Tutto quello che so di te, Alessandra Ricci_Genova
Finalista Premio letterario Energheia 2023 – Sezione adulti
Menzione Premio Energheia 2023
È il 12 settembre 1944. Una notte insolitamente fredda per la stagione, con un vento di tramontana che taglia la faccia e geme sinistro, monito dell’autunno alle porte. Il coprifuoco è scattato da un pezzo, pochi i lampioni che gettano una luce debole e incerta sulle vie deserte e silenziose. Ma lì, sotto i portici, c’è qualcuno; Cesare e Piero, diciassette anni o poco più, stanno scrivendo parole inneggianti alla libertà sulla facciata di un vecchio palazzo. I loro vestiti sono poveri ma decorosi, le scarpe logore e pesanti. Piero tiene in mano una latta di vernice rossa, dove Cesare intinge il pennello, che poi stende sul muro, a formare le lettere; a un certo punto, però, si ferma, ha sentito qualcosa.
Voci, e dei passi; un fascio di luce volteggia tra le arcate dei portici e infine li illumina. Lo sguardo che Cesare e Piero si scambiano è un istante; poi gettano a terra la latta e il pennello e scappano, Piero in una direzione, Cesare nell’altra.
Corre Cesare, il cuore che gli percuote il petto, gli occhi a cercare una via di fuga, o un nascondiglio, i passi incalzanti dietro di lui come cani rabbiosi. E poi, girato l’angolo, ecco: un portone, con la serratura rotta, sbatte, colpito dal vento. E’ l’istinto, Cesare entra.
Quel cassetto non doveva essere aperto. Mai, a nessun costo.
D’estate, trascorrevamo il periodo in cui papà era in ferie nella cascina della nonna, nell’astigiano. La cascina, una costruzione antica, non era nel centro del paese, se così si poteva chiamare l’agglomerato di poche decine di abitazioni, la chiesa, l’ufficio postale e l’immancabile emporio che lo costituivano; era invece in prossimità di una valle dove prosperavano i noccioli. Qualche gradino di pietra, un cancelletto e un’aia spaziosa introducevano all’ingresso della cascina: una porta centrale e due laterali; a sinistra l’abitazione della nonna, a destra quella di una delle sue sorelle, una donna minuscola e adorabile, e del marito, un uomo gretto e ombroso, dall’aspetto ripugnante.
La nonna era burbera, sbrigativa, e mi rimproverava spesso. Non bisognava correre dietro alle galline nell’aia, e io lo facevo; non si poteva fare chiasso quando papà andava a riposare, dopo pranzo, e io lo facevo; non si doveva stare scomposti a tavola, e io lo facevo. Ma il divieto assoluto era aprire il cassetto del comò che era al piano di sopra, vicino a una delle due camere da letto. Quello no, non lo facevo.
Certo, mi attirava, e mi tentava. Un pomeriggio – gli adulti erano impegnati a fare non so cosa e non badavano a me – salii la scala che portava al piano di sopra e mi avvicinai al comò. Rimasi lì, davanti al cassetto, un raggio del sole pomeridiano che lo illuminava come uno scrigno in una grotta. Non riuscivo a decidermi, divisa tra il desiderio e la paura di scoprire il segreto che racchiudeva.
Poi, da basso, la voce imperiosa della nonna che mi chiamava ruppe l’incantesimo. Corsi giù, il cuore che mi batteva forte; la nonna mi vide, non disse nulla, ma bastò il suo sguardo: Non farlo più, non ci provare nemmeno, sembrava dirmi.
Era un ammonimento, ma anche una supplica, solo che questo, allora, non potevo saperlo.
Erano ben poche, del resto, le cose che sapevo della nonna; solo qualche frammento rubato ai discorsi degli adulti che, non appena si accorgevano della mia presenza, si zittivano.
Del suo grande amore per il nonno -lei, appena ragazza, figlia di contadini, lui, un uomo fatto, colto e di nobili origini – e del prezzo che pagarono per la loro unione, mai ratificata dal matrimonio – disprezzata e coperta di vergogna lei, ripudiato e diseredato lui – non potevo sapere; del loro esilio e della miseria in cui crebbero i loro cinque figli – tre dei quali videro morire – non sapevo. E solo molto tempo dopo, quando vidi ciò che quel cassetto del comò custodiva, seppi qual’ era la disgrazia che non si poteva nominare, e mai evocare.
Niente sapevo, ero soltanto una bambina; ma la sofferenza della nonna, quella sì, la percepivo: nei suoi occhi celesti e insondabili, nel suo incedere malfermo, nelle sue mani nodose e stanche che sgranavano il rosario, quando, seduta sulla sua ottomana, pregava sottovoce. Per quanto mi sforzi, non ricordo di averla mai vista sorridere.
“I compagni socialisti di Sestri Ponente ricordano l’olocausto di Cesare Ricci, studente diciassettenne, ucciso dai fascisti.”
Sono qui, davanti alla tua lapide, una lastra di marmo ingrigita dal tempo, con una crepa profonda che la attraversa diagonalmente.
Cosa successe quando entrasti in quel portone? Forse ti acquattasti nella penombra, sperando che non ti avessero visto entrare, o percorresti le scale a perdifiato per raggiungere l’ultimo piano, pensando di fuggire attraverso i tetti; e battesti le porte, una dopo l’altra, chiedendo un aiuto che non venne. Ancora: non so.
Quello che è certo è che quell’androne fu l’ultima cosa che ti fu dato vedere, prima che ti falciasse una sventagliata di mitra. E che il tuo corpo fu gettato nelle fosse comuni, dove la nonna ti trovò.
Era sola, la nonna, di fronte a quello strazio; sì, perché, dopo averti ammazzato, andarono a casa tua, misero tutto a soqquadro e, davanti ai nonni attoniti, trovarono i fucili che avevi nascosto. Poi presero il nonno e tuo fratello – l’altro, mio padre, era al fronte – e li portarono via.
Quando tornarono, non dissero cosa gli fecero, e lei, la nonna, non lo chiese mai.
E questo è tutto, o quasi.
Molti anni dopo la fine della guerra, quando il nonno morì, la nonna tornò al suo paese d’origine e si stabilì nella cascina di famiglia, dove finì i suoi giorni.
Non mi parlò mai di te – credo non lo facesse con nessuno, se non, forse, con Dio – e tanto meno mi svelò cosa serbava gelosamente nel cassetto del comò. Ma quel brandello della tua camicia inzuppata di sangue io l’ho visto.
Era questo il segreto della nonna: la tua reliquia.
Sono davanti alla tua lapide; ho sessantadue anni, un’età che tu non avrai mai. Non sono stata, bambina, seduta sulle tue ginocchia a farmi raccontare una storia, non ho mai accarezzato le tue guance dalla barba incolta, ne’ ho visto ingrigire i tuoi capelli. Eppure, in un modo che non so spiegare, ho memoria di te. Ti sento.
I tuoi compagni ti hanno ricordato con una lapide, io ti ricordo così, con le mie parole.
Ciao, Cesare.