Suicidio_Donatella Arcuri, Roma
_Miglior racconto da sceneggiare quarta edizione Premio Energheia_1998.
Una foto d’inizio secolo la ritraeva con un profilo incongruo, e uno strano abbaino irregolare, asimmetrico, il cui senso non è chiaro ai posteri.
Ancora priva della solennità delle versioni successive: forse più prossima al paesaggio povero e polveroso che le fa da contorno, una strada sterrata e fangosa su cui arranca un mulo, carico di legna.
Era poi venuta una prima ricostruzione e la Casa aveva assunto un aspetto più nobile, una fisionomia di palazzotto aristocratico, non privo di qualche ingenuità e dabbenaggine sul prospetto, ma pur sempre di ineguagliabile distinzione, se paragonato alle povere e piccole case e alla “timpa” maleodorante, ai lati della strada che saliva.
Era stato – forse – il suo momento migliore, quello di una perfetta equità tra l’inconsapevolezza e l’orgoglio. Certo, il momento migliore dei suoi abitatori, la prima felice generazione. Nel ricordo – ma il ricordo è vittima di un tempo scontento di sé – nel ricordo della Casa, quell’epoca aveva il sapore dolciastro del chinino, mescolato a quello più aspro della tintura di iodio e del fenolo. Erano gli odori che si spandevano nel grande, solenne ingresso, dall’ambulatorio antimalarico situato al pianterreno, dove il Dottore, di fede socialista e umanitaria, curava gratuitamente contadini induriti e analfabeti. Poco più in là quegli odori si fondevano con i profumi delle grandi cantine: profumo di legno, vino, olio, mosto e sansa, ma anche quello dell’uva fragola e delle sorbe mature, distese a grappoli su sacchi aperti di juta. La Casa fremeva di piacere e di orgoglio al pensiero di quel benessere: sentiva le sue radici espandersi e solidificarsi nella profondità della terra che le apparteneva, e non finiva di stupirsi di se stessa e delle proprie meraviglie innocenti.
Amava i ritmi della famiglia ed i suoi rituali, che erano ancora radici: partecipava con vigore, con tutta la forza dei suoi muri possenti, alla cerimonia serale dello sbarramento del portone, da parte di un giardiniere di cui nessuno ricorda più il nome; era felice di possedere frantoi, lavatoi di pietra, cortili, verande su cui si arrampicavano glicini e rose, una terra feconda ed estesa come lo sguardo dei suoi abitatori, inutili chioschetti d’edera e ben sarchiati uliveti.
Vasta e fortunata appariva la famiglia, salda nel suo possesso e nei doni della sua intelligenza.
Fra tutte le stagioni, la Casa prediligeva l’autunno: l’epopea di gloria che si apriva, per le cantine e i torchi, nella settimana di vendemmia. Nuovi arrivati si muovevano nei cortili, mescolandosi alle facce conosciute di contadini e fattori; i bambini erano in festa e lo era anche la Casa, che sentiva di essere lei pure bambina, incapace di tenere in mano saldamente gli eventuali storici significati di quell’andirivieni.
Fra tutti gli abitatori, la Casa prediligeva la Forestiera, quella alta stravagante signora, che veniva da una qualche città lontana e parlava un incomprensibile e autoritario miscuglio di dialetti diversi, agli uomini come ai tacchini del cortile. Non aveva avuto figli e forse per questo si era mal adattata al resto della famiglia; ma come fossero suoi figli, amava la terra e la Casa, e ne conosceva ogni respiro e vibrazione.
Fra tutti i luoghi, la Casa prediligeva l’antica cucina dalle mattonelle a disegni blu e i fornelli di rame annerito, dove aleggiava – in ogni ora del giorno – un ineguagliabile profumo di latte bollito e biscotti d’anice. Dalla botola della cucina, che serviva per accedere ai soffitti e stanarne i topi di campagna, che da sempre vi dominavano, un’invisibile Befana, faceva piovere, ad ogni Epifania, dolcetti casalinghi sui bambini seduti intorno alla lunga tavola. Con attenzione e puntiglio la Casa coltivava ogni piccola felicità come quella.
Era poi venuta un’epoca più stanca. Per l’insediamento dei nuovi, più giovani abitatori della seconda generazione, la Casa aveva subito mutamenti radicali: una ventata di modernismo ne aveva sconnesso le strutture antiche, divelti e ridisegnati gli spazi, imbastardito i contorni. Ma anche di questo trambusto, che aveva amputato e ricostruito, spesso dissennatamente, e anche diviso, come dopo una guerra sconsiderata, che separa un popolo da se stesso, la Casa era non troppo scontenta.
