Subway_Alessandra Zambetta, Palo del Colle(BA)
_Racconto finalista diciassettesima edizione Premio Energheia 2011.
In tutte le grandi città, si ha la percezione di chi la popola solo dopo aver passato un po’ di tempo in metropolitana.
Alle sette di mattina sono già qui. Occhiali scuri per mascherare lo stato catatonico, la certezza di non aver abbinato i colori giusti nel vestirmi, la borsa che già sposta il mio peso a destra, nella mano sinistra un bicchiere di latte macchiato preso al volo dal bar sotto casa, che sa di cartone, e la merendina presa al distributore automatico. Sì, come colazione è davvero triste, ma al momento mi rappresenta perfettamente, insieme ai miei ricci fuori posto e al mio essere sempre fuori luogo e forse, ormai, anche fuori tempo.
Perché le cose accadono sempre quando non devono, quando hai già altri progetti, altri impegni, altre persone con un posto preciso nella tua vita e tu nella loro e quello che accade serve solo a mescolare tutto, come un mazzo di carte nelle mani di un bambino che, non riuscendo a tenerle, le fa cadere per poi sistemarle infilandole con cura, in punti precisi del mazzo, facendo attenzione a che siano i punti giusti. Ma quei punti sono stati i momenti sbagliati della mia vita.
La scia di un buonissimo profumo che non riconosco mi distrae dai miei pensieri, viene da una signora sulla cinquantina, elegante nel suo tailleur scuro e camicia bianca, borsa firmata e scarpa con tacco ottanta: ha tutta l’aria di essere una donna in carriera, di quelle tanto detestate dagli uomini. La guardo da dietro gli occhiali: stona con la maggior parte della gente intorno a me, è come se per tutti la metropolitana fosse un mondo parallelo dove mostrarsi, come si è in realtà, senza pensare che al capolinea si emerge e il mondo comincia a guardarci.
Come se tutti la mattina prendessero i vestiti dall’armadio senza guardarli o, solo come nel caso della signora e di qualche uomo sulla trentina in abito scuro e ventiquattrore, guardandoli troppo. I ragazzi e le ragazze sono un carnevale di colori e di stili e mette allegria guardarli, certo ad un colloquio di lavoro non verrebbero presi mai sul serio, perché il mondo sopra è più cattivo di quello qua giù. A quest’ora siamo sempre tanti, sicuramente non riuscirò a sedermi, invece ne avrei bisogno, ho dormito poco, come da mesi ormai.
Ecco, anche se dovessi addormentarmi in piedi non c’è rischio di cadere, siamo inscatolati come sardine. Detesto questo forzato contatto fisico, la ragazza al mio fianco ha un profumo dozzinale, che mi urta lo stomaco, e il tipo alle mie spalle credo sia ancora in fase di erezione mattutina, cerco di spostare la borsa tra lui e me, così che ad ogni sobbalzo del treno si trastulli con lei e non col mio fondoschiena. Seconda fermata, me ne mancano cinque; per fortuna scende molta gente, compreso il tipo “eretto”, mi siedo. Mi consola vedere che non solo la mia faccia è un libro aperto sulla disperazione umana, non c’è un sorriso ad illuminare questo vagone maleodorante, con i supporti resi appiccicosi da un infinita serie di mani unte che vi hanno trovato appiglio. La metropolitana è veloce, pratica, ma è sporca, buia, losca, covo di ragazzacci, pronti a derubarti e di barboni in cerca di un giaciglio di notte e di automi senz’anima di giorno.
Davanti a me, una mamma tiene in braccio il figlio che sonnecchia ancora, lo zainetto sulla sue spalle è più grande di lui, una coppia si coccola e lui la guarda, come a dirle “sei il mio mondo”. Ho conosciuto quello sguardo e la sensazione che dà.
Guardarli mi mette tristezza, mi stringe il cuore, e adesso divento cattiva, comincio a pensare male di tutti quelli che vedo: sì, la signora troppo elegante è una prostituta di lusso, la mamma col bambino non è certa di chi sia il padre, e lui la guarda così perché la tradisce da sempre. Posso continuare, ne ho per tutti, abbiamo queste facce stanche, tristi, perché tutti combattiamo col nostro inferno personale, ognuno nel suo cerchio dantesco.
