Note a margine di un Premio_di Silvia Stucchi.
Il mio lavoro, “In collegio non ho mai cantato” vuole, entro il piccolo ambito che può essere esplorato e sondato da un racconto, indagare un punto oscuro della biografia di un personaggio che tutti abbiamo conosciuto attraverso la sua opera e cui tutti, mediatamente, associamo a ricordi di scuola più o meno felici, più o meno noiosi, o addirittura traumatici: Alessandro Manzoni. È uno scrittore che tutti ci illudiamo di conoscere bene, – chi non presume di sapere tutto dell’autore dei Promessi Sposi? Ce ne hanno parlato in tutte le salse, al punto che è difficile pensare che ci fossero ombre nella sua vita. Eppure, per molti versi, Alessandro Manzoni è un uomo misterioso, a partire dalla storia della sua conversione. L’aneddoto da cui parto nel racconto è, appunto, un aneddoto, una storia che Manzoni non ha mai voluto né smentire né confermare: molta gente, negli anni, gli aveva chiesto che cosa fosse accaduto, come fosse maturata quella decisione che aveva cambiato radicalmente la sua vita, e, possiamo dirlo, anche la storia della letteratura italiana (senza conversione, forse la sua adesione al Romanticismo e il ripudio della mitologia non sarebbero stati così netti né così profondi, e molto probabilmente non avremmo avuto nemmeno il romanzo, certo non in questa veste); Manzoni, però, aveva sempre eluso la domanda, glissando con un semplice: “è stata la volontà di Dio”, senza precisare né come né quando. Anche nella condotta quotidiana era rimasto una persona misteriosa: non aveva per esempio mai partecipato al rosario che la famiglia si faceva un punto d’onore di recitare tutte le sere e che era un momento importantissimo della vita di ogni casa signorile nell’Ottocento; lui, invece, pregava, da solo, in silenzio, davanti allo specchio. Queste e altre bizzarrie e tratti originali, addirittura, hanno fatto ipotizzare a qualcuno (come ad Aldo Spranzi, autore dell’ “Anticritica dei Promessi Sposi” e di “L’altro Manzoni”), che la conversione non sia mai nemmeno avvenuta, e che la lettura dei “Promessi Sposi” come romanzo della Fede, della Provvidenza, del fiducioso abbandono a Dio sia un colossale abbaglio, un gigantesco fraintendimento.
Ancora, ovviamente, la curiosità per questo personaggio nasce dalla sproporzione fra la sensibilità eccezionale dimostrata nel romanzo, nell’attenzione infinitesimale ai moti dell’animo, e l’egoismo profondo che sapeva dimostrare nella vita quotidiana, la freddezza e l’inadeguatezza di padre che Natalia Ginzburg ha così ben raccontato nella “Famiglia Manzoni”; ma proprio leggendo questo saggio ho trovato alcuni accenni che aprono uno squarcio su una storia familiare e infantile non certo serena, ma improntata a freddezza e distacco. Da qui l’idea (che si è poi fortificata da qualche cenno in Gallarati Scotti, “La giovinezza del Manzoni”) che molto delle famose fobie, paure, distonie neurovegetative (nel racconto ho ipotizzato addirittura uno di quelli che oggi si chiamano “attacchi di panico”) venisse proprio dalle esperienze traumatiche di un’infanzia infelice e solitaria, trascorsa in collegio. Ora, è chiaro che, benché l’”Emilio” fosse stato pubblicato negli anni Sessanta del Settecento, la pedagogia non doveva essersi immediatamente adeguata al messaggio rivoluzionario di Rousseau. L’attenzione e la delicatezza nei confronti dell’infanzia non era propriamente una caratteristica della società dell’Ancien Régime, e questo valeva per i figli dei poveri come per quelli degli aristocratici, per i quali il collegio – gesuitico, somasco, barnabita – era la norma. Non dovevano essere posti dove il calore umano abbondasse particolarmente, e parole come dialogo, ascolto e libera espressione delle potenzialità del bambino erano molto al di là da venire, ma che cosa sappiamo, in effetti, di quello che veniva considerato “nella norma” o “fuori dalla norma” duecento e passa anni fa? Sicuramente, Manzoni non fu il solo bambino, rampollo di una famiglia nobile, ad aver passato interi anni in collegio: del resto, all’epoca era quasi la norma, e anzi, una certa pedagogia o luogo comune del tempo consigliava di non portare a casa l’allievo nemmeno per le vacanze perché era considerato estremamente nocivo interrompere la “continuità educativa” che si creava nel collegio. Se quindi il trattamento standard non doveva essere leggero per nessuno, figuriamoci, ho immaginato, per un bambino dalla profonda sensibilità (come doveva essere Alessandro Manzoni, e ne fanno fede la straordinaria capacità introspettiva dispiegata nel romanzo) e dalla psicologia fragile e forse già provata da un clima familiare che, date le vicende che avevano coinvolto Giulia Beccaria e il conte Pietro Manzoni, non doveva essere dei più sereni e lieti: e se è vero che gli anni dell’infanzia sono quelli in cui si forgia la nostra personalità, in bene o in male, mi sono chiesta se quei problemi, quelle freddezze, quelle ipocondrie che avrebbero reso Manzoni adulto un padre assente con le figlie gravemente malate, poco attento a loro e molto concentrato su di sé, ipocondriaco, agorafobico, affetto da mille paure, non affondassero le loro radici in un’infanzia poco felice.