In fretta si era adattata ai nuovi abitatori, nuovi ritmi e rumori e di nuovo aveva accolto dentro di sé altre storie, altre vite, un altro tempo.
La signora Forestiera se n’era andata dopo una breve malattia terribile, lanciando urla strazianti che avevano riempito di orrore le grandi stanze del piano basso. Dopo la sua morte, tutto era cambiato molto in fretta.
Fra le finestre che guardavano al giardino e la valle che si allargava in fondo, come una regina in esilio, cominciava ad apparire il cemento e a restringersi il profilo dell’orizzonte, quasi un’inesplicabile malattia del cielo. Era ancora visibile il ruscello che scorreva tra la macchia grigia degli ulivi e il piccolo, incoerente, boschetto di pini, davanti alla striscia di mare che diventava blu nei giorni ventosi.
Al di quà della valle – però – nuove case, alcune bellissime, e addirittura delle strade interrompevano lo sguardo. Guardandole dall’alto la Casa notava la loro giovanile energia e non riusciva, in fondo, a biasimare gli abitatori che avevano venduto, ceduto o regalato la terra perché quelle più giovani e forti meraviglie potessero esistere. Non riusciva però a collocare – nel tempo – il momento in cui tutto ciò era cominciato, con quale parte del sacrificio di sé quella nuova storia era entrata nella sua vita. All’inizio – forse – erano spariti i vigneti, sulla sinistra dello stradone, il piccolo pergolato delle merende accanto alle vasche verdognole e melmose del solfato di rame, dove i bambini ramanavano con lunghe canne sottili. Era stato allora? Si chiedeva la Casa. O forse quando il grande uliveto a terrazze, dal quale lo sguardo arrivava dritto al mare, come un raggio, era diventato il giardino di una nuova casa? O quando, separata dal cemento di nuove recinzioni, la presenza segreta dell’acqua, tra i castagni scoscesi, era sparita per sempre? Adesso in quei luoghi, che erano stati in fin dei conti la sua frontiera, la Casa spiava una costruzione nuova e mirabile, come una giovane ed elegante signora che s’insinui inesorabilmente in un matrimonio stanco e lo uccida.
Trafitta senza alcuna arma, la Casa tuttavia resiste. Evita anzi di esplorare – fino in fondo – i confini delle offese che in più punti, ormai, la feriscono.
A volte, e non troppo raramente, addirittura sorride perché sente, in torno a sé, elogiare ancora la sua inimitabile classe e storia. Quella piccola pietosa menzogna le è – in qualche modo – di conforto: e ad essa la Casa si aggrappa per fermare la fredda macchinazione del tempo.
C’è stata una nuova, ultima diaspora. A guardia della Casa è rimasta un’altra Vecchia Signora, ultimo indomito frammento delle generazioni passate.
Come la Casa, anche di lei si direbbe che è sovrana, e insieme ostaggio ed esule dimenticata. La sua vita si fonde col lento cedere, franare e desertificarsi della Casa e col suo effimero – e a volte crudele – rianimarsi estivo. Gli abitatori estivi sono, infatti, un drappello rumoroso di umani e animali, che prendono ciò che la Casa dà e ne consumano voracemente la penombra e frescura. I bambini che vengono da città lontane amano la Casa e la Casa li riama con eguale trasporto: offre nascondigli, rumori segreti, enigmi, promesse di fantasmi e apparizioni, amichevoli e meno, ma anche bisce, rospi, lucertole, topi e soprattutto alberi oscuramente malati, che sono – però – pur sempre alberi e hanno ancora i nomi di un tempo. Inconsapevoli e feroci gli abitatori estivi percorrono la Casa senza vederla, sono dentro i suoi dedali, ma – diversamente dalla Vecchia Signora – possiedono un filo sicuro per uscirne: non le appartengono più. Abitano la sua storia, persino la sua lingua, senza saperlo, e nella Casa depositano tutti i draghi sepolti nella loro mente, come delle piccole discontinuità delle loro anime estive.
La Casa li punisce non ascoltandoli più. Immobile ha già cominciato a fuggire. Iniziano le visite dei possibili acquirenti: tutti trovano disgraziata l’attuale condizione del “palazzo”. Lamentano l’incoerenza dei suoi spazi, la stravaganza delle divisioni, lo stato di abbandono della terra, che hanno tuttavia in mente di coprire con ben studiato cemento, non appena sbrigate le pratiche.
