Grumentum, che subì in pochi decenni, a seguito di ripetuti attacchi da parte dei Saraceni, un impressionante tracollo.
Ma non furono soltanto i Saraceni, com’è noto, a insidiare questo territorio e a stravolgere gli antichi equilibri. Insieme con essi, e ancor prima di essi, l’Italia meridionale era stata al centro di un grosso scontro politico-militare tra i Longobardi e i Greci di Bisanzio.
Dalla Lucania alla Basilicata (554-870 d.c.)
In questi tre secoli, la Lucania si trasforma profondamente, finanche nel nome: da Lucania, romana, a Basilicata, Bizantina. L’origine di questi cambiamenti sta nella lotta tra Bizantini e longobardi di Benevento e Salerno.
Questi ultimi sottrassero al territorio della Lucania romana l’area corrispondente al Vallo di Diano e fino all’antica Paestum, mentre i Greci di Bisanzio si attestarono nella zona centro-orientale della regione, dopo avere sconfitto i Goti nella battaglia di Conza nel 554 D.C. Il lungo confronto-scontro tra Longobardi e Bizantini si ebbe anche sul piano ideale e religioso con il rito latino contrapposto a quello greco, molto più diffuso anche a causa dell’insediamento di nuove popolazioni provenienti da Bisanzio (Mercourion e Latinianon, insediamenti sparsi nell’area del Mercure e in quella agro – tursitana). l territorio della regione appariva comunque spopolato, inselvatichito, con aree incolte e paludi. I gruppi monastici bizantini insediatisi in diverse zone, iniziarono una relativa azione di disboscamento, dopo di quelle ben più massicce dei Greci precristiani e dei romani, per coltivare la terra. E’ di questo periodo l’inizio degli insediamenti religiosi di tipo rupestre, realizzati soprattutto lungo i fianchi della gravina di Matera, Picciano e Valle del Bradano.
Nell’XI secolo la popolazione della Basilicata si presenta raggruppata in centri fortificati, in genere ubicati sui rilievi dai 4oo ai 9oo mt. Oppure sui versanti delle maggiori valli fluviali. E’ sempre in questo secolo che si registra una relativa espansione delle attività agricole (olivo, vite, ecc.) oltre alla tradizionale pastorizia e allo sfruttamento del legname.
Nella parte nord e ovest della regione, controllata dai Longobardi di Benevento e Salerno, aumentò l’importanza d Acerenza come centro militare e religioso (923 d.c.). Non mancarono in questo periodo numerose incursioni di Saraceni, talvolta stabilitisi in vere e proprie roccaforti quali Pietrapertosa, Tricarico, Tursi, Castelsaraceno. Per far fronte a questo pericolo, i Longobardi chiesero e ottennero l’aiuto dei Franchi di Ludovico II, che assediarono Bari, occuparono e bruciarono Matera e proseguirono verso Venosa nell’867 d.c. Nel 994 è ancora Matera a essere rioccupata dai Greci di Bisanzio per essere poi ripresa dai Saraceni e nuovamente bruciata. Appare chiaro che i Bizantini non riescono a difendere e conservare i loro territori nell’Italia meridionale, mentre erano in arrivo altri eserciti.
I Normanni ed altri dominatori della Basilicata
Quella dei Normanni fu dapprima una presenza episodica in Italia meridionale (con Roberto il magnifico intorno al 1030) durante la quale si schierarono contro i Bizantini, insieme ai longobardi e a gruppi capeggiati da Melo di Bari, uscendone però sconfitti. Nel 1035 ritornarono in forze comandati dai figli di Tancredi d’Altavilla e, insieme ai Longobardi, sconfissero i Bizantini a Melfi nel 1040, occupando anche Lavello, Matera e altre città appulo-lucane. Due anni dopo i Bizantini assediarono e distrussero Matera e altri centri, ma neppure un anno più tardi la stessa Matera fu sede di un vertice dei principi normanni, che proclamarono loro capo Guglielmo braccio di ferro, al quale succedette Roberto il Guiscardo. Per lungo tempo la politica dei capi normanni fu quella di stretta alleanza con i longobardi e con il papa ma non mancarono profonde divisioni e rivalità al loro interno. Sotto la loro dominazione, si completò la definizione territoriale e politica della Basilicata moderna.
