Un inconsapevole suicida di Claudio De Fazio, Genova.
_Racconto finalista ventiduesima edizione Premio Energheia 2016
Stavo facendo quello che faccio sempre: scappavo. Questa volta, però, non ero del tutto solo, c’era qualcosa a farmi compagnia e a darmi conforto, la mia vecchia bicicletta d’infanzia. L’infanzia, luogo rinnegato, con i suoi oggetti che arrancano fino al presente per ricordarti quello che speravi di aver dimenticato e il suo dolore mascherato da ingenuità e spensieratezza. La mia bicicletta era diversa dalla maggior parte degli oggetti d’infanzia, era buona, non cercava di trascinarmi nuovamente nel vortice, aveva solo voglia di farmi compagnia e darmi conforto. Le volevo bene, e potevo permettermelo, sapevo che non mi avrebbe mai tradito, anche se ero cresciuto un po’ troppo per le sue dimensioni immutabili.
Procedevo con un’energia che di solito non ho, avevo la forza di tirare avanti, avevo bisogno di tirare avanti, dove stessi andando non ha importanza, stavo andando verso la libertà, si trattava di una vera e propria fuga ideale. Mi trovavo su una strada di campagna, ed era quasi sera. Il sole era ancora abbastanza vivo in cielo, ma non più così violento e arrabbiato come a mezzogiorno, e mentre pedalavo (suona curiosamente strano, questo verbo, pedalare non faceva più parte del mio vocabolario da qualche lustro) tenevo le braccia abbassate per riposarle e per dimostrare a me stesso quanto fossi bravo ad andare in bici senza mani, e guardavo il paesaggio, anche se in verità guardavo soprattutto la strada davanti a me, sia come gesto metaforico che per individuare eventuali fossi o sassi.
Ad un certo punto individuai qualcosa, ma non era né un fosso né un sasso: era come una pozzanghera di vernice su cui qualcuno avesse camminato prima che finisse di asciugarsi, e non era neanche questo, avvicinandomi lo vidi chiaramente. Era un riccio spiaccicato da una macchina omicida, o da una macchina distratta (un distratto può anche diventare un omicida, ma un omicida non va lontano se è distratto), in ogni caso si trattava di un crimine orrendo. Il povero riccio stava passeggiando per i fatti suoi senza nessuna colpa, certo era in mezzo alla strada, certo non ha attraversato sulle strisce pedonali, ma diamine, era un riccio, cosa vuoi che ne sapesse di stare attraversando una strada (e poi non ci sono strisce pedonali nelle strade di campagna), quando era stato brutalmente investito e spappolato e ridotto a due dimensioni dalle ruote anteriori e posteriori di un’automobile.
Arrivai vicino alla scena del crimine e frenai la bicicletta, poi mi chinai ad esaminare il cadavere: non aveva più la faccia, addio all’eleganza del riccio, sembrava una talpa con il cervello al posto della pelle, alla fine un tessuto organico vale l’altro, tanto fanno tutti la stessa fine (sì, cibo per vermi, ma non solo: invecchiano), e, quanto al resto del corpo, c’erano organi un po’ dappertutto, per lo più fuori, dentro non c’era più spazio per contenerli, abbiamo già detto che il riccio si estendeva solo in lunghezza e in larghezza, ciao ciao profondità, in tutti i sensi. Una striscia di sangue usciva dal corpo sotto forma di pneumatico e proseguiva per qualche decimetro prima di svanire, lasciando chiare impronte, ma sarebbe stato comunque difficile risalire al tipo di pneumatico, soprattutto dal momento che non sono uno pneumologo (vecchia battuta, nuove risate).
Fu in questo momento che avvenne qualcosa di inspiegabile: il riccio si mosse, scosse la testa, ancora tutta appiattita, e mi guardò con quegli occhi che erano esplosi e grondavano muco.
“Guarda a cosa mi è servito chiudermi a riccio,” disse con voce nasale, poi ricadde a terra e lì rimase a marcire finché un’altra macchina o un uccello rapace non lo divelsero dal suolo, suppongo.
Io non feci parola, non parlo mica da solo, e riesco ancora a distinguere un oggetto amico da un amico oggetto, ma la mia espressione deve essersi sicuramente palesata come di profondo sbigottimento, subito seguìto da una forte dose di noncuranza. Sonno, ecco cosa avevo, e voglia di fare merenda, questo è quanto. Rimisi i piedi sui pedali e ripresi a spostarmi, e se proprio devo essere sincero la voglia di fare merenda mi era un tantino passata dopo i recenti accadimenti, in fondo meglio così, non avevo con me il cestino della merenda. Pedalare stanca, ma la cosa che rende davvero problematico spostarsi in bicicletta è il sellino, tanto ossessivamente omosessuale che non pensa ad altro che a causarti dolori lancinanti alle natiche, e ci riesce pure bene (è inevitabile, ha dalla sua la componente tempo e la componente forza di gravità).