Trovano inutili i suoi teneri artifici architettonici e appassionanti le sue ingenue pacchianerie piccolo-borghesi. Nessuno – in definitiva – può comprare un simile groviglio di contraddizioni; comprerebbe più volentieri il terreno su cui la Casa sorge, non questo ingombrante involucro malato. E vede già nuove “Grandi Occasioni” sorgere là dove le cantine e un pezzo di giardino intricato, mescolano il loro disordine secolare, le loro polveri e ragnatele.
Un mondo nuovo – del resto – preme ormai alle porte, dilaga nei confini della Casa, ne forza gli argini con attacchi proditori e incomprensibili.
I morti ora non si mescolano più – per un’ultima volta – alla vita della strada, offrendo, nei loro lenti passaggi in corteo, di tanto in tanto, una gradevole variazione drammatica al silenzio delle finestre socchiuse. Ora, vengono congedati, un po’ seccamente, per decreto del Parroco, sul sagrato della Chiesa: nuovo moderno costume che si addice a vivi più ricchi, intelligenti e occupati. La “timpa” si è da tempo trasformata in un accettabile luogo di svago, con giardino e panchine dove si realizza un modesto passaggio al futuro, che non ha che se stesso per misurarsi.
Da qualche tempo, oltre la valle, la Casa scorge come degli alti animali ferrosi: le gru – ha sentito dire – di un grande porto adagiato in fondo alla pianura, uno dei più importanti d’Europa.
La striscia incerta e nebbiosa del mare diventa ancora blu nei giorni ventosi, questo sì, ma adesso predice un futuro di bastimenti, viaggi, commerci e affaccendarsi di uomini a cui la Casa non sa più dare un senso.
Da tutto ciò ora vuole congedarsi. Quando prende la decisione – e lo fa in una fredda notte di marzo, in cui tutto scricchiola e geme – la sua anima è ormai lieve. La Casa attraversa un breve sonno agitato, in cui sogna se stessa ai tempi dell’abbaino irregolare, il vecchio Dottore elegante che vorrebbe curare le sue ferite, ma non sa trovarle, e molte altre cose che adesso non ricorda. Sognare è davvero un privilegio, del resto, che la sorte destina a poche case. È un dono – certamente – quale quello di poter decidere da sé come liberarsi del proprio peso.
Ma quello che la casa sceglie è il solo modo di morire consentito a una casa, prima che il passato consumi se stesso, in un irrevocabile rancore.
Perderà con onore, facendo di se stessa una vuota distesa di indecifrabili rovine. Viene giù dolcemente, con lenta determinazione, in una sorta di abbraccio tra mattoni di generazioni diverse e parti lontane e separate del suo corpo.
Incredula la Casa guarda adesso se stessa, divelta, come un grande albero stanco: le sue radici le appaiono ancora forti e familiari, poiché non c’è dubbio che – nel tumulto di polvere e macerie – essa abbia ancora l’assoluta certezza di essere presso di sé, nella sua casa, in cui vive da lunghi anni.
Ha consumato forse una vendetta oppure offerto un ultimo dono? Su questo punto la Casa è incerta e non può pronunciarsi, non essendo più – del resto – una casa, ma un grumo di qualità astratte e concetti imprendibili, come un banco informe di nebbia.
Ci vollero tre giorni perché gli abitatori estivi riuscissero a lasciare le loro case, in città lontane, le loro case difese dagli spifferi da eleganti finestre in alluminio anodizzato.
Nel frattempo, geometri e ingegneri si erano dati da fare con le perizie per interpretare quell’inquietante caso di suicidio edilizio, ma senza venire a capo di nulla. Offesi, gli abitatori estivi avevano pagato un’inutile parcella.
Là dove sorgeva la Casa, c’è – ora – un grande spazio vuoto, un’enorme striscia che si protende verso quell’infinito già da tempo perduto, insomma un luogo. È di nuovo uno spazio giovane e senza passato, che andrà al migliore offerente. In cambio, ed è un cambio vantaggioso nella sua iniquità, la Casa ha portato con sé il tempo, divenuto troppo vecchio, pesante, ineludibile.
Gli abitatori estivi sentono uno strano disagio, quasi una nudità o un’ebbrezza, forse un piccolo dolore, quando sul luogo arrivano, finalmente, le ruspe.