Studiare per diventare persone libere
_di Renato Kizito Sesana_
Nell’aprile 2012 sono stato ancora una volta sui Monti Nuba. Di quel viaggio ho in mente alcune immagini indelebili.
Una donna molto anziana, esausta per un cammino durato alcuni giorni. È il primo pomeriggio, la temperatura ancora sopra i 40 gradi. Si sdraia sulla terra nuda, all’ombra di un albero rinsecchito, in posizione fetale. Un maschietto nudo, appena messo a terra dalla mamma che lo portava sulla schiena, le si siede accanto e le accarezza il volto. Una bambina mi si avvicina e mormora qualcosa indicando con un cenno del capo la donna prostrata. Non capisco la lingua, ma il messaggio è chiaro, e me lo traduce il mio accompagnatore Nuba, mentre sto già raggiungendo il sacco con i manghi: “padre, mia nonna ha fame”.
Abbiamo solo alcuni manghi e li porgo alla bambina. Acqua non ce n’è, allora ne pulisce uno accuratamente strofinandolo sul vestitino sdrucito e impolverato e si inginocchia di fianco alla nonna, porgendole il mango. Un momento di rispetto e di dolcezza in un paese devastato dalla guerra.
Per questo gruppo di una trentina fra donne e bambini, il calvario è finito, sono ormai vicini alla capanna di paglia che serve da centro di registrazione per i profughi Nuba che arrivano a Yda, in Sud Sudan.
Dal giugno dello scorso anno il presidente del Sudan, Omar al-Bashir, ha scatenato una guerra non dichiarata contro i Nuba colpevoli di non accettare la sua politica di arabizzazione e islamizzazione che ha fatto di loro degli emarginati nel proprio paese. In un anno, fiorenti centri e piccoli villaggi sono stati bombardati indiscriminatamente. Buram, a una trentina di chilometri a sud di Kadugli, la capitale della regione e ormai l’unica località controllata dal governo, lo scorso anno aveva circa diecimila abitanti, ma oggi è una città fantasma: la metà rasa al suolo da ripetuti bombardamenti, la scuola costruita due anni fa abbandonata, dopo che le bombe l’hanno mancata per un soffio.
Siamo nel dicembre 2012, e ancora quasi quotidianamente la coraggiosa pattuglia di giornalisti Nuba che pubblicano notizie in rete, usando un collegamento satellitare clandestino, continua giornalmente a fornire la lista dei bombardamenti e delle vittime (www.nubareports.org).
In tutti i Monti Nuba solo alcuni coraggiosi insegnati tengono aperte le scuolette di villaggio, operando in strutture improvvisate e senza libri, cancelleria e lavagne. Le sette scuole secondarie che erano state aperte dopo il 2005 sono chiuse perché sono state i primi bersagli dei bombardamenti. La guerra genera fame. L’attuale conflitto è iniziato proprio quando l’anno scorso stava per arrivare la stagione delle piogge. Le persone si sono rifugiate sulle montagne, riparandosi nelle grotte, e le terre fertili della pianura che erano già state dissodate in preparazione alla semina sono state abbandonate. Adesso in alcune zone già si muore di fame. Yada è l’ultima speranza per la sopravvivenza.
La gente non ne può più di questa guerra. Incredibilmente, però, i giovani non chiedono cibo. “Cosa possiamo fare per aiutarvi”, chiedevo. La risposta quasi unisona era “we want education”, vogliamo la possibilità di studiare. Chi conosce i Nuba sa quanto profonda sia la loro convinzione che l’educazione sia la chiave indispensabile per uscire dall’emarginazione sociale e politica in cui sono stati costretti per secoli. Ma i miei compagni di viaggio, lo scorso aprile, non potevano credere alle loro orecchie. I ragazzi e le ragazze che ci sono venuti intorno a centinaia nei campi profughi di Yda e Paraiang chiedevano soprattutto e solo di poter studiare. Chiedono insegnanti, libri di testo, quaderni. La fame di conoscenza è più profonda della fame di cibo.
Amani sa comunque che l’essenziale in termini di cibo è fornito dalle organizzazioni internazionali come Unchr, Unicef e altri. Ha quindi provveduto, con gli aiuti ricevuti finora, attraverso la campagna Emergenza Nuba ad inviare a Pariang e Yda migliaia di libri e quaderni e sussidi per i professori.
Il diritto e la politica internazionale non riescono ad intervenire. Noi agiamo lasciandoci guidare dal più elementare senso di solidarietà umana, o dalle parole del Vangelo, che ti fanno reputare privilegiato quando puoi condividere la tua vita con quella dei poveri e delle vittime dell’ingiustizia.