Un violino per Emma, Maria Concetta Ruggiero_Tricesimo(UD)
_Racconto vincitore ventitreesima edizione Premio Enerrgheia_2017
Emma ricorda spesso suo padre.
Ne rivede innanzitutto le mani massicce e sciupate, deformate dai calli che qualche volta si aprivano in piccoli crateri.
A intervalli, vi comparivano anche sbaffi di vernice colorata. Segno che stava per finire un lavoro.
Ogni tanto, tra la fine della primavera e l’inizio dell’estate, quando sembrava che ci fosse il vento giusto, il padre decideva che quel giorno avrebbero costruito un aquilone. Lui, in verità, usava sempre il termine napoletano, cometa.
In effetti, ciò che preparavano, lavorando insieme, tutti i membri della famiglia che ne avevano voglia, somigliava molto di più a una stella, con la sua coda vaporosa, che a un grosso rapace.
Usavano il tavolo di cucina, quel lungo rettangolo scorticato, come piano di lavoro. Ognuno aveva un compito.
Per esempio, a lei, Emma, l’unica figlia femmina, toccava sempre impastare la colla. Che sia liscia, senza grumi, le raccomandavano. Cominciava sempre mescolando l’acqua alla farina lentamente, poi saliva su uno sgabello per poterla addensare sul fornello più piccolo, il minuscolo sole che cuoceva senza bruciare.
Il padre allestiva l’armatura —un rombo con una diagonale poco più grande dell’altra— tagliando e legando tra loro i listelli di legno. I figli preparavano invece la carta velina che avrebbe ricoperto lo scheletro, sceglievano le forme preferite e decidevano come mettere insieme i colori. Litigavano sempre, almeno un poco. Giallo con il blu, ma forse mi piace di più verde e arancio oppure…
Appena la coda —lunga, più lunga possibile, fatta di anelli oblunghi incatenati tra loro— era stata attaccata, salivano tutti sul tetto a terrazza per il lancio. Si precipitavano su per le scale di pietra, dietro il padre che trasportava la cometa, reggendola al di sopra della testa come un delicato copricapo.
A volte il loro volatile di carta navigava tranquillo attraverso l’aria, sorvolando il giardino e andando anche un po’oltre, fino al nastro della strada provinciale che si allungava al confine della proprietà. E loro lo reggevano a turno, passandosi il filo dall’uno all’altro, arrotolandolo intorno alla mano perché non sfuggisse.
Altre volte le cose si mettevano male. Capitava che il vento troppo forte squarciasse la cometa oppure che essa si incastrasse in un albero troppo alto. Spesso era il noce che cresceva a quattro passi dalla casa a trafiggerla con uno dei suoi rami. In quel caso si recuperava solo il filo, nient’altro.
Allora Emma piangeva per la rabbia, non le piaceva vedere il suo aquilone crocifisso a una pianta, pensare che nessuno avrebbe potuto andare a riprenderlo.
Ma la promessa che presto ne avrebbero costruito un altro bastava a restituirle fiducia.
La prossima volta, spiegava il padre convinto, le cose sarebbero andate diversamente. La loro cometa avrebbe sorvolato gli alberi e la casa, senza perdere mai quota. Alla fine, quando loro avrebbero voluto, l’avrebbero lasciata andare. Solo allora, sarebbe volata così in alto da perdersi nell’azzurro. Come i palloncini delle fiere che salivano senza incertezze e venivano alla fine inghiottiti nel cielo.
Quello Emma avrebbe potuto sopportarlo, anzi le sarebbe proprio piaciuto, immaginare il loro aquilone costantemente lassù, tra le altre cose e creature dell’aria.
Di mestiere il padre faceva lo scalaro.
Quando era bambina, Emma provava imbarazzo se doveva pronunciare quel termine. Perché quasi nessuno lo capiva. Lei avrebbe preferito dire falegname, sarebbe stato tanto più facile. Ma lui ci teneva molto a quella denominazione così rara e così specifica. E lei non voleva deluderlo. Perciò pronunciava la parola scalaro distintamente, lanciandola come un proiettile verso l’interlocutore, anche se le pesava, anche se frequentemente leggeva incredulità o ironia negli occhi degli altri.
Spesso poi le toccava anche spiegare in cosa consistesse. Allora, invece, balbettava, inciampava tra le sillabe.
