Ulf Peter Hallberg: Se l’Unione non metterà al centro la cultura, dovremo fondare le Città Unite d’Europa
di Nicola Baroni
Intervista all’autore svedese che con il libro “Trash Europeo” ha celebrato l’arte del Continente. Da Gina Lollobrigida a Baudelaire, da Greta Garbo a Pessoa. Vorrebbe «Claudio Magris ministro degli Esteri, Annie Ernaux presidente e invitare Barack Obama come europeo onorario»
Ogni lunedì Europea vi porta alla scoperta dei più originali scrittori di successo in Europa, ma poco conosciuti in Italia.
«La vera stella del cinema è la risposta degli dei a ogni cattiveria e a ogni sopruso. Gina Lollobrigida mi diceva che esiste un altro mondo, che la bellezza e l’arte esistono… e che tutto questo avveniva in un paese da sogno, l’Italia, nella lingua più bella del mondo. Gina Lollobrigida era la promessa della felicità», scrive Ulf Peter Hallberg in “Trash Europeo”.
Il padre dello scrittore era un collezionista: ha passato la vita a raccogliere e catalogare oggetti, annotare appunti esistenziali, ritagliare articoli di giornale, leggere, acquistare stampe e opere d’arte o di artigianato, tutte di valore modesto ma per lui inestimabile. Il suo orizzonte di riferimento era la cultura europea.
«Un mondo parallelo che per mio padre era solido quanto il mondo reale, se non di più. E poi cos’è il mondo reale davanti all’annientamento?», scrive Hallberg, che in maniera provocatoria ha chiamato il patrimonio culturale e valoriale del Continente “trash europeo”.
«Il nome nasce da una conversazione che udii negli Stati Uniti, su una panchina di Central Park», spiega. «Una donna parlava a suo marito dell’Europa, di Platone, Shakespeare, Joyce, mentre lui osservava il suo iPhone. A un certo punto lei disse: “A proposito, c’è una super-mostra di impressionisti francesi al MoMA, ti va?”. L’uomo alzò lo sguardo: “Lo sai che non sopporto il trash europeo”». Ciò che per quell’uomo – e per i più – è spazzatura, per il padre dell’autore era l’unica cosa per cui valesse la pena spendersi, e così oggi per lui.
“Trash Europeo” – pubblicato in Svezia nel 2009, uscito in Italia nel 2013 per Iperborea (traduzione di Massimo Ciaravolo), oggi più attuale che mai – è una dichiarazione d’amore per il padre scomparso e insieme un inno alla cultura europea che lui venerava e custodiva. Dal cinema neorealista italiano e l’amata Gina Lollobrigida a Baudelaire, da Greta Garbo a Pessoa. La memorialistica e la scrittura autobiografica si alternano a quella di viaggio, la fiction alla saggistica: una narrazione di frammenti tanto postmoderna nella forma quanto lontana dal relativismo e dalle incertezze valoriali del contemporaneo nei contenuti.
Dopo “Trash Europeo” continua a credere che l’arte sia “rispetto” e “santità”, l’unico strumento di resistenza contro la disgregazione e il vuoto?
Certo. La grande arte crea rispetto perché mostra più di quanto un singolo individuo possa capire. La santità delle opere d’arte è per me tutta la loro energia, la quantità di possibilità che possono creare nelle nostre anime: attraverso di loro la nostra vita può essere cambiata, salvata e portata a livelli di grandezza che vanno ben oltre il loro creatore.
Attualmente l’attenzione del mondo è concentrata su tutt’altro: trovare un vaccino al virus, risollevare l’economia. L’arte al massimo entra nei discorsi sulle stime delle perdite dei musei, delle difficoltà dei teatri o delle case editrici.
