Un amaro destino_Stephen Amin
_Racconto finalista seconda/terza edizione Premio Energheia Africa Teller.
Traduzione a cura di Mariella Vaccaro
Le rade colline delineano un grazioso quadro ed un magnifico esempio
di arte che mostra sia la creatività che la generosità del Signore. Le vallate,
gli alberi, i cespugli e i paesaggi costituiscono uno scenario bellissimo
che raffigura un quadro indimenticabile. La bellezza della terra
è il dono offerto da Dio al popolo Nuba. Questa terra, con il suo ricco
ambiente, ha formato la cultura e le arti dei Nuba.
Nelle stagioni delle piogge, il profumo dei fiori selvatici riempie l’aria
dandole l’inconfondibile aroma di una campagna lussureggiante. Le sinfonie
degli uccelli risuonano nelle orecchie ad ogni inizio di estate. I solitari
ne traggono conforto, i musicisti melodie e gli artisti ispirazione: è
un paradiso. Nonostante ciò, malgrado la generosità del Signore all’atto
della creazione, questo ambiente ampio e bellissimo è condannato al
nulla. Gli uccelli non riescono più a ricordare le loro sinfonie melodiose.
Gli unici suoni che prevalgono sono gemiti e lamenti. Il paradiso è
perduto: ne consegue un esodo massiccio, dove ognuno diventa Mosè.
La terra promessa è una volontà collettiva, ma allo stesso tempo una destinazione
personale di chi non ha ricevuto nessuna promessa di un’alleanza
ma solo la speranza, in nome di una promessa di maggiore sopravvivenza,
fuori dai detriti sociali della crudeltà e dell’avidità umana.
C’è una stradina stretta e polverosa, dalla superficie sconnessa che rende
spiacevole il percorso soprattutto se si è a piedi nudi. Bisogna continuamente
fare attenzione ad evitare pietre, spine e le piccole sporgenze
irritanti che continuamente deformano la superficie della strada distruggendo
il lavoro fatto dall’uomo. Non ci sono tracce che indichino
che la strada è in uso. Nonostante ciò, resta un miracolo il fatto stesso
che essa attraversi la boscaglia.
Quel giorno gli unici a percorrere quella strada erano tre adolescenti a
piedi nudi, Kumi, Kacho e Kallo. Avevano parecchi motivi per essere
preoccupati, perché stavano oltrepassando disarmati il confine della zona
di guerra. Dopo anni di isolamento nella zona dei ribelli sui monti
Nuba, avevano deciso che era il momento di intrufolarsi dall’altra parte
delle montagne. Ognuno di loro era immerso nei propri pensieri e si
chiedeva cosa sarebbe successo al villaggio da cui erano fuggiti.
Erano partiti nel cuore della notte pregando di non essere catturati dalle
truppe che, nel tentativo di contrastare un attacco da parte dei ribelli,
rastrellavano la strada che conduce alla città di Kadugli. Nessuno dei
tre aveva detto alla propria famiglia ciò che aveva intenzione di fare al
calare della notte. Così, ognuno di loro continuava a cercare di immaginare
la reazione che ci sarebbe stata nel villaggio di Kujur, che avevano
lasciato da sette ore.
Avevano lasciato le proprie famiglie all’oscuro del loro viaggio. Temevano
la reazione che avrebbero avuto nello scoprire la loro misteriosa
scomparsa. “…Sicuramente sapranno dove siamo diretti”, mormorò
Kacho. “E’troppo tardi perché possano seguire le nostre tracce, chi pensi
possa mai sapere quale strada stiamo percorrendo?”, disse Kallo.
“…Non sai che possono mandare messaggi via radio ai villaggi sul nostro
percorso per fermarci?”, si lamentò Kacho. “…Credi che siamo così
stupidi? Non attraverseremo nessun villaggio finché non raggiungeremo
la nostra destinazione. Non abbiamo bisogno di cibo né di acqua:
grazie alle piogge abbiamo tutto ciò che ci serve per sopravvivere: acqua,
animali selvatici e piante”, disse Kallo. “Comunque dovremmo arrivare
entro un paio di giorni se riusciamo a camminare sia di giorno
che di notte”, disse Kumi, che era profondamente assorto nei suoi pensieri
ma allo stesso tempo molto attento alla conversazione in corso.