Suo padre fabbricava scalilli, scale a pioli lunghe ma così strette che tra gli staggi ci stavano giusto due piedi. Sostegni eleganti, simili a ballerine erette sulle punte e con le braccia portate in alto, ideali per infilarsi tra i rami ingarbugliati degli agrumi. Scale più larghe rischiavano di aprire delle ferite nelle chiome.
Era l’ultimo rimasto nella penisola sorrentina e forse ne sentiva l’orgoglio. Non gli importava che di aranci e limoni ne fossero rimasti pochi, sempre meno. Fingeva di non accorgersi che, un mese dopo l’altro, un anno dopo l’altro, il cemento stava spazzando via gran parte dei giardini.
Lui continuava ostinatamente, senza rassegnarsi, a mettere insieme assi di legno per fabbricare i suoi trampoli. Se ne stava ore e ore nel suo laboratorio, un edificio di blocchi di cemento con il tetto in lamiera, freddo d’inverno e caldo d’estate, come un monaco nella sua cella.
Sempre, prima di cominciare, il padre chiedeva al cliente di scegliere il numero dei pioli e il colore della vernice. La tavolozza che usava era limitata, ma, dal suo punto di vista, non si poteva offendere un aranceto con tinte inappropriate. Marrone o verde come i tronchi e le foglie degli alberi cui era destinato. Oppure blu cielo notturno, che gli sembrava star bene con tutto.
Poi, alla fine del lavoro, si concedeva, immancabilmente, un piccolo, segreto atto di vanità. Con una sgorbia, incideva le iniziali del suo nome in stampatello maiuscolo AP, Antonino Parlato, sulla parte bassa di un piolo, in un punto nascosto alla vista (non lo diceva all’acquirente, ma in casa lo sapevano tutti). E per concludere, tracciava accanto alle lettere una piccola chiave di violino.
Emma ricorda come ridevano lei e i fratelli, a volte anche la madre, per quelle chiavi di violino, omaggio alla musica classica, all’opera lirica, che sarebbero finite dentro depositi bui, in vecchi palmenti, all’interno di grotte di tufo infestate da pipistrelli, o, peggio, imbrattate da una zolla di terra umida staccatasi da uno scarpone.
Però i soldi guadagnati con gli scalilli non erano mai abbastanza, soprattutto per quello che comportava tirare su cinque figli. Anche se tutto era perfetto, i pioli un po’ ruvidi per evitare di scivolare, e tutti uguali, gli staggi simmetrici al millimetro, non li si poteva far pagare come opere d’arte.
Erano poveri. Avevano abbastanza da mangiare —del resto vivevano in campagna e c’erano l’orto e il frutteto e le galline— ma poco altro.
Era stata una scoperta dolorosa accorgersi che era una bambina povera. Aveva sette, otto anni quando, un giorno, nelle ore di scuola, aveva notato quanto vecchie fossero le sue scarpe rispetto a quelle della compagna di banco. Nelle proprie, la suola era sottile quasi come un foglio di carta e, nella parte superiore, le crepe affioravano chiaramente sotto la generosa mano di crema spalmata prima di uscire. Erano l’unico paio che avesse.
Così lo aveva capito. Piano piano, altri indizi avevano confermato quell’intuizione.
Qualche tempo dopo, aveva anche sentito, i genitori parlavano tra loro e non si erano accorti che lei era presente, che avevano debiti da pagare. Cambiali. In quell’occasione la voce di sua madre le era sembrata una lama. Aveva pronunciato la parola cambiale come fosse una cosa sporca.
Poi, quello era stato forse il memento peggiore, c’era stata quella lite a tavola. Tra Matteo, il fratello più vecchio, e il padre. L’unica volta in cui, per quanto sia in grado di ricordare, il genitore avesse picchiato uno dei figli.
Matteo aveva sedici anni, quasi diciassette, e voleva il motorino. Dal suo punto di vista, aveva già aspettato troppo. Non una vera moto, anche lui doveva aver capito che erano poveri, si sarebbe accontentato di un Ciao. Quello costava poco, ce l’avevano tanti suoi amici che la sera lo accompagnavano a casa. Il motorino significava libertà, soprattutto per chi, come loro, abitava lontano dal centro. Andare dove si voleva e quando si voleva.
Il padre, calmo, aveva detto: “No, non possiamo.” Senza aggiungere altro. Senza una spiegazione del perché non potessero.