Nel 1127, dopo 32 anni dalla prima crociata, si ebbe l’unificazione sotto un’unica guida (Ruggero II) del dominio normanno sull’Italia meridionale e la Sicilia, fortemente contrastata dal Papa. Tale processo di unificazione ebbe come conseguenza lo spostamento verso Palermo del centro del potere normanno, con sacrificio del Vulture e della Basilicata.
Federico II di Svevia (1194-1250), figlio dell’imperatore Enrico VI e di Costanza di Altavillla, concentrò sulla sua persona l’eredità normanna e il titolo imperiale. Egli restituì alla Basilicata e soprattutto al Vulture, parte dell’importanza politica e militare riconosciuta a Palermo. La sua politica antipapale alimentò anche in Basilicata le forze legate ai grandi latifondi e alla Chiesa. Con la sua morte e con la sconfitta dei Normanni a Tagliacozzo, nel 1268, la Chiesa, gli Angioini e i grandi redditieri vinsero ogni resistenza anche al prezzo di sanguinose stragi. Con la fine del dominio normanno nel Mezzogiorno, anche il Vulture perse ogni funzione politica e amministrativa, trasferite a Napoli.
Con l’avvento del dominio angioino, la Basilicata subì una profonda mutazione, con l’abbandono di valli e centri costieri, popolazioni rifugiate nei boschi o sulle alture rocciose. Paludi e malaria ebbero il sopravvento, insieme con un generale degrado ambientale. Questo periodo si caratterizza come uno dei più tragici nella storia della Basilicata, con epidemie, carestie, spopolamento.
In questa situazione, fu facile per alcune grandi famiglie latifondiste, prendere l’effettivo comando nella regione.
Ruggero Sanseverino aveva sposato la sorella di san Tommaso d’Aquino. I Del Balzo-Orsini erano invece originari della Francia (De Baux). I componenti di questa famiglia potevano viaggiare da Taranto a Napoli senza mai uscire dai loro territori.
Nel 1416 a queste due famiglie si aggiunse quella dei Caracciolo, potente famiglia napoletana, che ebbe feudi anche in Basilicata. Non mancarono, naturalmente, aspre lotte fra loro e molti feudi furono alternativamente dominati da questa o quella famiglia. Il neonato sistema feudale fu accompagnato anche in regione dal risorgere dei grandi Monasteri.
Nel XV secolo gli Angioini furono cacciati dagli Aragonesi. Le tradizionali strutture feudali vennero travolte dall’imperversare delle lotte fra i potenti, combattute anche con comportamenti odiosi, clientelari, scellerati, che tuttora contraddistinguono molte relazioni di potere nel Mezzogiorno.
Gli Aragonesi tentarono di dotare il regno di Napoli di una moderna struttura statale centralizzata, ma ciò indusse molti baroni a contrastare in ogni modo tale disegno. Dal 1459 al 1462, specie in Calabria, si era combattuta una vera e propria guerra tra i baroni e le truppe aragonesi in favore di queste ultime, che si erano avvalse dell’aiuto di numerosi albanesi guidati da Giorgio Castriota Scandeberg, fuggiti dal dominio dell’impero turco.
Nel 1485 a Miglionico nel castello di Girolamo Sanseverino, si tenne un incontro tra il Re Ferrante d’Aragona e molti baroni. Esso si concluse, in apparenza, con un accordo, ma non passò molto tempo e il re dette inizio a un vero e proprio sterminio dei componenti delle tre grandi famiglie baronali. Vennero uccisi molti esponenti dei Sanseverino, dei Del Balzo Orsini e dei Caracciolo. Le successive invasioni degli eserciti francesi e, soprattutto, degli spagnoli dell’imperatore Carlo V, scacciarono gli Aragonesi dal Regno di Napoli e contribuirono al definitivo ridimensionamento delle grandi casate meridionali e all’emergere di nuove famiglie feudatarie reclutate dai vincitori spagnoli, quali gli Andrea Doria, genovesi, cui fu concesso il feudo di Tursi e altri; i Revertera, i Carafa, i Pignatelli, i Colonna, ecc. Durante i secoli XV e XVI la Basilicata conobbe un lieve miglioramento demografico e delle condizioni di vita.