L’animo di Kumi era contemporaneamente in due luoghi: pensava al passato
che aveva lasciato e al futuro a cui andava incontro. Nei suoi pensieri
faceva uno sforzo per riconciliarli. Faceva molta fatica a capire se
il passato che aveva lasciato conteneva in sé il suo futuro o se invece il
futuro a cui andava incontro lo avrebbe riportato indietro al suo passato.
Sorrise e continuò a pensare quanto sarebbe rimasta delusa la sua fidanzata
Kachiri nel momento in cui avrebbe saputo del suo viaggio verso
il Nord. Comunque, gliene aveva parlato e, dopo tutto, quando sarebbe
tornato le avrebbe portato tutto ciò che lei sognava: un vestito
colorato, scarpe di gomma bianche, smalto rosso e tantissime gomme
da masticare! Cos’altro avrebbe potuto dire quando lo avrebbe rivisto,
con indosso jeans, occhiali da sole e una camicia colorata infilata nei
jeans, più bello che mai. Cosa avrebbero mai potuto dire suo padre e i
suoi zii quando lo avrebbero visto ascoltare la sua radio tutte le sere.
“…dopo tutto ritornerò…”, sorrise Kumi consolandosi.
Sebbene avesse lasciato Kujur un giorno prima, sentiva ancora nostalgia.
Non riusciva a dimenticare i giorni più felici che aveva trascorso lì. Ricordava
le stagioni delle piogge e le sere in cui andava sulla cima della
montagna per godere della vista del villaggio di Kauda che sorgeva tra montagne
gigantesche come un importante re sorvegliato da potenti giganti.
Di mattina correva verso est con le braccia magre aperte per cercare di contenere
i raggi dorati che sembravano abbracciare la cima delle montagne.
La stagione delle piogge arrivava con un tappeto verde che si distendeva
sull’intera pianura. Kumi preferiva l’autunno. Era quello il periodo in cui
aveva molto tempo per giocare, quando tutti i giovani si accampavano nelle
pianure selvagge per badare al bestiame. L’autunno portava ai bambini
di Kujur molti divertimenti e cibo e latte in abbondanza. Di sera si allenavano
nella lotta e il vincitore riceveva in premio la mano della fanciulla più
bella. Grazie alla sua ultima vittoria Kumi aveva vinto il cuore di Kachiri.
***
Kumi aveva sedici anni ed era il quarto figlio di sua madre. Nella sua famiglia
erano ventitre. Suo padre aveva quattro mogli; sua madre Guchinde
era la più anziana. Suo fratello maggiore, Kuku, era morto in guerra. Sua
sorella maggiore, la secondogenita, era scappata a Kadugli con il fidanzato,
dopo che il padre di Kumi aveva litigato con Kaffi per la dote.
Sua sorella Keni non era riuscita a trovare altra soluzione che scappare
in un luogo in cui la mano di suo padre non li avrebbe raggiunti. Il marito
di Keni era un grande lavoratore, però i soldati del governo, che regolarmente
irrompevano nel loro villaggio per cercare di privarli di cibo,
avevano rubato tutto il suo bestiame.
Quando Kaffi incontrò i genitori di Keni per definire la dote, tutto il suo
bestiame era stato rubato, il raccolto dell’ultima stagione delle piogge
era andato distrutto per un incendio e i suoi genitori erano stati rapiti e
portati al “campo di pace”. Le notizie che Kaffi riceveva da lì erano terribili:
una persona che era scappata dal campo gli aveva riferito che i suoi
genitori non erano più insieme. Sua madre era stata violentata e presa
come concubina da uno dei soldati. Si diceva che suo padre lavorasse
nel campo dei soldati per guadagnare un pugno di sorgo per sopravvivere.
Tutto questo successe quando Kaffi aveva quindici anni. Egli spiegò tutto
al suo futuro suocero ma invano. Il padre di Keni fu inflessibile: insistette
nel pretendere come dote sei mucche, tre capre e trenta ciotole
di sorgo. Kaffi lavorò per tre anni ma non riuscì a racimolare più di due
mucche e una capra. Il padre di Kumi aveva intenzione di far sposare
Keni con un altro giovane più ricco e così a Keni e Kaffi non rimase altro
da fare che fuggire il più lontano possibile. Scapparono a Kadugli.
Kumi pensava fra sé che sicuramente Keni e Kaffi avevano percorso quella
stessa strada. Ricordava molto bene il momento in cui suo padre aveva
saputo della fuga di Keni e Kaffi: era impazzito e malediceva tutti.