Proprio oggi ho parlato con il libro di racconti di Lucia Berlin “A Manual for Cleaning Women” [“La donna che scriveva racconti”, Bollati Boringhieri], che era sul mio tavolo da cucina. Ho detto alla sua foto in copertina: “È tutto un caos, ma almeno tu mi capisci!”. E ho sentito che annuiva. Lucia Berlin, grazie al modo in cui racconta e mostra di comprendere le storie delle persone, mi permette di affrontare questo terribile periodo del virus. C’è un tale rispetto e una tale bellezza in questo. L’arte mette insieme ciò che non esiste. E penso che un artista dovrebbe innanzitutto aggiustare, riparare. È come se Lucia stesse creando qualcosa di bello anche dal peggio. Non c’è totalità ma dobbiamo crearla: è questo il messaggio che ricevo dall’arte».
Dal 1983 vive a Berlino, dove si è trasferito a trent’anni, ma è nato a Malmö, la città svedese affacciata sul canale Öresund, di fronte a Copenaghen. Che aspetto aveva da là l’Europa?
Da bambino per me l’Europa era la bellezza di Copenaghen. Poi, guardando le foto dell’Italia, ho iniziato a chiamare Copenaghen “Firenze”. Rappresentava tutto ciò che era diverso e misterioso, il contrario della mia città natale, che definiva i suoi valori solo attraverso se stessa e guardava tutto il resto con grande sospetto. Quando Jurij Gagarin visitò la nostra città nessuno poteva credere a quello che aveva fatto, perché a Malmö tutto allora era misurato con parametri domestici. “Quel piccolo nano è stato nello Spazio?”, dicevano.
Quando l’Europa è diventata qualcosa di più concreto?
Già a due anni, quando per caso ho imparato il tedesco e mi sono reso conto che la libertà e la complessità della parola “Europa” avevano a che fare con i suoni delle diverse lingue. Ne ho sentito parlare per la prima volta perché la mia tata “Oma” veniva da Lubecca. La Germania per noi negli anni Cinquanta significava guerra, e “Oma” ci raccontò della guerra e del suo lavoro nelle fabbriche di armi. Parlava solo tedesco e la sera leggeva a me e mia sorella i racconti dei fratelli Grimm: io sentivo che in quella nuova lingua era nascosta la bellezza di qualcos’altro. Potevo lentamente scegliere quest’altro idioma per esprimere ciò che volevo. Ho sentito questa nuova possibilità come la felicità e la libertà: un nuovo terreno di gioco per esprimere chi fossi. La nuova lingua aveva aperto nuove categorie e in essa c’era posto anche per un altro me stesso.
In “Trash Europeo” celebra la cultura europea e i suoi valori. In “Calcio rubato” racconta l’Italia del calcio e degli anni Novanta. La cultura europea nei suoi libri è sempre caratterizzata da una certa aria di famiglia che attraversa le culture nazionali. Crede che l’Unione politica abbia facilitato o ostacolato questa comunanza culturale?
L’Unione europea, proprio come molti dei suoi stati nazionali, ha perso il contatto con la cultura e si è definita solo sul piano economico. La cultura è ancora vista alla stregua di una vernice dorata applicata su vecchi muri, mentre in realtà è energia, sviluppo di persone, anime, attività che possono far prosperare la vita. L’Europa, grazie a Socrate, Dante, Dickens, Proust, Pessoa, Benjamin, Virginia Woolf, Claudio Magris (a cui sono molto legato), Annie Ernaux e tanti altri, avrebbe la forza creativa per cambiare il mondo. La cultura e la creatività di questi artisti è legata alla generosità, a un sistema di valori alternativo a quello del potere politico o dell’economia. Ma una soluzione anche politica e pratica ce l’avrei.
Sarebbe a dire?
Se l’Unione continuasse a fallire nella cultura, penso che dovremmo creare le Città Unite d’Europa, con Claudio Magris come ministro degli Esteri e Annie Ernaux presidente. E poi invitare Barack Obama come europeo onorario. In Germania vorrei il drammaturgo Roland Schimmelpfennig come Cancelliere. Mi sembra assurdo che un tale numero di politici oggi sembri non sapere nulla della vita e dell’arte: parlano come scienziati di laboratorio che conducano test sui topi, badando solo a cifre e statistiche.