Mentre ero impegnato a formulare anatemi contro il sellino e rischiavo di palesare furente omofobia, la mia attenzione fu attratta da un altro qualcosa spiaccicato per terra, questa volta più piccolo, e fu a causa delle ridotte dimensioni che lo scorsi solo quando lo avevo già superato, catturato con la coda dell’occhio dalle sue budella riverse sul terreno. Inchiodai, rischiando di impennarmi in avanti e finire a scorticarmi la faccia, e tornai indietro. Era una biscia, verde e sottile, non così sottile da non avere budella, questo è evidente. Era morta a bocca aperta, mostrando i dentini praticamente innocui, cosa vuoi che ti faccia una biscia, non è una vipera, non è un cobra, non è un serpente corallo, non è un serpente a sonagli (conosco tanti serpenti velenosi, lo so), ha più paura di te, chissà cosa stava facendo quando è stata falciata ed è stramazzata.
Poi, d’un tratto, anche lei mi guardò, come il riccio, con occhi vitrei (anche per gli standard di un serpente) e malinconici.
“Guarda a cosa mi è servito strisciare via,” disse con voce sibilante, dopodiché tornò a giacere immobile e lì attese che un acquazzone o una tempesta di vento la trasportassero via, suppongo.
A questo punto mi era passato anche il sonno, e iniziavo a rasentare l’incredulità, non ci si azzardi a dire che avevo paura, ma detto tra noi ero sul punto di cagarmi addosso, un conto è un riccio zombie, un altro è un serpente zombie, già i serpenti sono freddi come cadaveri quando sono vivi, magari per contrappasso diventano caldi da morti viventi, e la cosa mi faceva gelare il sangue nelle vene. La mia bicicletta era ancora fumante, smaniava sotto di me, voleva muoversi, doveva andare, e io mi mossi e andai. Ormai il sole era calato dietro una collina, bimbo capriccioso che gioca a nascondino, e il cielo iniziava ad annerirsi, la luce moriva e non trovai motivo d’infuriarmi, avevo una torcia montata sul manubrio della mia bicicletta per annientare le ombre.
Prima di perdermi nel buio, comunque, ebbi un altro infelice incontro. Non pedalavo più senza mani, il terreno era troppo accidentato e la luce troppo scarsa, rischiavo di infrangermi contro qualche muro invisibile o di scivolare di colpo verso il basso. La strada era leggermente in salita, e la salita era abbastanza dura, nonché impegnativa, e con la mia cedevolezza ero già pronto a cedere, ma un piccolo particolare mi salvò dall’immobilità: la voglia che la mia bicicletta aveva di sentire il vento sulla faccia, o sul manubrio, o sulla carrozzeria, per quanto il vento iniziasse ad essere vagamente gelido e, soprattutto, gli oggetti non abbiano percezioni sensoriali, ma sappiamo dove porta l’autosuggestione e sappiamo che l’uomo ha la tendenza ad attribuire ad altri i meriti delle proprie inspiegabili forze. Il paesaggio, che prima mi offriva uno spettacolo così suggestivo e al contempo misterioso, era svanito nelle tenebre, ora c’eravamo solo io e la mia bicicletta, lei che era abituata a tornare a casa quando faceva buio, praticamente come me, tutti e due persi sotto le stelle in quel folle regno che è la notte.
Mi fermai per accendere la torcia montata sul manubrio della mia bicicletta e annientai le ombre, anche se fu un gesto molto più prosaico, schiacciai un tastino e tornai a vedere la strada davanti a me, non come un veggente, ma come un viandante, che sono uno l’opposto dell’altro: uno ti dice la strada che devi seguire, l’altro ti chiede la strada che deve seguire. Nell’accendere la luce notai qualcosa a pochi centimetri dalla ruota anteriore della mia bicicletta, mi chinai per vedere meglio e vidi fin troppo bene che mi ero fermato a pochi centimetri dal cadavere di un passerotto morto spiaccicato. La moria di animali era impressionante, su quella strada, e di questo passo avrei trovato pure un alce stecchito a sbarrarmi il cammino.
Il passerotto proprio mi fece tenerezza, non era un riccio, che seppur elegante è pur sempre un riccio, né una biscia, che se l’avessi incontrata da viva sarei stato il primo a schiacciarla, ma una creatura pura, libera, con tutta la leggerezza delle sue ossa cave. Era stato, al contrario dei miei due incontri precedenti, schiacciato completamente, come pressato da una pressa o assottigliato da una di quelle stanze da film dell’orrore con il tetto di ferro che scende fino a spappolare un personaggio minore (di quelli irrilevanti ai fini della trama), e non c’era stata fuoriuscita di organi, solo quella sottrazione netta di una dimensione spaziale, lo spessore, è sempre lo spessore che ti frega, è per questo che il teatro rimane e sempre rimarrà più catartico della televisione. L’unica ala ancora visibile si era tutta accartocciata su se stessa, sembrava una fisarmonica, sottile come carta velina e piumata come l’ala di un uccello, dava proprio l’idea della libertà perduta. Sapevo che anche il passerotto avrebbe parlato, e attesi il suo risveglio. Probabilmente mi lesse nel pensiero, perché subito si drizzò, mi guardò con la metà di faccia che gli rimaneva e dischiuse il becco.