***
Kumi non era preoccupato della reazione di suo padre. Era già fuggito
un’altra volta per andare al campo profughi di Kakuma, nel nord del Ke-
nia. Ma era stato molto duro per lui sopravvivere con il cibo fornito dalle
autorità del campo. Quella volta era andato a Kakuma in cerca di pascoli
più verdi e di istruzione. L’immagine di Kakuma che si era costruito
nella mente durante il viaggio aereo di tre ore corrispondeva ad una enorme
città simile a quelle che aveva visto nel suo libro di inglese. Una città
dove si trovava ogni tipo di cibo conosciuto e persino non ancora conosciuto.
Aveva immaginato il campo profughi di Kakuma come una
città di sogno, in cui manna e quaglie scendevano dal cielo ad ogni batter
d’occhi. Non aveva preso in considerazione gli sforzi richiesti per
ottenere buoni risultati a scuola. Gli sembrava che trasferirsi in una terra
straniera fosse come cambiare abito.
A quel tempo Kumi pensava che per dare inizio ad una nuova vita bisognasse
avere a disposizione tutte le risorse necessarie per affrontare
i nuovi bisogni emergenti. Nella sua mente esisteva l’idea “nuove persone
= nuove risorse”. Invece, quando aveva raggiunto Lokichogio era
rimasto meravigliato: la situazione era insopportabile, il paesaggio era
piatto e secco e non c’erano colline o alberi. Non vedeva né fattorie né
mucche. Di sera non sentiva il suono dei tamburi.
Nel campo di Kakuma aveva continuato a chiedersi meravigliato come
mai ci fossero molti sudanesi ma pochi provenissero dal suo villaggio.
Non riusciva a capire perché così tante persone accettassero la durezza
del campo quando nella loro terra avevano a disposizione tutto il necessario
per una tranquilla sopravvivenza. E ancora non riusciva a comprendere
come mai tanti aerei partissero dalla striscia aerea di Lokichogio
diretti al Sudan, ma soltanto pochi riuscissero a raggiungere i Monti Nuba.
E non riusciva nemmeno a capire se i Monti Nuba facessero parte
del Sudan o di un altro mondo.
Tornato a Kujur, l’unica cosa di cui era consapevole era il legame di fratellanza
nella lotta di liberazione con altri popoli del Sudan come i Dinka
e i Funj del Nilo Blu. In tutta la sua vita a Kujur non aveva mai incontrato
persone provenienti dal Sud del Sudan. AKakuma si rese conto
dei legami sociali esistenti tra lui e i rifugiati del Sud. Almeno
condividevano la stessa causa, capì in seguito.
Per lui la guerra non era una causa immediata. Perlomeno, si era abituato
a vivere con la paura della guerra. Non gli facevano più paura le
esplosioni delle bombe lanciate dagli Antonov del governo sudanese.
Molte volte ne era uscito illeso. Aveva perso amici indimenticabili e compagni
di infanzia. Il suo migliore amico, Ngatu, era morto insieme ad
altri tredici davanti ai suoi occhi. Non avrebbe mai dimenticato l’ultimo
bagliore di vita che risplendeva negli occhi di Ngatu un attimo prima
del suo ultimo respiro. Quel flebile sorriso, il luccichìo dei suoi occhi…
“dì ai miei genitori che… so… sono stato ferito…” tutto ciò era
ancora chiaro nella sua memoria come se stesse ancora avvenendo davanti
ai suoi occhi.
***
AKakuma non c’era posto per la beneficienza o la generosità. Kumi se
ne era reso conto poche ore dopo il suo arrivo. Nessuno gli aveva offerto
un bicchiere d’acqua, addirittura nessuno gli aveva dato il benvenuto.
Aveva dovuto aspettare tre ore per ottenere la sua tessera per le
razioni di cibo, che sembrava essere importante come il battesimo per
i Cristiani e l’iniziazione per lui. Non riusciva a capire perché si dovesse
mostrare una tessera per avere una tazza di grano ed un cucchiaio di olio.
Per lui il cibo era sacro come la vita stessa e non era accetttabile che
qualcuno ne controllasse l’uso. In tutta la sua vita non aveva mai vissuto
con un controllo sulla quantità di cibo. Ciò che offriva il raccolto
era a sua disposizione. Se le sue provviste fossero terminate, i suoi amici
gli avrebbero dato da mangiare gratis. Durante le prime stagioni delle
piogge andava a caccia. Anche quando era a caccia, non importava
se lanciasse una freccia o una pietra, la sua parte era lì a condizione che
egli prendesse una parte dell’animale colpito.