Io dovrei bruciare nel secondo, sbattuta per aria nella bufera infernale: la lussuria è il mio peccato se do ascolto al mondo di sopra; ho solo amato, se invece ascolto il mio cuore.
Capolinea. Incontro tre barboni, due rovistano nei cestini dell’immondizia e uno ancora dorme, sotto una coperta puzzolente di piscio. Li guardo un attimo e non posso pensare male di loro più del male che già vivono, ma mi chiedo cosa, quale scherzo della vita trasformi un uomo in barbone. Amara considerazione, può capitare a chiunque.
Sono fuori: il mondo emerso, rumori di traffico assordante, aria pesante e l’insopportabile puzzo di smog. Spintoni ai semafori, tutti vanno di corsa, nessuno guarda nessuno: vorrei fermarmi al centro della strada, bloccare tutto e urlare.
Sì urlare, chiedere “dove andate tutti di corsa, a fare cosa, che cambia se rallentiamo tutti, se ci parliamo?” Che sta succedendo, perché la mia vita è andata a puttane? Non è colpa mia se quella manina ha infilato la carta al posto sbagliato!
Dovevo andare dal dentista quella mattina, ma la metropolitana scioperava; ho dovuto prendere il tram e ho fatto tardi: il mio turno era passato e dovevo aspettare due ore per un nuovo appuntamento e allora sono andata in libreria. Non è colpa mia se quel giorno lui era libero da scuola e aveva pensato di passare in libreria, non è colpa mia se, davanti a scaffali stracolmi di libri e quell’aria profumata di carta, io perdo il senso del tempo e dello spazio, sfoglio, spizzico pagine qua e là; non è colpa mia se ha cominciato a parlarmi mentre sfogliavo L’amore ai tempi del colera e leggevo qualche poesia di Lorca e Marquez. Non potevo non rispondergli, abbiamo cominciato a scambiarci pareri, opinioni su libri e autori preferiti, a cui seguivano smorfie di disappunto quando non eravamo d’accordo e sorrisi quando i gusti erano gli stessi. Non è colpa mia se dopo cinque ore, in una caffetteria, parlavamo ancora di mostre di grandi pittori, dei loro quadri che ci lasciavano senza fiato, dei viaggi importanti che avremmo voluto fare e di tutto ciò che avremmo voluto sapere, conoscere, leggere e della ovvia considerazione che non ci sarebbe bastata una vita.
Ci eravamo salutati nel pomeriggio, senza scambiarci numeri, sapevamo solo l’ uno il nome dell’altra, eppure eravamo certi che, prima o poi, ci saremmo rivisti.
Ho un fidanzato, ecco cosa mi ripetevo tornando a casa, con la sua voce seria, piacevole, calda, i suoi occhi scuri, allegri e birbanti, i suoi capelli castani, lisci, appena sulle spalle larghe; tutto mi rigirava in testa, ogni parola, ogni risata, ogni smorfia.
Non mi fermo in mezzo alla strada, non blocco il traffico e non urlo tutto questo ma solo ripensarci mi scuote l’anima, fa male, un dolore strano. Cammino a testa bassa, non voglio guardare nessuno e non voglio essere guardata, entro in un bar e dico solo “caffè”.
