Un mondo di città
Amani – 12 agosto 2011 di Fabrizio Floris _
Se ne discuteva da oltre un decennio, ma la notizia si è materializzata nel maggio 2007. Nessun conto alla rovescia ha scandito l’evento; non ci sono state dirette televisive; qualcosa di storico ci è passato davanti, senza che ce ne rendessimo conto: per la prima volta la popolazione che vive nelle città ha superato quella insediata nelle campagne. Il dato è stato verificato dall’Università della North Carolina e da quella della Georgia che studiano la crescita della popolazione terrestre.
Nei primi anni del Novecento, solo il 10% della popolazione viveva in città e ancora negli anni Cinquanta era urbanizzata solo una persona su quattro. Ciò significa miliardi di abitanti che sono nati o che si sono spostati verso le città. Tutto è avvenuto e continuerà ad avvenire nel Sud del mondo: secondo Habitat, l’agenzia delle Nazioni Unite per gli insediamenti, il 95% della crescita urbana mondiale, da qui al 2050, si registrerà negli agglomerati d’Africa, d’Asia e d’America Latina; il 38% della crescita avviene nelle baraccopoli che già accolgono un miliardo di abitanti e che raddoppieranno nel prossimo ventennio.
Le frontiere non sono sparite come si pensava con la caduta del muro di Berlino, ma vengono continuamente ridefinite; oggi esse non si innalzano più tra Est ed Ovest e nemmeno tra Nord e Sud, ma dentro le città, dove si contrappongono quartieri di classe alta e sobborghi.
La città così frammentata, invece di essere il luogo dell’incontro e dell’integrazione tra gruppi sociali diversi per livello economico, cultura e provenienza, si sta trasformando in una sorta di arcipelago di tante isole, che spesso si convertono in enclave, ghetti e quartieri dormitorio, e segnano un orizzonte urbano sempre più privo di una sintesi architettonica, politica e sociale. Da un lato, la città offre una globalità senza frontiere – per merci, immagini e messaggi -, dall’altro propone una frammentazione crescente delle opportunità, per persone, ceti e quartieri. Come osserva il sociologo Zygmunt Barman, le città “sono piene di uomini costantemente in cerca di qualcosa d’altro. Sembra che corrano e invece sono fermi, in una condizione di angosciante staticità. Credono di intercettare, di interpretare il cambiamento. Stanno bene solo quando arrivano prima degli altri, e questo indipendentemente da quale sia la meta”. C’è anche chi la meta la conosce, ma non ha le opportunità per raggiungerla. Per questo nessuno si sente a casa propria, pur non sentendosi nemmeno a casa degli altri.
Occorre, quindi, ripensare le città, a partire dalle frontiere, per far sì che non siamo più uno sbarramento, ma un passaggio. Esse segnalano, allo stesso tempo, la presenza altrui e la possibilità di ricongiungersi.
Le frontiere non si cancellano, dunque: vengono ridisegnate. Il nostro compito è di “stare” su queste frontiere, di abitarle affinché siano un punto di incontro e un momento di risposta. Come ci ricordava Italo Calvino (Le città invisibili): “In una città non godi delle sette o delle settanta meraviglie, ma della risposta che sa dare a un tuo problema”. Ad esempio in Italia il problema della terra nei paesi del sud o quello degli alloggi vuoti in quelli del nord. Il mercato ha grandi capacità di produrre e accumulare beni, ma è incapace di ridistribuirli: lo spazio sta diventando solo la forma territoriale della moneta.
Il problema attuale di chi vive nelle zone rurali del Sud del mondo è la mancanza di possibilità di scegliere. Si migra verso le aree urbane perché forzati dai bisogni fondamentali, perché dove si sta non c’è cibo e acqua a sufficienza. Nelle periferie, poi, si vivrà in condizioni simili se non peggiori, perché all’impoverimento materiale potranno associarsi altre forme di deprivazione sociale, culturale e umana. In città, tuttavia, le opportunità quanto meno esistono, così come una maggiore probabilità di cambiare la propria condizione; ma sarebbe anche possibile migliorare le condizioni di vita delle zone rurali. Per lo sviluppo delle baraccopoli e dei villaggi non c’è bisogno di un’agenda lunga e complessa. Il rispetto di alcune priorità può cambiare radicalmente la realtà: risolvere il problema della terra, garantire la certezza dei diritti e sostenere gli investimenti. Ma bisogna volerlo. E da questo si è ancora lontani.
Il vescovo sudafricano Desmond Tutu, recentemente ha ricordato a tutti noi: “certo che sappiamo di avere una terra in cielo, ma ne vogliamo un pezzettino anche quaggiù”. La sfida che abbiamo davanti, si giocherà nelle periferie. È qui che l’umanità si eleverà o si degraderà. L’Africa ci mostra quante frontiere dobbiamo ancora varcare nei nostri quartieri, nelle nostre politiche e nelle nostre economie, per ricongiungersi agli altri e a noi stessi.