Nella prima mattina trascorsa a Kakuma, Kumi aveva imparato che la
sua libertà di movimento era molto limitata. Non gli era consentito spostarsi
al di là del campo. Tutto ciò che i suoi occhi riuscivano a vedere
era il deserto che si estendeva piatto fino all’orizzonte.
I pochi giorni che Kumi aveva trascorso nella scuola di Kakuma erano
stati pieni di aspettative. Il primo giorno in classe aveva dovuto condividere
il libro con altri quattro studenti. Bene, si era detto, sicuramente
è perché noi quattro siamo appena arrivati, molto presto l’insegnante
ci darà una copia per ciascuno. Non aveva abiti per cambiarsi: andava
a scuola con gli stracci con cui era arrivato da Kujur e gli era sembrato
strano che ogni alunno avesse abiti diversi. Durante la lunga pausa
si aspettava almeno una manciata di groundnuts per colazione, ma nessuno
gliene aveva offerto.
Dopo tre settimane, si era sentito più disperato che mai. I raggi di speranza
in una nuova vita si affievolivano con il tempo. Aveva compreso
pienamente il significato della parola speranza. Speranza significava
per lui venerare un’idea, non un’idea qualunque, bensì quella che è
una creazione dei propri sogni.
Una mattina Kumi aveva dato vita ad un’idea e iniziato a venerarla.
La sua nuova speranza risiedeva nello scrivere una lettera a suo padre.
Scrisse:
Da Kumi Ajabna Kodi
Al Caro e benevolo padre
Non dovrei scriverti. Non sono un bravo ragazzo, sono cattivo. Sono fuggito
verso Kakuma. Ma Kakuma è un inferno. Padre, sto soffrendo molto.
Mandami un po’ di sesamo, groundnuts, okra secco, fagioli e, se è
possibile, un paio di pantaloni e una camicia. Ho bisogno di un paio di
scarpe, quelle che ho sono consumate. Dì a zio Kunda di mandarmi due
libri per la terza classe. Padre, so che mi vuoi bene, ma se veramente
me ne vuoi, perdonami. Mandami queste cose. Ripeto, sto soffrendo molto.
Ho bisogno del tuo aiuto, padre. Saluti a mamma e a Keni. Dì al piccolo
Kuku di non venire. Nel campo di Kakuma si soffre molto, non ci
sono viveri né libri. Niente scarpe né vestiti. Non c’è denaro né amore.
Ma io provo ancora amore per voi. Vi prego di perdonarmi e di amarmi
ancora. Mandatemi queste cose con Musa Ngatu.
Il vostro figlio sofferente,
21/luglio/ 1998
Trascorsero un mese intero e sei giorni prima che Kumi ricevesse una
lettera da suo padre. Egli aveva passato la maggior parte di quel tempo
pensando alle cose che gli avrebbe dovuto mandare. La speranza di una
vita migliore stava nell’arrivo del pacco di suo padre. Aveva aspettato
ogni giorno al cancello del campo, come gli Israeliti aspettavano Mosè
al monte Sinai. Aveva venerato la speranza di un intervento di suo padre
per rendere migliore la sua vita nel campo. L’attesa del pacco era
stata per lui l’attesa di un Messia con una nuova alleanza.
Il giorno in cui Kumi vide Musa Ngatu scendere dal furgone, come l’angelo
Gabriele che portava la sua rivelazione al profeta arabo, era stato
un giorno di rivelazione. Era solo. Non aveva voluto che nessun altro
fosse testimone della Nuova Speranza. Sembrava che Musa Ngatu avesse
molti bagagli. Kumi aveva continuato a chiedersi quale di quei bagagli
fosse suo, quello verde o quello bianco. No, si era detto, non doveva
essere quello piccolo. Mio padre non può mandarmi dei pacchi così
piccoli. Mio padre sa molto bene che sono in un inferno, aveva pensato
per consolarsi. Dopo pochi minuti era andato direttamente incontro a
Musa Ngatu. “Ciao, ciao zio Musa”, aveva gridato saltando per abbracciare
lo zio. “Spero che tu lo abbia portato”, aveva detto ansioso. “Cosa?”,
aveva chiesto Musa. “Il pacco”, aveva risposto subito Kumi. “Ah, vuoi
dire la lettera di tuo padre. Sì ce l’ho, ma aspetta finché arriviamo”. “Per
favore, zio, fammela leggere ora”. “Che fretta c’è?” “No, zio, devo
prendere una decisione subito”.