Stanca, svuotata, svogliata, arrivo in ufficio. Non voglio lavorare, non mi importa dei colleghi; non voglio sentire lo sproloquio mattutino del mio capo, non voglio parlare con i clienti. Sprofondo sulla mia sedia mentre la collega “bambolina di zucchero”, come acidamente la chiamiamo io e il mio collega gay Flavio, mi guarda inorridita e non posso biasimarla. Scarpe da passeggio che devono avere passeggiato tanto, jeans sdrucito e un odioso maglione, in lana rasata, che in tempi passati dev’essere stato color melanzana, neanche un filo di trucco a mascherare le occhiaie e le borse di notti passate a piangere fissando il soffitto, i capelli, neanche a parlarne. Questa sono io oggi, dopo due mesi di nulla, di vuoto assoluto, rivedo i barboni che vagabondano in cerca di cibo tra i rifiuti: che differenza c’è tra me e loro? Hanno perso tutto o forse non hanno mai avuto niente, frugano per mettere insieme un pasto, hanno gli occhi vacui e l’anima scavata. Io ho un lavoro che molte mattine vorrei perdere per non uscire dal letto dove mi distruggo al caldo, avevo un fidanzato che amavo e una famiglia e amici fieri di me e un uomo che in dieci mesi mi ha travolta, amata e lasciata, pur rimanendo sempre con me. Non devo mettere insieme un pasto tra i rifiuti, ma devo rimettere insieme i pezzi di me, cercarli, farli combaciare: ad alcuni, però, manca qualche scheggia e stridono tra loro. Posso mangiare ma non mangio, non ho voglia, ma ho fame, fame di me, della mia vita. Potrei sedermi sul pavimento della metropolitana, avvolgermi in una coperta lercia e puzzolente, parlare con quei barboni e scoprire che ho con loro molte più cose in comune di quante ne abbia con le persone che frequento ogni giorno.
Squilla il telefono, regolo la voce su un tono cordiale ed entusiasta e comincio a lavorare. Puntuale, lo sproloquio del capo e ho già fatto la metà delle cose che non mi chiede, ma che è necessario fare, ma non farò nulla di ciò che mi sta dicendo di fare.
Aspetto la pausa pranzo, solo per ricadere nei miei pensieri, nei miei tormenti: ripenso a Giacomo, al nostro primo incontro, a quando, inaspettatamente mi ha baciata davanti a tutti, alla festa di Claudia. Ripenso a quasi tre anni di vita e ai progetti e rivedo il suo sguardo deluso, arrabbiato, sconvolto, quando gli ho detto di amare un altro. Non l’avevo cercato ma era successo, non ci avevo mai pensato, eppure me l’ero ritrovato davanti e, senza capire, senza volerlo senza saper dire di no, mi ero ritrovata in casa sua, nel suo letto. Era andato via sbattendo la porta senza ascoltare nessuna scusa, nessuna spiegazione: in fondo non esisteva spiegazione plausibile, a parte quella di una manina che aveva infilato con cura quella carta tra me e lui. Mi fa male la testa solo a ricordare le urla di mia madre. Condannata a morte, esiliata, punita, per aver amato due uomini nello stesso momento; sì, perché io non avevo smesso di amare Giacomo ma lui, l’altro, mi aveva travolta facendomi volare, portandomi ad ogni nostro incontro su un’isola lontana, dove amarci non faceva male a nessuno, dove non c’erano regole e promesse di eternità , nè squallore o immoralità, ma solo verità. Ogni giorno sapevamo che non sarebbe durata, che l’addio era dietro l’angolo ma ci divevamo comunque che ne valeva la pena, il dolore di domani per le emozioni di oggi. Eccolo il dolore di domani, è qui da mesi e non si placa, mi trafigge ogni giorno di più, sono stanca di vagabondare nella mia anima, alla ricerca dei pezzi da rimettere insieme. Sono stanca di dover chiedere scusa per aver amato, voglio una coperta lercia e un posto sul pavimento della metropolitana. Flavio mi invita a prendere un caffé, mi conosce da sempre, ha vissuto con me tutto questo e io con lui lo scoprirsi gay e lo sguardo punitivo della gente e del pregiudizio.
Sul divano del bar, accanto al nostro ufficio, poggio la testa sulla spalla di Flavio: io, il mio espressino chiaro con mezza bustina di zucchero, lui caffé macchiato freddo, amaro, non diciamo una parola, ma ci stiamo parlando, ci stiamo ascoltando, ci stiamo dicendo tutto, passa un braccio intorno alle mie spalle, mi stringe forte. Piango.
