Un sorriso, una vita_Innocenzo Grassani, Tricarico(MT)
_Racconto finalista seconda edizione Premio Energheia 1995.
Una comune mattina a Payton Bridge, nel cielo grigio di autunno, i sogni, coperti dalle nuvole, soffocavano nell’aria fredda della cittadina di provincia. Una foglia cadeva sulla strada bagnata, sospinta da quel gelido vento che freddava i bollenti spiriti dei poco numerosi giovani del luogo. Mentre la città era ancora assonnata, venne scossa dal rombo della rumorosa Mustang di Paul Klein, la vecchia macchina del giovane medico dello Psychiatric Hospital situato a dieci miglia dalla città. Troppo presto per cominciare a lavorare, questo sì, ma lientusiasmo giovanile non ha limiti, ed a trentaquattro anni poteva ancora permetterselo! Aveva certo un incarico importante nel piccolo ospedale di provincia; era stimato da tutti come un ottimo medico ed amato per il suo buon cuore che lo spingeva a vivere per gli altri.
In ospedale ce n’era di gente in cura: imperatori, demoni e cortigiani, ma lui amava dedicarsi a quelli che chiamava “angeli”. Chiusi nel loro paradiso, vivevano nel mondo della loro fantasia dove tutto è possibile, e dove c’è un posto anche per la loro fragile mente. Avevano gli occhi spenti, lo sguardo lontano, diretto nel vuoto, quasi fossero stati recisi i nervi che una volta li legavano all’intelletto. Ormai inutili, sostituiti dagli occhi del cuore per non avere più limiti od ostacoli, per librarsi nei cieli della fantasia, parlando con la voce del silenzio alla loro anima, ascoltando i suoi gemiti più profondi.
Uomini ormai distanti dal mondo. Autistici: forse dei sognatori, ma autistici. Avvolti nel guscio delle loro paure, un guscio troppo resistente da rompere. Ma Paul ci provava, insisteva, fiducioso in un miracolo.
L’ospedale non era un granchè: sale che sembravano stanze e stanze come sottoscala, ma c’era un formicolio continuo al suo interno. Di personale ce n’era a sufficienza, tutta gente esperta e fidata. Ad ognuno un incarico, tanti incarichi dai nomi differenti. Anche Paul aveva il suo incarico, la sua responsabilità. Un uomo sulla quarantina che aveva ormai da tempo abbandonato la realtà, dieci o forse dodici anni. Da quando in quel lontano pomeriggio di maggio, in un terribile incidente stradale, aveva perso la moglie con un figlio mai nato. Un bambino che non sarebbe mai venuto alla luce. E così, come bruciarono quelle vite, bloccate da una maledetta serratura, anche le sue speranze si fecero cenere, mentre guardava impotente, con gli occhi lucidi per il dolore e i denti stretti per la rabbia, i resti della sua anima perduta in quella gabbia infernale. Ormai irrecuperabili, lasciati ad un Dio troppo crudele per la sua fragile comprensione, per il suo debole cuore. Da allora, chiuso in se stesso, un monologo cominciato ormai tante battute fa. Con un’unica fine segnata dal colore di un sipario nel silenzio di un pubblico di anime in pena come la sua, ammutolite dalle delusioni e dai dolori in cui si erano conclusi i loro sogni.
John Macby, il suo nome, anche se ormai da troppo tempo nessuno lo chiamava più, né c’era qualcuno che, chiamandolo, si aspettasse una risposta. L’ultima che diede fu quella che rese per sempre oscuro il suo futuro, mentre guardava morire sua moglie. Quando, pieno di graffi e lividi, per essere stato scaraventato fuori dalla macchina nell’urto, tentava di estrarla dai rottami. Si agitava e piangeva, urlava e piangeva. Tutto inutile, e intanto lei gridava il suo nome in preda al panico. Sudava John, sudava freddo, vedendo la morte che con il suo mantello di panno nero avvolgeva il suo amore, tutta la sua vita. E ad un tratto un lampo rosso spaccò il suo cuore. Chiuse gli occhi e volò. Volò nell’incubo più nero che, una volta sveglio, lo trovò ai bordi della strada a respirare l’asfalto che ardeva per il gran calore dell’esplosione: truce spettacolo gli si prospettò davanti. Balbettava, balbettava ancora un confuso: “Non posso Maggie, non posso per Dio”.