Musa aveva preso una delle borse e aperto una delle tasche. Aveva cercato
per alcuni secondi e poi aveva tirato fuori una lettera sporca. La
lettera era piccola come il cuore di Kumi. Con il cuore che batteva forte
e tutto sudato, Kumi aveva afferrato la lettera. L’aveva aperta con le
mani tremanti. Le sue labbra fremevano. Aveva letto ad alta voce.
Da Ajabna Kodi
A Kumi,
cari saluti. Sono arrabbiato e allo stesso tempo triste perché sei scappato
al campo profughi di Kakuma. Hai offeso la mia dignità con un
gesto talmente ignobile. Cosa manca nella mia casa? Qui c’è tutto. Non
ho niente da mandarti. Se stai soffrendo, torna subito a casa. Ti mando
80.000 sterline sudanesi per il ritorno. Prendile da zio Musa se sei
interessato a tornare. In caso contrario, io non ho altro da fare più di
questo. Ti ripeto di tornare subito a casa.
Ajabna Kodi
26/agosto/1998
Gli occhi di Kumi si erano riempiti di lacrime ed il suo cuore bruciava
di dolore. Aveva provato un sapore amaro in gola. Gli era sembrato di
soffocare. Aveva dato un’occhiata allo zio Musa, che sollevò la mano
poggiandogliela sulla spalla. Non piangere, figlio mio, gli aveva detto.
Kumi non aveva risposto nulla, aveva chinato la testa e se ne era andato
lasciando lo zio da solo in piedi nella stazione degli autobus.
Quel giorno Kumi non si era fatto vedere in giro. Aveva camminato per
tutto il pomeriggio verso il confine e aveva raggiunto Lokichogio all’alba
del giorno dopo. Il suo animo combatteva duramente per dimenticare
il passato. Aveva lasciato nel campo tutto ciò che aveva, i suoi
amici, i suoi stracci e la sua preziosa tessera delle razioni. Aveva lasciato
tutto ciò che gli poteva far ricordare il campo di Kakuma. Non era triste
perché ritornava a casa, in realtà era triste perché se ne era allontanato
tre mesi prima. La speranza per il futuro risiedeva nell’abbracciare
il passato. Tornare a casa e costruire il proprio futuro dai materiali
che aveva lasciato nel passato. Il ritorno al passato era una buona àncora
per navigare verso il futuro. Tornare indietro e usare i materiali necessari
ai Nuba per costruire una vita degna, per continuare la liberazione
che dia la sicurezza di un prospero futuro.
Kumi si era reso conto che la pace non era mai scontata. Si era convinto
che la pace fosse una convinzione interna ottenuta come ogni altro
valore umano, felicità, ricchezza e cose simili. Per lui i Monti Nuba erano
un altare su cui fare sacrifici per ottenere giustizia e una vita migliore.
Aveva capito che essere un rifugiato era come diventare un apostata della
convinzione del villaggio per la giustizia e la libertà. Diventare un ri-
fugiato significava privare la sua gente del sacrificio necessario per ottenere
la giustizia. Doveva tornare, quindi, per continuare la lotta di liberazione,
nessun altro se non i Nuba potevano essere in grado di liberare
se stessi. Così Kumi era ritornato a casa nello stesso modo in cui
era andato via, non aveva fatto nessun annuncio e nessuno sapeva che
fosse tornato. Si era inginocchiato per baciare il suolo, con il volto che
risplendeva con determinazione.
***
“Credo che dovremmo fermarci a riposare un po’”, esclamò Kallo.
“Bè, in questo posto non ci si può riposare; lo sai che non siamo lontani
dalle truppe del governo del Sudan. Se ci prendono qui non avranno
pietà di noi. Che Dio non voglia farci cadere nelle loro mani”, protestò
Kacho.
“Amico mio, non pensare a male. Concediamoci pochi minuti di riposo;
dopotutto abbiamo attraversato le zone più pericolose”, insistette
Kallo. “E allora fermiamoci dieci minuti. Non di più… ricordate”, gridò,
Kacho.