La regione fu spesso all’avanguardia nelle lotte antifeudali, come dimostra, tra l’altro, la stessa uccisione del conte Tramontano, nel 1514 a Matera, la rivolta a Pisticci nel 1567 e quella, ancor più significativa dei contadini verso la gestione feudale delle proprietà del Monastero di Monticchio da parte del clero e del papato e contro le esose imposte pretese dai nuovi padroni spagnoli. Nel 1628 tutto questo si tradusse in una vera e propria rivoluzione antifeudale che si estese a tutta la Basilicata e che produsse un decentramento amministrativo del regno di Napoli, anche mediante il riconoscimento di Matera quale capoluogo della Provincia di Basilicata (1663), l’istituzione della regia Udienza e i primi passi concreti nel ridimensionare le pretese baronali in diversi comuni della regione. Bisogna tuttavia sottolineare che, ancora agli inizi del XVIII secolo, la Basilicata appariva travolta da una crisi profonda e da un impoverimento demografico senza precedenti (solo 130.000 abitanti).
Il risveglio iniziò nel corso di quest’ultimo secolo, in seguito ad una decisa azione di contrasto antifeudale e alla formazione di una nuova classe dirigente, la cosiddetta “borghesia rurale”. Gli stessi Viceré austriaci, succedutisi ai governi di matrice spagnola, iniziarono, da Napoli, un risanamento generale delle finanze comunali (1728) con una prima introduzione del Catasto e, quindi, delle imposte sui Beni patrimoniali.
Carlo III di Borbone rese più vincolante questo indirizzo dei catasti e limitò i privilegi fiscali del clero. Tutto ciò produsse un profondo, anche se lento processo di differenzazione sociale e la nascita di nuove figure d’imprenditori agricoli e di professionisti.
L’Ottocento: l’assalto ai boschi lucani.
Nel XIX e nel XX secolo l’assalto ai boschi lucani fu massiccio e senza freni, fino a compromettere il territorio per i secoli a venire. Rispetto all’uguale fenomeno registratosi nel periodo magno greco e romano, sviluppatosi soprattutto nella parte sud orientale della regione, il nuovo assalto investe l’intero territorio regionale. Per ironia della sorte, il massiccio disboscamento riprese anche a seguito della legge sulla feudalità, del 1806, decisa dalle autorità napoleoniche del Regno di Napoli, grazie alla quale si ebbe un forte risveglio sociale, economico e culturale. Le terre non furono più appannaggio dei grandi latifondisti e della Chiesa; molte passarono ai comuni, altre furono acquistate dai privati, che nella foga di metterle a coltura fecero strame di boschi, con la conseguente scomparsa di molti usi civici. Fu cosi che dal 25% dei terreni a bosco si passò in pochi decenni al 17%. Il degrado del territorio subì un ulteriore peggioramento a causa dei diversi disastrosi terremoti che colpirono la regione nel corso del XIX secolo e che indusse molti lucani a emigrare verso le Americhe.
La Basilicata dal 1799 al 1865
La storia della regione, tra rivoluzione “napoletana” e Risorgimento, appare tormentata e assai influenzata dalla questione contadina e dalla ricerca di uno sbocco unitario con i nuovi ceti borghesi emergenti contro le forti resistenze al cambiamento da parte di latifondisti e clero. Sommosse e tumulti ebbero luogo in molte zone della regione e borghesi e contadini furono i protagonisti dei moti rivoluzionari del 1799. Furono istituite molte Municipalità rivoluzionarie e innalzati gli alberi della libertà.
Ma non tardò la reazione delle forze conservatrici: bande borboniche capeggiate dal cardinale Ruffo strinsero la Basilicata in una morsa.
Tra Marzo e Aprile del 1799, Ruffo conquista Matera, Altamura e poi il resto della Basilicata, con massacri, incendi e repressione durissima. Da questa situazione di anarchia rinacque il “brigantaggio”. Questo fenomeno, oltre che trarre alimento dalla grave situazione economica e sociale e dalla disperazione di tanti che avevano perso tutto, fu rafforzato anche dalla connivenza tra forze dell’ordine e bande di briganti, composte assai spesso da personaggi legati ai Borboni e al Clero più retrivo. Nel 1801 arrivano in regione i primi contingenti napoleonici che occupano il Regno di Napoli. La politica economica e sociale dei francesi incontrò una forte resistenza conservatrice, ma la distribuzione dei “demani” fu tuttavia assai importante per i ceti popolari poiché essa riguardò ben 42.000 ettari di terra per 48.000 quotisti in 105 Comuni della regione. Questa imponente operazione di redistribuzione dei beni partì proprio nel decennio di dominazione napoleonica e riprese dopo l’Unità d’Italia. Alla formazione della piccola proprietà contadina, si accompagnò quella della proprietà agricola “borghese”, la cosiddetta “masseria”, in genere realizzata da esponenti dei nuovi gruppi dirigenti. L’intreccio tra scontro sociale e lotte politiche risorgimentali è una costante in questo periodo storico della regione. In questo contesto sono da segnalare uomini quali Vincenzo D’Errico, Giustino Fortunato, Giacomo Racioppi e tanti uomini di chiesa schierati a favore di una società liberale e democratica e di condizioni economiche e civili adeguate per i contadini.
