L'angolo dello scrittore

Una difficile leggerezza

racconto di Giorgio Fontana tratto da www.giorgiofontana.com

se io caco merda o se lei se la mangia; ora però qualcosa di più serio.

Wolfgang a Leopold, 3/10/1777

Anche ciò che può essere leggero può essere grande.

Leopold a Wolfgang, 13/8/1778

Le notti di Vienna. Le notti di Parigi. Le notti di Firenze e quelle di Londra. Le notti di Madrid. Tutte le notti sono uguali, la fatica è sempre la stessa, e le coperte non pesano meno se dalla finestra vedi un abete o un fiume, una piazza di gitani in festa o un lampione sbavato dalla nebbia. E nelle notti di Salisburgo sono raccolte tutte quelle passate, Leopold, è come un mazzo di carte ben stretto, pesca pure a caso, tanto non cambia nulla. Il figlio ha trent’anni. Dove si trova? L’ultima lettera veniva da Praga, ma le lettere sono strumenti menzogneri, come la luce delle stelle. Restituiscono un’immagine che è già vecchia, già libera dalla mano che l’ha tracciata.

Hai freddo, lo so. Accendi un’altra candela. La cera cotta e liquida di quella vecchia fa da supporto, la incastri sentendo la superficie fra le dita. I gesti ti riescono difficili. È incredibile come anche le cose più semplici diventino problematiche. Non l’avresti mai detto, vero? Non tu. Allora ti fermi per un istante. La fiamma è una cosina piccola e insignificante nel buio della stanza vuota. Sul tavolo ci sono delle partiture, il lavoro segreto, quello che nessuno conosce e nessuno deve conoscere.

Ti fa male la schiena. Sei solo, Leopold. Potrebbe quasi essere il momento di fare i conti, se non li avessi già fatti per tutta la vita. In alto a sinistra ci sono i clarinetti, l’ultima nota è un fa diesis. Sai già come verrà piegata la scala, in che modo la farai inabissare finché non risorgano gli archi, e poi — in un minuscolo, semplicissimo fugato — gli ottoni, e poi il resto, verso la fine. Ci sei quasi, vero, Leopold? Non manca molto, una manciata di battute appena.

E intanto il figlio è a Praga.
Il figlio è Parigi.
Il figlio è a Vienna.

Il figlio è ovunque e tu resti lì, a invecchiare. Nessuno lo crederebbe, ma hai un’idea precisa del futuro. In un certo senso, è bastato rivoltare il passato come un guanto: Wolfgang è un genio. Hai provato a mascherarlo in ogni modo, come potevi, a te stesso e a lui stesso e al mondo intero, nel modo migliore: mostrandolo come tale. Dove nascondere una gemma? In mezzo ad altre gemme.

Da piccolo, il figlio era così diligente. Bastavano due trucchetti — abbassargli l’età, farlo suonare ad occhi chiusi — e tutti aprivano la bocca, sorridevano sbalorditi, come di fronte ai paradossi e alle deformità delle Wunderkammer. Davanti a un bambino, erano loro a diventare bambini. Che magnifico paradosso! Qualcuno ti aveva accusato (e molti lo faranno ancora, Leopold) di aver creato due mostri, il figlio e sua sorella. Di averli costretti a fenomeni da baraccone, tristissimi lacché dell’aristocrazia europea, di aver rubato la loro infanzia.

Idiozie. Cos’è l’infanzia, se non il momento dove la possibilità comincia a diventare destino? E questo tu stavi cercando di fare. Questo soltanto. Compiere un destino.

Il figlio è un genio. Hai impiegato tempo ad accettarlo, e ancora più tempo a non rivelarlo mai nelle tue lettere, forse nemmeno alla tua coscienza. Ma ora vuoi soltanto una cosa: che il suo genio rimanga. Che per tutto il resto del tempo — se questa espressione ha un senso — l’umanità si raccolga di fronte alla sua opera. In cerchio. Come nei teatri greci. Come se davvero esistesse qualcosa capace di trascendere gli spazi e gli istanti. Questo vuoi. Ma c’è un corollario. Ormai lo sai, l’hai capito. L’unico destino di un genio è quello della morte: l’apoteosi della forma sulla materia, della mente sul corpo. La tua rassegnazione si circonda di fuochi, come per scaldarsi.

Questa è la prima cosa. Forse la più importante. Quella che rimarrà, senz’altro.

La seconda invece la tieni fra le mani, e fra poco sarà una stanza di archi in cui un oboe richiamerà la frase iniziale — una frase dolcissima, l’incanto del legno, l’esattezza del re maggiore. Sai (non lo sai ancora di preciso, eppure ne sei certo) che questa frase non salirà in un crescendo, ma si scioglierà in un lago più vasto, in un finale che non ha nulla di brillante, o di energico: ma che è come il movimento di una palpebra che si chiude, lentamente, declinata dall’ombra. Questa è la seconda cosa, Leopold: il lavoro segreto. In un angolo riposto della tua coscienza, sai che il padre deve soccombere al figlio. È una legge antica, e nessuno può trasgredirla. Del resto, per cosa potresti essere ricordato? Per Le nozze contadine? La Sinfonia burlesca? Per la tua Violinschule? Figuriamoci.

Ma passare una vita a comporre serenate, con un cervello come il tuo… Be’, occorreva dell’altro. Non che questo ti contraddicesse, andando contro il pragmatismo. Al contrario. Era semplicemente l’ennesimo conto in una vita fatta di calcoli: per riempire la tua esistenza ci voleva un altro piatto di bilancia, dove scaricare il tuo amore per la bellezza, tutta la bellezza autentica di eri capace. Perché ne eri, ne sei capace, Leopold: senza alcun genio a portarti consiglio, senza muse né dei cui affidarsi: col solo travaglio di una vita, con la sola pialla della pazienza. Una difficile leggerezza. Un difficile equilibrio…

Sai che a un certo punto, fra non molto, questo lavoro finirà. La tua mano segnerà l’ultima nota, Dio permettendo. Il tuo lavoro sarà pronto per le fiamme. Ne ricorderai alcuni frammenti, se la memoria ti accompagnerà fino alla fine: forse li canterai sottovoce prima di dormire. Il rammarico di non saperlo eseguito è poca cosa, accanto alla consolazione di averlo composto. Sarà con te per sempre.

Ora sbadigli: sei stanco. La tua palandrana sembra tenere meno caldo, la candela illuminare sempre meno. Le percezioni si allontanano dalla realtà, il mondo non corrisponde più alla coscienza. È l’ora di andare a letto. Spegni la fiamma con due dita, tremando appena al bruciore del tocco. Domani dovrai rispondere a Wolfgang, e scrivere a Nannerl, e rimproverare il tuo servo perché non ha pulito il vassoio come si deve.

Domani.

Ora però tutto è sciolto nel buio, e tu sei solo con un pensiero. Il pensiero ti ripugna, o fai in modo che ti ripugni, perché dopotutto sei un vecchio austriaco: ma forse tutto questo — queste note, questa frase d’oboe, e il tuo lavoro, e il destino del tuo lavoro — forse tutto questo si chiama amore. La notte di Salisburgo che contiene tutte le altre, e muore all’alba, semplicemente, come ogni notte. La musica di un padre che contiene quella del figlio — e brucia lentamente, brucia e se ne va, per lasciar posto ad essa, per lasciar posto a Wolfgang.

Forse, Leopold, questo si chiama amore.