I tre ragazzi sedettero sotto un grande albero. Non dissero una parola,
ognuno di loro girato verso una diversa direzione per tener d’occhio qualunque
pericolo in arrivo. Dieci minuti passarono come fossero dieci anni.
Il silenzio dominante faceva battere forte quei tre piccoli cuori. Per
loro la tranquillità era terribile, non avevano mai assaporato il gusto della
pace nella loro vita. Ogni momento di silenzio accelerava la loro paura
dell’ignoto. Il silenzio significava che la vita si era fermata. Kumi sembrava
il più terrorizzato di tutti. La sua paura dell’ignoto crebbe con un
improvviso battito di ali di uccelli che volavano via da un albero a un
centinaio di metri da loro. L’aver vissuto gran parte della sua vita in regioni
selvagge gli aveva insegnato che il volo improvviso degli uccelli
era un segno della presenza di un intruso. Gli altri due ragazzi non si
accorsero di quel battito di ali. Kumi si alzò in piedi: guardò con maggiore
attenzione e li vide. Cinque persone con indosso vestiti verdi che
li rendevano difficilmente identificabili in mezzo all’erba selvatica di
cui era ricoperta la pianura quasi spoglia. Capì chi fossero e cosa avessero
intenzione di fare. Prima che potesse allertare i suoi compagni, il
suono di un’esplosione squarciò il silenzio. Tat… tat fecero le pallottole.
Kallo e Kacho caddero privi di coscienza. Kumi non riusciva a capire
cosa stesse succedendo e si trovò a correre da solo.
Riuscì a correre per alcuni metri. Fu preso in trappola. Non potè opporre
resistenza. Si arrese. Venne legato con una corda da un soldato e portato
alla guarnigione. Lungo il percorso i soldati lo picchiarono e lo insultarono.
Lo soprannominarono ‘giovane ribelle’. Andando verso la guarnigione
Kumi vide molti Nuba, sia vecchi che giovani, che lavoravano
nei campi. Lo guardarono, ma nessuno gli parlò. Nei loro occhi poteva
leggere paura e tristezza. Sembravano stanchi e sfiniti. I loro fragili corpi
erano una testimonianza delle loro paure più profonde. Avevano paura
dei soldati. Nella guarnigione vide molte giovani donne: gli sembrò
molto strano, erano tutte incinte.
“Dov’è il tuo fucile?”, lo interrogò il giovane, magro soldato con una barba
che gli ricopriva il volto facendolo sembrare il fantasma della morte.
I suoi occhi risplendevano di crudeltà come quelli di un diavolo che pretende
l’anima di un credente. Prima che potesse rispondere, Kumi sentì
il colpo di un oggetto duro sulla schiena. Cadde per terra. Ma nessuno venne
in suo aiuto. Perse i sensi. Le prime parole che gli arrivarono alle orecchie
quando riprese conoscenza furono “…sembra innocente, …ma che
ne sappiamo, potrebbe essere il capo dei ribelli”. “Dobbiamo fargli sputare
tutti i segreti della sua vita”, disse una voce seguita da una risata.
Kumi rimase nelle baracche per nove giorni. I primi tre furono terrorizzanti:
venne torturato giorno e notte. Lo misero in un fosso coperto
da un pezzo di lamiera. Non riusciva a stare seduto comodamente e neanche
a dormire. “Devi confessare che sei un ribelle, solo allora potremo
liberarti”, gli diceva il soldato che assomigliava ad un diavolo.
Gli diedero da mangiare chicchi di sorgo bolliti con sabbia e questo gli
provocò dolori di stomaco costanti. Doveva defecare nella sua cella. Capì
molto bene che in ogni caso sarebbe morto. Nè mentire ai crudeli sol-
dati confessando di essere un ribelle né dire la verità, che era un semplice
civile che cercava di scappare a Kadugli per comprare gli abiti da
sposa per la sua fidanzata, lo avrebbero aiutato. Era un Nuba e ciò era
abbastanza perché fosse ritenuto un ribelle.
Tre giorni dopo il suo arresto Kumi venne portato fuori dal fosso e sistemato
nel campo di pace. Ogni mattina doveva unirsi agli altri per coltivare
i campi. Venir meno a questo incarico significava perdere il pasto
per quella giornata. Il campo di pace non era diverso dal campo profughi
di Kakuma. L’unica differenza era che non esistevano tessere per
il cibo; comunque, il lavoro era per ognuno la tessera per la propria razione
giornaliera. A Kakuma vivevano insieme persone di tribù e nazionalità
differenti, mentre nel campo di pace c’erano soprattutto Nuba.