Torniamo in ufficio, devo far finire anche questa giornata, andare a casa e mettermi a letto, non devo fare altro, solo dormire per non pensare. Piove, la fermata della metropolitana è a cento metri dall’ufficio, cammino piano, odio la pioggia, ma mi piace sentire le goccioline d’acqua che mi pungono il viso. Tutti corrono per non bagnarsi o camminano sotto i balconi, pochi hanno l’ombrello, piove più forte ma continuo a prendere acqua in faccia, ha un sapore strano. Arrivo ai treni grondante, accanto e me uno dei tre barboni che vive lì sotto ormai, sta sistemando la coperta e i giornali, ha una bottiglia d’acqua. Gli altri saranno ancora in giro, in cerca di spiccioli e cibo. Non c’è la signora elegante a cui ho dato ingiustamente della poco di buono, c’è una nuova varietà di gente, molti lavoratori che tornano a casa, molti giovani che vanno in centro, li sento chiacchierare e ridere, mi rendo conto che è venerdì sera.
Prendo dei crackers e una bottiglietta d’acqua al distributore automatico, è la mia cena. Trovo posto accanto ad un signore che legge “Avventure della ragazza cattiva” di Mario Vargas Llosa. L’ho letto mesi fa e ho odiato l’idea che si potesse amare in quel modo malato, senza sapere che stavo leggendo l’amore che avrei provato, quello che, anche quando finisce, rimane con te, perché ogni pensiero, ogni gesto, ogni respiro è per lui e sai che potresti passare tutta la vita ad aspettare di rivederlo, anche solo una volta, per sentire la sua voce, per quello sguardo che ti fa tremare l’anima, per fare l’amore, come solo con lui. Lui che ti tiene il viso tra le mani e ti bacia dolcemente e avidamente e ti sfiora e ti tocca, e ti spoglia baciando ogni centimetro di pelle che scopre, poi rimane a fissarti come fossi la cosa più bella che abbia mai visto e ti prende con quella irrefrenabile passione di chi sa di avere poco tempo per amarti. Le sue labbra si consumano di baci, le sua mani esplorano ogni parte di te, e ti pretende, pretende ogni tuo gemito, ogni tuo umore, lì per tutto il tempo che ci vuole tra le tue cosce, a darti tutto il piacere che può, che vuole, e tu a sentirti stordita, fino a temere di impazzire, di morire.
Poi si ferma e torna a baciarti e senti in quel bacio l’amore più puro, quello che non è fatto di regole, ma di emozioni, di parole e gesti, di sguardi e risate, di esserci l’uno per l’altra, contro tutto e tutti. Poi sei tu ad accoccolarti tra le sue gambe per ricambiare il piacere, scoprendo su di lui il desiderio di te, fino ad amarsi uno dentro l’altra, le bocche vicine a mangiarsi i fiati caldi, le mani strette, le dita incrociate, un unico grande respiro. Lacrime mi rigano il viso, me ne rendo conto solo quando il signore accanto a me mi guarda, sorridendomi dolcemente e porgendomi un fazzoletto di carta. Scendo una fermata prima della mia, voglio camminare, ha smesso di piovere, voglio di nuovo fermarmi per strada ed urlare mentre mi passa accanto una coppia, camminano abbracciati e ridono, si baciano.
Aprire la porta di casa, ultimamente, prevede uno sforzo maggiore. Sarà perché non mangio molto e sono debole, sarà il peso della consapevolezza che dietro quella porta non ci sarà nessuno ad aspettarmi. Non che io e Giacomo vivessimo insieme, ma spesso lui si fermava e i segni del suo passaggio erano evidenti, qualche maglia lasciata su una sedia, lo spazzolino in bagno, biografie di personaggi storici nella libreria in salotto, pantaloni, giacche e qualche camicia nell’armadio, il frigo sempre pieno per preparare le nostre cenette, prima di coccolarci sul divano e poi a letto. Adesso regna un ordine nauseante, niente è fuori posto, eppure, a sentire certi esperti dell’animo umano, la casa riflette chi la abita e io che adesso sono completamente in disordine tengo la casa ordinatissima.
Bene sono un’eccezione, anche per la psicologia. La verità è che ho scoperto che sistemare casa mi occupa la mente e non mi fa pensare ad altro e allora lo faccio in modo maniacale, ossessivo.