Il titolo, “In collegio non ho mai cantato” , che non è mio, ma che devo al buon gusto di un amico, ha secondo me il vantaggio di “spostare la prospettiva”, di spiazzare, perché è un titolo in prima persona, mentre il racconto è il terza persona. Questo è un piccolo omaggio al gioco di prestigio su cui si apre l’altro grande romanzo dell’Ottocento, questa volta francese, “Madame Bovary”: lì, come ci fa riflettere Dacia Maraini in “Cercando Emma”, troviamo due pagine, in apertura, in cui parla in prima persona un compagno di collegio di Charles Bovary, che un mattino si vede arrivare in classe questo campagnolo goffo e timido. Poi, però, senza alcuna giustificazione, questa voce narrante scompare, lasciando il posto alla terza persona di Flaubert narratore onnisciente.
Insomma, nel mio racconto ho cercato di fingere, alla latina, di “plasmare” letterariamente una possibile, ma plausibile, divagazione sul giovane Manzoni, in un momento topico della sua esistenza. E siccome Manzoni ci ha insegnato come nessun altro mai ad apprezzare la lentezza di un periodo ampio e ben scritto, che accompagna il lettore a pensare, e che anzi ci fa assistere proprio, a volte, alla formazione del pensiero e delle emozioni nella testa e nel cuore dei personaggi, ho provato, nel mio piccolo, ma direi piuttosto, nel mio piccolissimo, data la statura dell’autore con cui oso misurarmi, a ricreare quella lentezza voluta: nel mio racconto succede tutto, eppure il protagonista è, se lo guardassimo da osservatori, seduti accanto a lui sulle panche della Chiesina di Saint- Roc in Saint Germain des Prés, statico quant’altri mai; eppure, nella sua testa e nel suo animo c’è il tumulto, c’è la tempesta, c’è l’ansiosità più profonda.
Spero allora che il mio esperimento, un po’ spericolato, sia apprezzato non solo dai giurati, ma anche dai lettori, e che, magari, siano invogliati a rileggere qualche pagina di Manzoni.
Visto il prestigio e la notorietà acquisita negli anni dal premio “Energheia” e anche un po’ intimidita dalla qualità dei racconti premiati negli anni (“Sarò all’altezza?, mi chiedevo), ho pensato quindi di concorrere alla sezione maior proprio con “In collegio non ho mai cantato”. Negli anni scorsi avevo partecipato alla sezione “I brevissimi di Domenico Bia”, riportando il primo premio nel 2010 con un racconto, ancora una volta, ispirato a uno scrittore, anzi, a un incontro sui generis fra scrittori. E ora volevo riprovarci, ma con un racconto dal respiro più ampio. Sono stata a lungo indecisa su quale racconto presentare -ce n’era un altro di cui, scaramanticamente, non dico il titolo, e che, sino all’ultimo giorno prima della scadenza del termine, ero tentata di inviare: ma chissà, forse in futuro troverà anche lui una platea!. Poi, da lombarda innamorata anche del clima della Lombardia (ed è dir molto! Ma del resto non è Manzoni a parlare di quel cielo di Lombardia “così bello quand’è bello”?), mi è sembrato molto elegante pensare di concorrere con un racconto che avesse come tema il più milanese degli scrittori in una città del Sud, lontana da nebbia e foschia, e che sarà capitale mondiale della cultura nel 2019, una città attentissima alla cultura, agli avvenimenti musicali, alla poesia, alla letteratura. Una città, Matera, in cui non ero mai stata, e che è stata una sorpresa che varrà il ritorno: devo dire che non solo i Sassi, ma tutta l’atmosfera che si respira a Matera, nel centro cittadino, nelle chiese, lungo il corso principale della città, come pure l’afflusso veramente importante di un pubblico così folto alla cerimonia della premiazione, danno al visitatore il polso dell’amore e dell’interesse che gli abitanti hanno per tutto quello che è letteratura e bellezza: un autentico tesoro, dove ho lasciato un pezzettino di cuore, e dove vorrò tornare presto.