Tremila fahrenheit, Roberta Beccaria_San Pietro Val Lemina(TO)
Finalista Premio letterario Energheia 2023 – sezione giovani
Era come respirare. Guardarsi allo specchio significava viversi. Significava leggere, scorrere le pagine della sua vita. Dolori, sensazioni, ricordi di emozioni, gioia, rabbia, paura. Guardarsi allo specchio era la più alta forma di auto-gratificazione. Vedeva i suoi successi, quante volte si era rialzata dopo una caduta, quante volte aveva toccato il fondo e poi facendosi forza era tornata a scalare le vette più alte, a scalare al di sopra dei suoi limiti, a sorprendersi.
Ma quella mattina lei era immobile davanti a un muro. Si era appena alzata dal letto, i piedi raggrinzivano sul pavimento freddo. Non aveva la sua solita fretta di vivere perciò, prima di cominciare l’ennesima giornata di un inverno agghiacciante, si concesse di perdersi nei suoi pensieri davanti al suo riflesso. Guardava nello specchio e l’immagine riflessa guardava lei, ma da un po’ di tempo non si riconosceva. Era come guardare un’altra persona nell’attesa di una reazione.
Uno, due passi. Al terzo si era ritrovata a un palmo da se stessa. Inclinava la testa, cambiava angolazione per cercare una una parvenza della sua forza, come se cambiando prospettiva d’osservazione potesse ritrovare la scintilla nei suoi occhi. E li fissava. Scavava a fondo senza trovarci niente. Un vuoto annichilente.
Le tapparelle della sua stanza erano ancora basse e lei si stava abituando al buio. Gocce sul vetro, legno che scoppietta nel camino, freddo, odore di pioggia, pagine di libri, mensole piene, persone vuote, il mare, cos’è che diceva Platone?, occhi, smorfie, sogni. È strano come tutto ciò possa essere frutto di collegamenti, concetti legati l’uno all’altro da una mente capace, abile, che gioca a mettersi in difficoltà. Un improvviso flusso di coscienza -in realtà meditato e non abbandonato alla grinfie della casualità- l’aveva distratta da se stessa. Tornò bruscamente alla realtà abbandonandosi nuovamente al suo riflesso. Questa volta però era diverso. Il vibrare frenetico di una goccia sul vetro della stanza l’aveva distratta e l’aveva fatta precipitare nel vorticoso luogo della mente che ospita pensieri anormalmente semplici per dedicargli lunghe riflessioni. Era tornata da quel buco nero facendo irruzione nel mondo degli specchi. Questa volta il riflesso la raffigurava a braccetto con l’apatia.
E di nuovo: uno, due, tre passi. Si allontanò da se stessa. Niente più Platone, niente più mare, occhi, smorfie, sogni. Tutto sprofondato nell’indifferenza più totale. Non voleva più guardarsi dentro e tantomeno cercare vita nei suoi occhi. Niente più pensieri.
Quattro, cinque, sei passi. Si sedette sul letto con lo sguardo perso e il timore inconscio di tornare in piedi davanti al suo riflesso. E poi ancora: sei, cinque, quattro passi per avvicinarsi allo specchio ma senza più cercarsi tra i contorni rosati di quell’oggetto malefico. Il pavimento scricchiolava sotto i passi che misuravano la stanza freneticamente, come se ci fosse una qualche fretta alle calcagna, che ti rincorre silenziosamente, in modo così astratto da farti sentire pazzo a scappare. Scappare da cosa? Questo pensava voltandosi continuamente indietro per cercare qualcuno nella stanza vuota. Camminava e cercava una presenza. Ma c’era solo il letto disfatto e le coperte bianche; candele, vestiti, la scrivania, la sedia coi cuscini rivestiti in cuoio e la sua ombra.
Uscì di casa. Niente più la turbava e quindi niente più la rendeva viva. Assenza totale di emozioni.
Incontrava gente, sorrideva, muoveva ogni singolo muscolo del suo volto con maestria per fingere qualsiasi tipo di emozione. Ma dentro di lei c’era una caverna vuota dove rimbombavano gli eco delle emozioni che continuava inconsapevolmente a inghiottire senza possibilità d’espressione. Il suo stomaco era diventato una discarica di sentimenti. Camminava tra la gente come se fosse immune agli sguardi, alle parole. Non era fierezza, era uno scudo costruito dal dolore. E lei lo portava a testa alta, sotto gli occhi di tutti. Era immune. Ma è inevitabile che il fuoco sciolga il ghiaccio.
Incendio. Fuochi, lampi, tuoni. L’avrebbe riconosciuto ovunque. Era inconfondibile. Uno, due, tre passi. Ora era lo specchio che si avvicinava a lei. Lo vide arrivare da lontano. Quattro, cinque, sei. A un palmo dai suoi occhi scuri. “Allora? Com’è?”. Il tempo si fermò, tutto era appeso alle sue parole. “Bene”, rispose lei con espressione visibilmente turbata. Lui la conosceva così bene che quelle sue parole le erano sembrate quasi un’accusa, come se fosse stata smascherata. La scossa che le provocò fu della violenza di un pianto, di un pugno nel muro. Rimase immobile dopo aver risposto. Per un attimo, un impercettibile secondo si era dimenticata di chi aveva accanto, di chi aveva accanto lui, del fatto che il sole fosse coperto dalle nuvole, dell’espressione che portava in viso. Era tutto sparito. Le si sciolse il cuore appena riprese coscienza. Tutto d’un tratto sentì tutti gli occhi fissi su di lei. Arrossì e improvvisamente la sua gonna le sembrò troppo corta, si accorse dei capelli selvaggi, si preoccupò di non avere le occhiaie e si chiese se per lui fosse ancora bella. Lo guardava, voleva entrargli negli occhi ma allo stesso tempo abbassare la testa per l’imbarazzo. Ma quei due continuavano a fare scintille silenziose attraverso i loro sguardi. Era di nuovo davanti allo specchio. Non aveva più paura di quello che vedeva, si arrese al suo riflesso e sentì il corpo lievitare. Specchiarsi in quei due occhi nocciola la riportò alla vita. I raggi del sole non le passavano più attraverso ma la penetravano e rimanevano dentro di lei per fare luce. Si sentiva accarezzare dolcemente e allo stesso scuotere violentemente. Tremila fahrenheit: la temperatura a cui brucia un cuore.
Il tempo scorreva, scivolava tra le dita. Ne passò così tanto che chi era lì, con loro, come fosse lo spettatore di quell’amore silenzioso, vide il cielo impallidire e poi farsi rosso al tramonto fino a coprire la città di un velo scuro. Il tempo passato con lui era sempre stato salvezza, anche dopo mesi e mesi senza alcun contatto le aveva ridato i colori e la capacità di dipingere l’animo umano come aveva sempre fatto, le aveva restituito un’immagine pura di se stessa, le aveva alleggerito la mente e messo le ali per volare su nuovi inizi.
Arrivò il momento di tornare a casa. Si lanciarono un ultimo sguardo e i loro occhi si fusero un’ultima volta. Riconobbe se stessa. “Sei lo specchio della mia anima”, gli sussurrò all’orecchio. E senza dire altro si allontanò.