Cammino al buio, lungo il corridoio che mi porta in cucina, accendo una luce, bevo un bicchiere d’acqua, cerco una traccia di vita, a parte me, ma non la trovo e sospiro.
Mi spoglio andando verso il bagno segnando il tragitto con i vestiti, il maglione, il reggiseno, i jeans, lo slip e le calze, apro il rubinetto della doccia e lascio che l’acqua bollente mi ustioni la pelle, il vapore riempie in un attimo la stanza, la mente affoga in mille pensieri, lui mi manca. Vorrei addormentarmi sentendomi dire “ti amo troppo”, vorrei svegliarmi col suo sorriso e quel “buongiorno principessa”, vorrei che a metà giornata un sms mi dicesse “ti spoglierei adesso”, ma non posso avere più nulla di tutto questo. Tutto quello che abbiamo avuto l’abbiamo rubato agli altri, ad altre vite e lo scotto da pagare adesso è questo, lui che aspetta un bambino dalla tipa che frequentava da qualche mese, prima di conoscerci, e io qui sotto la doccia, a decidere che fare della mia vita.
Eccola, un’altra notte difficile, senza sonno e senza sogni, un vecchio peluche a farmi compagnia, ad assorbire le mie lacrime e ad attenuare le mie urla quando lo premo sulla bocca, a guardarmi quando sfinita mi addormento.
Alle sei e trenta, il suono della sveglia dà il via ad un’altra giornata insensata, ma è sabato, non devo lavorare, ho scordato di disabilitare la sveglia al cellulare, mi rigiro nel letto, allungo la mano che sa di non trovare nessuno, ma la mia mente ancora insiste, cocciuta, le piace farsi male, farmi male. Solo la leggerezza di un lenzuolo a coprire il mio corpo nudo: ho tenuto l’abitudine di dormire così come lui amava lasciarmi dopo aver fatto l’amore, riporto la mano a me e comincio ad accarezzarmi, come faceva lui per svegliarmi, leggeri i polpastrelli seguivano i tratti del mio viso, si posavano piano sulle palpebre a svegliare i miei occhi e, in un sussurro il suo “buongiorno principessa”.
Un urlo scuote il silenzio della stanza: non sembra il mio, ma l’urlo di un’animale, a cui certi bracconieri stanno strappando le pelle per farne pellicce che indosseranno le signore bene a qualche prima teatrale. L’ultima volta che siamo stati a teatro avevo detto a Giacomo che avrei passato la serata con Flavio, eravamo andati a vedere Il lupo della steppa di H. Hesse.
A fine spettacolo andammo da lui, in macchina. Senza dire una parola ci tenevamo per mano, sorridendo, ma una volta in casa tutte le parole non dette vennero fuori nei gesti, nei baci, nelle carezze, nei respiri affannosi. Mi spinse subito sul letto spogliandomi e spogliandosi, senza smettere di baciarmi, e quando fummo nudi le sue labbra esplorarono tutto il mio corpo, indugiando sul collo, sui seni, intorno all’ombelico, facendomi sussultare, e scendendo lungo le gambe fino alle caviglie, risalendo piano, sentendo e sorridendo dei miei fremiti per quello che sapevo, stava per fare. Sì, sapevo come avrebbe usato le labbra, la lingua e le dita, con quale appassionata dolcezza mi avrebbe accarezzata fino all’anima, godendo di ogni mio gemito e ignorando la mia richiesta di unirsi a me. Aspettava di sentirmi perdere del tutto le forze per fermasi, tornare a baciarmi, lasciando poi, che la mia bocca lo amasse allo stesso modo, finché, certa ormai del suo piacere continuavamo a sfinirci uno dentro l’altra, stretti, sudati ansimanti a bisbigliare i nostri nomi sulle bocche secche.
Addormentandoci.
Chiamo un paio di amiche per andare a bere un caffé e chiacchierare un po’, ma hanno già preso impegni. Sì, certo.