Nel campo profughi di Kakuma veniva concessa la libertà di andare
a trovare amici, fare nuove amicizie e parlare con gli altri; invece,
nel campo di pace a nessuno era consentito dire una parola ad un altro
prigioniero. A differenza di Kakuma, il campo di pace non era una prigione
moderna, ma una fossa per gli schiavi.
Erano passati novanta giorni da quando Kumi era stato fatto prigioniero,
ma gli sembravano nove secoli. Era diminuito drasticamente di peso.
I suoi occhi erano colmi di disperazione. Ogni serata trascorsa nei
campi gli faceva ricordare i suoi amici di Kujur. Poteva vedere i Monti
Lumun come giganti che lo chiamavano. Decise di scappare. Ma gli
uomini con le divise verdi li sorvegliavano con molta attenzione. Kumi
guardò con rabbia i cinque soldati che facevano la guardia al passaggio
verso le montagne e disse:
“Perché ci trattate come schiavi
Perché non ci lasciate liberi
La chiamate civiltà
Ma se la civiltà sapesse come maltrattate il suo nome
Quanta vergogna proverebbe.”
Kumi considerava le guardie come custodi della libertà. Non riusciva a
vedere alcuna differenza tra gli schiavi Nuba che erano nel campo e le
guardie. Le guardie, in effetti, erano schiavi di un padrone più potente.
Provò pietà per loro. Gli sembravano inconsapevoli di quanto stesse accadendo.
Nello spazio di un secondo Kumi si decise, comprendendo finalmente
il prezzo della libertà. Capì che la vita e la libertà hanno un valore complementare.
Per vivere una buona vita bisogna essere liberi, e conquistare
la libertà dopo la schiavitù significa pagare un prezzo alto. Kumi
fu pronto a pagare qualunque prezzo per la libertà e diresse le sue deboli
gambe verso il vento. “Torno a casa”, gridò come un folle. I cinque
soldati lo videro avvicinarsi: prepararono i loro fucili automatici.
“Fermo!”, gridò uno di loro. Kumi vide la minaccia della guardia come
se fosse quella di un cieco. Le guardie sono cieche davanti alla libertà.
Spararono contro di lui a raffica, ma per Kumi le pallottole non erano
qualcosa che potesse fermare la sua libertà. Era deciso a morire piuttosto
che essere schiavo. Voleva andare a casa. Voleva abbracciare i raggi
dorati che baciavano la cima dei monti di Kujur. Correva per veder
sorgere l’alba della liberazione e della libertà sui Nuba. Si trattava di un
conflitto di coscienza in cui era in ballo la dignità: accettare la difficoltà
ed essere libero o piuttosto sfuggire alle difficoltà ed essere schiavo;
un destino amaro. I soldati gli spararono senza pietà. Si sentì debole. Le
gambe non riuscirono a portarlo più lontano. Continuò a correre finché
non svenne.
Cadde rivolto verso i Monti. I raggi dorati del tramonto trasformavano
la cima delle montagne in una scena preziosa. Comunque, non era in
grado di abbracciare quei raggi dorati dall’altra parte. Provò pietà per
se stesso. Si guardò intorno: non c’era nessuno a cui confidare le sue
preoccupazioni. Guardò in alto, sollevò le deboli braccia e gridò:
“O Dio
Benedici questa terra.
Benedici i Nuba.
Fa che questi raggi dorati non smettano mai di baciare i nostri monti.
Essi sono il nostro orgoglio.
Sono la speranza dei Nuba nella libertà.
Concedici la vittoria.
Facci apprezzare il modo in cui ci hai creati
Con tutto l’ambiente che costituisce la nostra cultura.
Tu sei misericordioso.
O Dio
Così come questo sole sta tramontando
Facci sopportare la crudeltà della notte,
Per accogliere la nuova alba
Che porta la libertà;
L’alba che perpetua la nostra identità.
Essa è il nostro amaro destino
O Dio
Io sto morendo,
Ma i Nuba no.
Proteggili, mio Dio.
Non so come chiamarti,
Ma ti chiamo Padre,
il Vincente dei Nuba.”
Sorrise ed esalò il suo ultimo respiro.