“Guarda a cosa mi è servito librarmi nel cielo,” disse con voce stridula, e subito tornò a giacere invisibile e immobile, e lì si fuse con la terra, indissolubilmente ancorato al suolo in una negazione definitiva di libertà, trasformandosi con il tempo in un cespuglietto, suppongo.
Era il mio momento, io che potevo ancora andarmene dovevo andarmene, rimontai in sella con un affatto lieve riaffiorare della forte noia alle natiche e ripresi ad andare. Pedalavo nel buio e ripensavo a quello che avevo visto: subito mi aveva lasciato indifferente, di animali morti spiaccicati se ne vedono tanti nella vita, poi vagamente turbato, poi terrorizzato (sì, lo ammetto), e infine riempito di pietà e pena, sentimenti nuovi per me, sentimenti spiacevoli, oserei dire dolorosi, troppo distanti dalla mia indifferenza stilistica per starmi simpatici.
Mi distrassi, ero un automobilista al telefono che sbanda improvvisamente, ero un suicida accidentale, ero un ciclista che incappa in un sasso e non se ne accorge: la ruota anteriore della mia bicicletta si impuntò, feci un volo o un presunto volo di qualche metro e atterrai nell’erba al lato della strada. L’istinto di sopravvivenza mi spinse a mettere le mani davanti al volto, e grazie al cielo, in caso contrario mi sarei sfregiato e avrei passato la vita a maledire la mia sbadataggine. Il rumore che feci io atterrando fu niente in confronto al fragore della mia bicicletta che si fracassava sulla strada sterrata, un suono così macabro e asettico insieme: un oggetto che si frantuma non è considerato un decesso, ma allo stesso tempo il significato simbolico grida di dolore. Rialzai la testa, sputacchiai terriccio, mi guardai le braccia per valutare il danno subìto, ma ovviamente non vidi niente, la luce della bicicletta si era spenta, con tutta probabilità si era anche rotta.
Non sono proprio il tipo che ha paura del buio, però, ecco, il bosco (o anche solo stare in sua prossimità) di notte fa decisamente spavento, ti pervade quel vago senso di inquietudine e sperimenti una totale perdita di controllo, fatto inaccettabile per un ossessivo-compulsivo come me. C’era, tuttavia, la luce della luna, e mi resi conto con una certa sorpresa che era abbastanza forte da permettermi di ritrovare la bicicletta e capire quanto si fosse effettivamente danneggiata e quanto fosse stata solo scena. La raggiunsi e la tastai, sentendomi vagamente un coroner, che è il poveretto incaricato di ufficializzare i decessi, modo ufficiale per dire che è l’uomo che decide chi è vivo e chi è morto, la cosa più preoccupante era la ruota anteriore, era evidente anche solo al tatto quanto fosse stata distrutta. La risollevai, volevo vedere (bell’espressione, del tutto inappropriata) se poteva ancora stare in piedi (altra espressione fuori contesto) e continuare ad accompagnarmi nella mia misteriosa fuga, ma fu allora che l’automobile omicida colpì.
Arrivò sfrecciando, a fari spenti, e c’è da chiedersi se sperasse di morire a sua volta o stesse semplicemente fornendosi un alibi, e non ebbi neanche il tempo di slittare con la bici fino al lato della strada, neanche il tempo di, diciamolo, lasciare andare al bicicletta e salvarmi la vita, sì, avrei condannato il mio oggetto amico pur di sopravvivere, suppongo si definisca basso tradimento. Ma non ne ebbi l’occasione, perché proprio in quel momento fui falciato. Non posso spiegare cosa provai, ma posso spiegare cosa non provai: piacere, sollievo, convinzione che la mia vita sarebbe durata ancora un quarto di secolo, sensazione di avere tutte le ossa al loro posto e tutti gli organi al mio interno. La macchina omicida se ne andò noncurante, anche se aveva senza dubbio sentito lo schianto della mia carne contro il suo metallo e lo schianto del metallo della mia bicicletta contro il suo metallo, e mi lasciò lì, morente e agonizzante, uno spettacolo schifoso, mentre la mia bicicletta si era accartocciata giù dal pendio, dove sarebbe rimasta fino a chissà quando, assorbita dalla vegetazione. Io sarei stato sbranato dai lupi e poi dai corvi e poi dagli insetti e poi dai vermi e poi dai funghi e poi dai batteri, nessuno avrebbe chiesto il permesso o si sarebbe fatto dei problemi ad affondare i denti nel mio cuore, buon appetito, un augurio canzonatorio e rassegnato.
“Guarda a cosa mi è servito scappare in bicicletta,” dissi con voce fioca, rivolto più a me stesso che ad eventuali spettatori, e rimasi immobile, non mi mossi mai più, non pedalai mai più, e diedi prova, nella maniera più definitiva, che non si può fuggire al proprio passato per sempre, che prima o poi tutti vengono schiacciati da quello che sono stati. Ero stato uno sciocco, un uomo che percorre in bicicletta il proprio calvario, un omicida distratto e smemorato che muore ucciso da se stesso alla fine del viaggio, un suicida inconsapevole che non ha fatto altro che scappare per tutta la vita e che nel morire ha trovato la sua sola libertà.