Allora il fratello aveva gridato al padre coglione. E non si era fermato. Pieno di rabbia e continuando a urlare, aveva detto anche altro.
“Sei un coglione perché sei fissato con quei maledetti scalilli! Che ormai non li vuole nessuno. Lo dicono tutti che è una mania, la tua. E così non ci sono mai abbastanza soldi per niente.”
Erano tutti così sorpresi che nessuno aveva provato a fermarlo.
“Siamo sempre diversi dagli altri, noi, i Parlato. Le lezioni di chitarra me le pago da solo, andando a fare il cameriere al bar, la domenica mattina quando i miei compagni dormono. Lo dice persino la nonna che sarebbe ora di cambiare. Di diventare adulto. Lei ti conosce bene, visto che è tua madre. Se ti mettessi a fare tavoli, letti, comò, staremmo tutti molto meglio.”
Lo schiaffo era risuonato nel silenzio come una frustata.
Nel febbraio del 1990, avrebbe compiuto cinquantanove anni il mese seguente, al padre era venuto un infarto.
Fino a quel giorno, aveva continuato la vita di sempre, anche se, nel frattempo, quasi tutto intorno a lui era cambiato. Quattro dei cinque figli avevano lasciato la casa e vivevano altrove (con Matteo litigava lo stesso, anche se sua moglie sembrava una brava ragazza), erano nati i primi nipoti e uno aveva problemi perciò dovevano portarlo di qua e di là per curarlo, il grosso noce era seccato e lo tenevano a stagionare con l’idea di farci un mobile prima o poi.
Alla pensione che stava per arrivare pensava solo come a una fonte di reddito costante su cui contare. Ma non aveva mai preso in considerazione l’idea di smettere di lavorare. Passava ancora la giornata nel laboratorio con gli scalilli, la musica (da qualche anno si era fatto sistemare un impianto stereo in un angolo) e le vernici. Verde, blu, marrone, da poco ci aveva aggiunto anche il grigio. Ci metteva ancora più tempo di prima a finire un pezzo.
Emma di anni ne aveva ventisette e ormai abitava lontano. Si era trasferita a Genova. Anche lì c’era il mare e il vento che cambiava a seconda delle ore del giorno. Suo marito, Stefano, lavorava in pretura. Lei invece faceva la maestra a Monterosso. Tra pochi mesi avrebbero avuto il primo figlio. Una bambina. Avevano già deciso il nome, si sarebbe chiamata Noemi. Le sembrava di essere felice.
La malattia del padre era arrivata senza alcun preavviso. Lui non ricordava di aver fatto gravi imprudenze nei giorni precedenti (il medico gli avrebbe poi detto che le aveva fatte per tutta la vita). Sì, aveva mangiato come sempre un po’ troppo pane, ma chi poteva stare senza, e fumato ogni giorno, lo faceva da oltre quarant’anni, il suo pacchetto di sigarette. Da qualche tempo, aveva lasciato le Marlboro per le MS morbide. Non erano forse tanto più leggere?
La mamma aveva avvertito il marito di Emma, gli aveva telefonato in ufficio, per non spaventare sua figlia. E loro erano tornati subito a Sorrento, guidando di notte in autostrada, e fermandosi giusto una volta per andare in bagno.
Sembrava che il suo vecchio potesse morire. Troppo presto, aveva pensato lei, quando Stefano glielo aveva detto, sentendo all’improvviso un brivido di terrore.
Rivide il padre che non incontrava dall’estate precedente, nel reparto di terapia intensiva. Non sembrava neanche più lui, prigioniero in quel posto che accresceva l’ansia. Per tutto quel bianco e grigio che cancellavano i colori del mondo, per quelle spalle nude così bianche che si intravedevano sotto il lenzuolo (quanti anni erano che lui non si esponeva un po’ al sole?), per le macchine che sostituivano le persone.
La prima cosa che la figlia aveva pensato era che si sarebbe ripreso molto prima se gli avessero portato un po’ di musica. Magari quella Norma cantata dalla Caballè, che gli piaceva così tanto.
Fortunatamente, due settimane dopo, pallido, dimagrito (quest’ultima cosa un po’ lo ringiovaniva), il padre era potuto rientrare a casa. Sembrava fosse fuori pericolo, ormai. Stefano era tornato a Genova, Emma era rimasta a Sorrento.