Crede più ai sindaci che ai capi di Stato?
Sì, lascerei che fossero loro a gestire l’Unione: i sindaci devono scavare nella realtà, conoscere la loro città, escogitare visioni e talvolta arrivano dal di fuori delle gamme di aspiranti burocrati, come Anne Hidalgo a Parigi. Non è difficile giudicare se un sindaco ha amministrato bene o meno: in Europa tutti possono capire se le persone hanno un cuore o no, questa è una qualità intrinsecamente europea, che fa sicuramente parte del “Trash Europeo”.
Si spieghi meglio: cosa non apparterrebbe alla cultura europea quindi?
La totale mancanza di sentimenti ed empatia di Trump per esempio. Penso Trump faccia rabbrividire molti di noi perché è il peggio del Trash Americano. Il Trash Americano oggi ha l’aspetto del decadimento delle città statunitensi, meravigliose ma piene di ingiustizia: persone senza assicurazione sanitaria, immondizia, tossicodipendenti, sparatorie, persone costrette a lasciare i centri per far posto ai ricchi. Trump mi fa pensare a Voldemort ogni volta che marcia verso una limousine o l’Air Force One. I suoi capelli sembrano bruciare più che essere mossi dal vento, e la sua sagoma è vaga: giacca e ventre sembrano traballare. Chiederei a Harry Potter di farlo sparire nelle fogne, la Cloaca Maxima Americana, che immagino si trovi proprio sotto la Trump Tower. In questo modo la Gran Bretagna potrebbe riguadagnarsi il rispetto del mondo.
Ora che vive a Berlino da trentasette anni si sente più tedesco o svedese?
In realtà non mi sembra neppure di vivere in Germania: vivo a Berlino. Non mi sento molto tedesco a causa della mia ingenua franchezza, che qui è spesso giudicata stupida o falsa. Credo tuttavia che chiunque si opponga alla franchezza e alla sincerità – questo misterioso impulso a dire sempre la verità anche a uno sconosciuto – perda molto nella vita. A volte qui le persone nelle conversazioni sembrano mordere come cani, ma questo senso dell’umorismo duro e affilato viene dal cuore. Si impara presto a capirlo. Quanto al mio senso di appartenenza, sento di appartenere alla vecchia Grecia, al Rinascimento, alla Dublino di Joyce o al gruppo di Bloomsbury. Anche se la mia patria sembra la Svezia, sento di appartenere a qualcosa d’altro che a una nazione. Credo più alle città che ai Paesi.
Quelle città in cui cammina il flâneur, centrale nel suo immaginario e protagonista del suo “Sguardo del flâneur”. George Steiner disse che le destinazioni e le città in Europa sono tutte raggiungibili a piedi. E sempre lui individuava tra i tratti distintivi della cultura europea la consapevolezza della morte, che è un tema anche dei suoi libri.
Oggi la morte è la categoria più repressa, anche in questo momento, in cui muoiono più persone di prima. Stiamo scappando dal suo pensiero facendo jogging, andando in bicicletta, correndo su auto veloci. Se desideriamo conquistare il tempo della nostra vita, dobbiamo ammettere non solo il pensiero della morte, ma anche accettarla come compagna di vita. Non è facile, ma è quello che l’arte può insegnarci. E non dimentichiamo che la memoria può battere la morte nel modo più bello. La culturale europea in questo senso è un prolungamento della memoria e della fantasia, che ci mostra un’Europa esistenziale, guidata da un nuovo tipo di cosmopolitismo. Tutti abbiamo qualcosa da difendere qui: l’essere umano, la democrazia, il nostro linguaggio, i diritti e i valori, la franchezza, il diritto di parlare e criticare. Tentare di preservare questo è l’essenza dell’Europa dei sogni. Questa Europa è un luogo da cui occasionalmente ci allontaniamo, ma anche quello in cui tutti cerchiamo di tornare, per salvare Penelope e sbarazzarci dei pretendenti.