Nei moti carbonari del 1820-21, la Basilicata si distinse per la partecipazione massiccia di uomini illustri e di tanti contadini alla conquista di terre da coltivare e di giustizia e indipendenza. Nella crisi rivoluzionaria del 1848 emersero altri lucani illustri: Luigi Lavista, Giambattista Pentasuglia, Saverio De Bonis, ecc. Il 21 marzo 1848, i contadini di Matera insorsero per reclamare le terre demaniali ritenute usurpate. Ottennero l’intervento di monsignor Di Macco, del D’Errico e del democratico Emilio Maffei in loro favore. L’accordo fra questi venne sancito in un Memorandum, nel quale si prevedeva anche la creazione di una Guardia nazionale, proprio mentre in tante aree della regione si susseguivano moti contadini. Tali movimenti non cessarono neppure dopo la fine dell’esperienza rivoluzionaria del 1848 napoletano.
Il restaurato regime borbonico suscitò la totale impopolarità, aggravata ancor più dalla repressione della spedizione di Carlo Pisacane e i 300, del 1857. Si spiega cosi come nel 1860, ancor prima dell’arrivo di Garibaldi in regione, la Basilicata era pronta ad accogliere trionfalmente l’avvento dell’Unità d’Italia, con ribellioni diffuse e violente, come quella che portò all’uccisione del conte Gattini, liberale, da parte dei contadini di Matera. Il governo provvisorio regionale, capeggiato dal Racioppi, si pose l’immediato obiettivo della distribuzione delle terre demaniali, favorire il dialogo con i contadini e impedire lo stato d’assedio e la repressione contro il brigantaggio con politiche di aiuto alle popolazioni più povere.
Tuttavia il nuovo Stato respinse perfino l’offerta di smobilitazione avanzata dai capi briganti carmine Crocco, Ninco Nanco, ecc. e furono inutili anche gli appelli alla pacificazione lanciati da lucani come Aurelio Saffi, E. Maffei, De Cesare, ecc. mentre la morte di Cavour segnò ancor più l’orientamento a favore della repressione.
Dal 1861 al 1865, la regione fu quindi teatro di una vera e propria guerra e di profonde lacerazioni politiche e sociali.
Il XX Secolo: l’età delle riforme-bonifica e rimboschimenti
L’inizio di questo secolo si caratterizzò per una presa di coscienza delle condizioni di degrado dell’ambiente fisico della Basilicata da parte del governo nazionale grazie a uomini lucani come Giustino fortunato, Francesco Saverio Nitti, Ettore Ciccotti.
Nel 1902, il Presidente del Consiglio Giuseppe Zanardelli, visitò la regione. Nel 1904 e nel 1908 furono approvate due leggi che prevedevano opere di consolidamento dei centri abitati pericolanti, la sistemazione dei corsi d’acqua e opere di rimboschimento. Ma la realizzazione delle opere fu in gran parte inadeguata. Nel 1910, Nitti presenta al Parlamento la relazione finale dell’inchiesta sulla condizione dei contadini di Basilicata e Calabria. Seguì un’altra massiccia migrazione oltre oceano e il sopraggiungere della prima guerra mondiale non permise la realizzazione di opere programmate.