Non avrebbe più potuto fumare, neanche una sigaretta a fine pasto, avrebbe dovuto mangiare meno e rinunciare anche al bicchiere di vino rosso a tavola. Poi si vedrà, aveva detto il cardiologo. Prima di lasciarlo tornare a casa, aveva fatto le sue raccomandazioni alla presenza della moglie e di tre dei figli, perché il paziente andava sorvegliato. Aiutato.
Poi era arrivato il peggio. Quando il medico gli aveva annunciato che non avrebbe più potuto fare lavori pesanti. Passeggiare, guardare la televisione, leggere magari, giocare con i nipoti. Godersi la vita, insomma, aveva concluso il cardiologo.
Ma di quale cazzo di vita parlava?
Sei mesi di riposo assoluto, molto tempo a letto o in poltrona, oppure camminando pianissimo, passi da formica, come in quel gioco, Regina reginella, che facevano i suoi bambini tanti anni prima. Spostando ogni volta il piede di pochi centimetri.
Alla fine il cuore del padre aveva recuperato abbastanza, la lacerazione sembrava essersi risanata…Ma la noia? Le giornate erano diventate tutte lunghe, dormiva poco perché non si stancava, spesso aveva voglia di litigare. Anche quello però non si doveva fare.
Poi aveva trovato qualcosa leggendo un giornale. Un’idea, un nuovo progetto. E aveva deciso che, sì, poteva provarci. Qualcun altro ci era riuscito, perché lui no?
Avrebbe costruito violini. Oggetti piccoli, raffinati, che richiedevano una manualità fine, un buon orecchio, e quello l’aveva sempre avuto (non riconosceva forse una romanza con solo un paio di note?) e tanta pazienza. Non c’era bisogno di sollevare o spostare grossi pesi.
“Violini?” aveva chiesto Emma, incapace di nascondere la sorpresa e l’incredulità, quando il padre glielo aveva comunicato. “Non ti sembra un po’ troppo difficile?”
Subito dopo se ne era pentita. Certamente l’altro si aspettava piuttosto un incoraggiamento. Perché non avrebbe dovuto sostenerlo? In fondo, lui aveva sempre navigato controvento. Voleva farlo ancora?
Era l’ultima occasione quella, che ci provasse.
Aveva convinto anche gli altri a non metterglisi contro. Qualcosa glielo dovevano comunque. Era stato un combattente e aveva insegnato a ciascuno di loro a non arrendersi.
In sei mesi, il padre aveva fabbricato il primo violino. Come per gli aquiloni, tutti avevano dato una mano (la paura li aveva ammorbiditi), chi trovando le informazioni necessarie, chi procurando il legno, acero e abete e poi sgorbie, pialle, rasiere, chi chiedendo a un musicista di quelli bravi, di verificarne la sonorità.
Successo su tutta la linea, sembrava che il suono fosse meraviglioso.
A sessant’anni suo padre aveva ricominciato. Legno e musica accoppiati. All’inizio, ci aveva creduto solo lui.
Avevano festeggiato, c’erano proprio tutti quella volta, subito dopo che la sigla AP, la sua firma per esteso e il numero 1 erano stati apposti, con timbro a fuoco, all’interno del primo strumento.
Adesso quando era in laboratorio, non portava più quelle vecchie giacche blu da operaio cinese. Si vestiva meglio, camicie a quadri di flanella quasi carine, pantaloni di morbido velluto. Sentiva di dover mostrare rispetto allo strumento così delicato che aveva sul banco, al suo nuovo mestiere di maestro liutaio. Dopo quella parentesi da dimenticare, anche le sue mani erano tornate ruvide e segnate come sempre. Le guardava con un piacere che nessun altro avrebbe potuto capire.
In quindici anni, aveva costruito esattamente trenta violini. Ne regalò uno a ogni figlio, uno alla moglie. Altri furono venduti.
Ne aveva ancora uno in lavorazione, quando il secondo infarto lo spinse in alto senza lasciarlo più cadere. Proprio come Emma avrebbe voluto succedesse a una di quelle loro comete.
Lei è convinta che il suo sia il più bello di tutti. Sua figlia Antonia, la seconda, sta imparando a suonarlo. Chissà!
Ogni tanto Emma tocca il violino perché suo padre lo ha toccato. Lo accarezza, convinta che, anche se non si vede, qualche frammento minuscolo della pelle di lui, l’impronta della cresta di un polpastrello siano ancora là. Attaccati al legno. O alla vernice.
Le basta così.
Sorrento, 2010