Continuò a lungo, molte volte per molto tempo. Ad un poliziotto che chiese il suo nome, rispose con una lacrima che gli solcò il viso e incominciò a piangere, solo questo. Dopo, tutto passò in fretta, dal ricovero in ospedale al ritorno in una casa vuota. Non aveva parenti John, qualcuno che lo accogliesse. E così giunse pure il suo ricovero allo Psychiatric Hospital, in uno dei tanti arredati sottoscala per diventare la singola responsabilità di un assistente mal pagato.
In quella mattina, dovunque, un rumore ruppe il silenzio dell’ospedale, lo stesso rumore che pochi attimi prima aveva svegliato buona parte di Payton Bridge tra gli insulti degli, ancora assonnati, abitanti.
Eh sì, doveva ammettere che la sua vecchia Mustang non era più quella di un tempo, comunque gli era fedele e Paul non si lamentava. Si fermò, scese dall’auto ed entrò nell’ospedale salutando Norma che, in guardiola, era assorta nell’ennesima replica di “Casablanca”, in attesa che finisse il suo turno di notte. Passò oltre, indossò il camice bianco ed accelerò l’andatura. Camminava spedito nei corridoi dell’ospedale, ancora vuoti, diretto verso l’ultima porta sulla sinistra, quella che recava il nome del “suo angelo”: John Macby. La porta cigolò, e in controluce la sagoma dell’uomo alto e snello qual era, occupò l’intero ingresso. Si guardò attorno; dalla finestra penetrò un raggio di sole che illuminò il viso di John, facendo brillare quei suoi occhi perduti nella coltre nera di tanti anni prima.
“Ciao John” – disse Paul con naturalezza, – “come va oggi, tutto bene?”.
John non rispose, la sua anima aveva di certo sentito, ma il suo cuore no, ancora colmo del dolore sempre presente che gli faceva continuamente rivivere il suo passato, piangeva talvolta, sudava e urlava fino a rompersi i timpani, ma sempre dentro di sé, solo. E questo Paul aveva imparato a capirlo. Passava ore ed ore a parlargli, un discorso con un unico interlocutore; ma non si stancava. Fissava con lui l’immensità del cielo quando, seduti alla finestra, tentava di farlo con i suoi occhi, cercando di capire, di provare cosa significasse avere un peso che ti opprime e che non ti dà scampo. Ma il giovane medico non poteva spostare da solo quel masso, aveva bisogno di John, doveva essere soprattutto lui ad aiutare se stesso, per ridare colore a quella parte della sua vita che era diventata buia.
Erano passati molti anni dal suo arrivo in ospedale, qualcuno in meno dal suo incontro con Paul. Si conoscevano bene i due e quest’ultimo aveva provato un improvviso affetto verso il suo paziente, affetto tanto improvviso, quanto inspiegato. Del tutto naturale. La loro era un’amicizia particolare: un rapporto basato sul silenzio, sui sorrisi che nascono e muoiono nel profondo di noi stessi, luoghi in cui fioriscono i veri sentimenti, le vere emozioni. Lo stesso sorriso che, muto per tante volte, colpì Paul una mattinata qualunque, quando, preceduto dal solito cigolio, vide due sottili rughe che si alzarono fino agli occhi, un sorriso innaturale che illuminava l’impassibile volto di John, accompagnato dal “ciao” più meraviglioso che avesse mai udito. Un “ciao” affannato, stentato.
Rispose, balbettando. Dopo tanti anni per Paul si riapriva la via che porta al cuore di un uomo che, anche grazie a lui, ricominciava a vivere. Il suo angelo aveva spiegato le ali per riprendere a volare. Entrò. Quasi non si reggeva in piedi per l’emozione.
Aveva sorriso, aveva risposto al suo affetto!