Dopo la guerra, la popolazione regionale aumentò a 514.000 abitanti (1931) e riprese la corsa ai disboscamenti nonostante i vincoli legislativi. Nel 1930 la regione fu colpita da un terremoto del 10° grado della scala Mercalli. I morti furono 1500, 5000 le case distrutte, 100.000 persone senza tetto e danni incalcolabili. Gli interventi di soccorso e ricostruzione furono tardivi e largamente al di sotto delle necessità. Si era in pieno periodo fascista e la cosiddetta “battaglia del grano” (autarchia) spinse ancor più al disboscamento per ricavare nuovi terreni sui quali coltivare grano. Dal 1927 al 1930, le aree coltivate a grano passarono da 178.000 ha. a 215.000.
Non mancarono leggi volte alla cosiddetta “bonifica integrale” (1933), con vincolo idrogeologico e recupero zone paludose e malariche (specie l’area metapontina). Con l’istituzione dei Consorzi di bonifica e l’uso degli impianti idrovori oltre che del DDT, si dette un colpo mortale alla malaria. Dopo la seconda guerra mondiale, riprese, massiccia, l’emigrazione: tra il 1950 e il 1965, ben 150.000 lucani abbandonarono la regione per cercare fortuna altrove.
Intanto però, in qualche modo, si tentava di realizzare interventi per lo sviluppo dell’agricoltura. Si costruirono opere irrigue nelle aree agricole di pianura e di collina; si formarono grandi e piccoli invasi artificiali (Gannano, San Giuliano, Pertusillo, Camastra, Monte Cotugno, ecc). Ma le dighe, insieme alla sistemazione idraulico-forestale dei bacini montani e all’estrazione dei materiali alluvionali lungo i corsi d’acqua, unitamente agli insediamenti turistici nell’area metapontina, hanno innescato un processo di erosione delle coste sabbiose e il graduale arretramento del litorale.
Sul fronte delle frane, gli interventi effettuati furono del tutto irrisori. Tra il 1958 e il 1972, si verificarono tre grossi eventi franosi che travolsero l’abitato di Craco, imponendone il trasferimento. Dopo il 1950 ripresero gli interventi di sistemazione idraulica e di rimboschimento (altri 40.000 ha.). Poca cosa rispetto alle necessità ma sempre utili, anche in considerazione del massiccio disboscamento della foresta planiziaria di Policoro, avvenuta nel tempo.
Con la realizzazione di grandi opere infrastrutturali (strade di fondo valle, aree industriali, ecc.), molti comuni uscirono dal secolare isolamento, cui però si accompagnò sovente una scriteriata espansione urbana sui pendii circostanti con ulteriore aggravamento della stabilità del suolo e di negativa trasformazione del paesaggio.
Agli inizi degli anni ’60, si avviò in Basilicata lo sfruttamento dei giacimenti di gas (area bradanico-basentana) poi conclusosi tristemente pochi decenni dopo con la chiusura delle fabbriche a esso collegate (Anic, Pozzi, ecc.).
Il 23 novembre 1980, un ennesimo, violento terremoto, devastò la Basilicata e l’Irpinia con migliaia di morti e danni devastanti. Bisogna sottolineare che negli anni 1948-50, la regione conobbe un altro grande movimento di contadini per la terra, non senza morti e scontri. In seguito fu approvata la cosiddetta Legge Stralcio, grazie alla quale si attuarono diversi espropri di latifondo con successive assegnazioni di terra ai contadini. Nacquero in tal modo anche nuovi centri rurali quali il borgo La Martella e Venusio a Matera, il Borgo Scanzano, Policoro, Marconia ecc. Il Metapontino cambiò volto: al posto dell’allevamento e delle paludi, si sviluppò un’agricoltura fatta di colture industriali e di ortofrutta.
La Basilicata, come si è detto, era in origine, molto diversa. Gli antichi lucani (Likii) abitavano un territorio che giungeva fin quasi a Salerno, compreso il Vallo di Diano e il Cilento ma Matera è stata parte della puglia fino al 1663 e Venosa era parte della Daunia. La convivenza tra gruppi etnici diversi ha fatto della Basilicata una regione aperta più del normale e perciò assai mutevole. La stessa riforma agraria degli anni ’60 è stata solo parziale, tardiva e, peraltro, subordinata agli interessi dello sviluppo industriale, poi fallito. L’insieme di questi fattori ha contribuito ad aggravare lo spopolamento delle aree interne della regione. Oggi la Basilicata presenta prospettive assai incerte, nonostante la ricchezza di acqua, di petrolio, di aree verdi, di paesaggi pieni di fascino, di un patrimonio storico e culturale di grande spessore.