La verità è che ormai mi evitano, tutti hanno fatto squadra intorno a Giacomo, io sono la strega cattiva che ha amato due uomini, mentre loro sante mogli e fidanzate, dalla vita limpida, come l’acqua di sorgente, tutte sorrisi e coccole, ma infelici e insoddisfatte, adagiate in una situazione di comodo sulla quale nessuno potrà dire nulla. Io no, per mia madre sono la vergogna della famiglia, adesso non potrà più uscire serena con le amiche e andare ai pranzi di famiglia che ha sempre detestato, perché tutti parleranno di me e di quello che ho fatto.
Le amiche mi evitano e per le colleghe, esempi di classe ed eleganza, sono il suicidio della femminilità. Flavio, invece c’è sempre, con i nostri lunghi silenzi, fatti di mille parole e abbracci in cui ci perdiamo, ma adesso non mi basta. Mi vesto velocemente, il jeans della sera prima, un maglione nero e le solite scarpe consumate, cammino a piedi. Non sono sicura di avere una meta, a guardarmi sembra che stia fuggendo da qualcosa, da qualcuno, corro. Alcuni isolati e, poi, una stradina poco trafficata, negozietti di altri tempi, dove si trovano oggetti dimenticati e poi, sì eccola, una ferramenta. Entro. Ho solo qualche spicciolo, ma per fortuna sono sufficienti. Saluto, sorridendo la commessa, e ricomincio a correre verso casa.
Sulla parete, lungo il corridoio c’è uno specchio sagomato, colorato da alcune foto, una cassa di legno, regalo di mio nonno sulla quale tengo cuscini colorati e delle candele. Via le foto, lo specchio e la cassa, prendo la bomboletta di spray colorato che ho appena comprato, mi tolgo le scarpe, accendo lo stereo, all’interno un CD con alcuni dei mie brani preferiti, parte Confortably Numb di Roger Waters, chiudo gli occhi, lascio che la musica mi prenda, mi riempia la testa di energia, la sento scendere, mi accarezza gli occhi, quasi la vedo, mi sfiora le labbra, la bacio, è in gola e mi toglie il fiato, la sento sotto pelle possedere ogni fibra di me, mi stringe lo stomaco dal dolore, mi piego in due, scende ancora nelle gambe, nei piedi, barcollo. Senza che sia io a volerlo, la mano che tiene la bomboletta si solleva e l’ indice preme sull’erogatore, sento il rumore dello spray che si libera, il suo odore pungente, apro gli occhi una macchia blu sulla parete, lascio che la mano segua un movimento preciso. Mi rimetto le scarpe, apro una scatola nell’armadio e prendo una busta. Nel primo cassettone dell’immondizia getto le chiavi di casa. Ad una signora anziana che mi viene incontro, i suoi capelli bianchissimi mi abbagliano, lascio il portafogli, dentro dovrebbero esserci duecento euro.
Lei mi guarda perplessa, mi chiama, ma non mi giro. Scendo le scale della metropolitana, il solito puzzo, la solita gente variegata e variopinta e loro, i barboni. Mi avvicino, tiro fuori dalla busta il sacco a pelo, ricordo di decine di nottate sotto le stelle in campeggio, lo sistemo sul pavimento, con i pochi spiccioli che ho in tasca prendo una bottiglia d’acqua e mi sdraio sulla mia coperta. Uno dei barboni mi guarda, si avvicina e si siede accanto a me, piano comincia ad accarezzarmi i capelli, lo lascio fare, so che mi sta parlando, che mi sta chiedendo e io gli sto spiegando. Continua ad accarezzarmi, tanta gente ci passa davanti, ma nessuno ci vede, siamo invisibili. Alzo lo sguardo per guardare il mio nuovo amico, vedo nei suoi occhi lo stesso mio disperato amore, sorridiamo. Sono stanca, voglio dormire, adesso ho il mio posto sul pavimento della metropolitana, non mi cercheranno, non si cerca la vergogna, mamma, amici, parenti, nessuno mi cercherà, e io non ho nulla di dire. Quello che dovevo dire è lì sulla parete del corridoio e non è per voi, è per lui. Chiudo gli occhi e, prima di addormentarmi, rivedo la scritta blu sulla parete “Non trattenerti mai quando vorrai cercarmi” (Pedro Salinas).