Una tempesta_Francis Mugo
_Racconto finalista quarta edizione Premio Energheia Africa Teller.
Traduzione a cura di Maria Rosaria Silvano
Lungo il tragitto, mia madre esclamò: “Su, coraggio figliolo, siamo quasi arrivati in città”. Non dicevo mai niente ma con riluttanza tiravo il carretto fatto a mano camminando dietro di loro. Un’enorme incerata, stesa e legata, ricopriva una montagna di oggetti ammassati sul carretto: polli, qualche capra e molti sacchi contenenti pochi alimenti e vestiti.
Sbottonai ancora una volta l’ultimo bottone della camicia affinché la brezza potesse rinfrescare il mio corpo sudato. Respirai affannosamente e dopo aver preso una boccata d’aria, tirai più forte il carretto per raggiungere un gruppo di donne tristi con i loro bambini in lacrime. Camminammo per tutta la notte senza mangiare, eravamo molto stanchi e affamati.
Percorremmo tanta strada dal nostro villaggio, quasi 45 miglia. A casa non c’era nulla da mangiare. Tutte le nostre bestie erano morte, tranne le due capre che avevamo salvato. Avevamo veramente bisogno di qualcosa da mangiare. Mia madre era molto preoccupata per nostra sorella, gravemente malata, che sarebbe morta se non le avessimo procurato del cibo. Si aggirava confusa e quando apriva gli occhi tutto ciò che riusciva a fare era tener fisso lo sguardo. Intorno a noi vi era tanta incertezza.
Mio padre e i miei due fratelli più piccoli, che inizialmente avrebbero dovuto accompagnarci, ci garantirono che sarebbero tornati il giorno dopo.
Un uomo di mezza età, fermo in piedi, masticava una canna. Sarah, un’amica della mamma guardava divertita. Sembrava scrutarlo dalla testa ai piedi, lo osservò rapidamente più di quanto un uomo possa tranquillamente fare.
“Dobbiamo parlare con lui. Ci deve risparmiare questa agonia”.
Il paesaggio era desolato, tetro, terribilmente arido. Gli abitanti non erano abituati a sopravvivere in un ambiente così secco ma per due anni e mezzo la siccità ci aveva distrutto. Le uniche parole che ricordo che mia madre pronunciava sotto voce erano: “Non ce la facciamo più ma crediamo in Dio”.
Il giorno dopo ci raggiunsero mio padre, accompagnato dai vicini, e mio fratello maggiore. Non potevo fare a meno di guardare un vecchio mzee stanco, del resto mio padre era sempre preoccupato per la sua famiglia.
Arrivammo in una piccola città con poche case in pietra circondate da capanne di fango. In due giorni i profughi arrivarono a 2000. Due grandi tende costituivano un ospedale locale; davanti alla prima vi erano più di cento donne e bambini, compresa mia madre, che facevano la fila per ricevere assistenza. Ricordo un giornalista che chiese al dottore quanta gente pensavano di visitare quel giorno. “E’ inutile contare”, disse, “stiamo cercando di fare quello che possiamo per loro”. In un primo momento volevo contare in quanto ero stato abituato a farlo, ma c’era gente dappertutto, sui letti, per terra tra i letti, fuori sulle verande, sulle sedie, tutti che si lamentavano. La seconda tenda faceva un po’ più paura.
Vi erano bambini molto deboli ed emaciati.
Chiusi gli occhi e pregai Dio. Scese la notte e non ci avevano ancora visitato. Eravamo ormai congelati quando ci diedero qualcosa da mangiare.
Avvolsi il mio corpo freddo nei vestiti malconci e strappati, per un po’ mi trascinai invano come una povera anima in cerca d’aiuto. “Questa crisi individuale e familiare ci aveva resi profughi imprevedibili e volubili pronti a emigrare con pochi oggetti personali”. Lungo il tragitto verso questa città-asilo rischiammo abusi fisici e omicidi e fu difficile integrarsi con l’altra comunità che parlava una lingua simile alla nostra.
La vita nel campo era strana. Non riuscivamo a prendere molto di quello che le nostre mamme avevano preparato. I nostri padri aiutavano ad installare tende provvisorie con lunghi pali asciutti. I bambini emaciati soffrivano, nessuno era soddisfatto ma la speranza e la bontà ci tenevano vivi.
Questa terra desolata ed incredibilmente arida era il vero epicentro della nuova tragedia della carestia. Il personale medico distribuiva biscotti e pane, ma fu terribile sentire uno di loro dire: “Non possiamo darne di più, non ne è rimasto molto nei magazzini. Sono passati sei giorni da quando è arrivato l’ultimo camion di scorte e Dio solo sa quando arriverà l’altro. “Le razioni diminuirono inaspettatamente e ancora una volta fummo costretti a morire di fame. Le scorte non erano sufficienti. Riconosco il merito dell’uomo bianco che distribuisce acqua pulita alla gente. I corsi d’acqua erano secchi, le rocce nere e i letti dei fiumi secchi e vuoti giacevano come pezzi da museo.
Gli animali erano completamente disidratati.
Mio padre non sopportava di aver perso ingenti quantità di bestiame per la siccità. La morte del toro regalatomi da mio zio mi rese ancora più triste. Era tradizione per un ragazzo iniziato ricevere un toro dallo zio.
Tutte le carcasse degli animali giacevano sui campi da pascolo inariditi, adesso infestati dagli avvoltoi. Scoppiai in un pianto disperato.
Ricordo due episodi che sembravano essere la causa della nostra emigrazione. Il primo riguarda quattro ragazzi che banchettavano sulle carcasse degli animali, tre di loro morirono. L’altro che era andato a prendere della legna sopravvisse, stranamente. Dopo aver mangiato un po’ di carne, il ragazzo cadde per terra e incominciò a chiedere dell’acqua. Non c’era acqua.
Il suo stomaco gli faceva molto male e da come si muoveva era evidente che stava per morire. Ero così sconvolto che svuotai la vescica nella direzione opposta; il ragazzo prese il mio pene e succhiò la mia urina. “O mio Dio! Cosa stai facendo?” non mi diede il tempo di finire la frase che l’aveva già deglutita. Ancora oggi credo che la mia urina gli abbia salvato la vita.
Non posso dirlo con certezza, ma sono sicuro che un miracolo si era appena compiuto. Quel giorno, le donne gridavano e gli uomini incendiavano una palla per commemorare la morte dei tre ragazzi. Un vecchio signore che osservava in un silenzio tombale disse: “Non possiamo più sopportare questa situazione, dobbiamo abbandonare questo posto, abbiamo seppellito abbastanza”. Dolore, grida e contemplazione erano sotto controllo.
Il secondo episodio riguarda alcune adolescenti stanche e affaticate. Vittime di abusi sessuali, piuttosto frequenti, si erano fatte violentare in cambio di cibo e indumenti.
Questo episodio favorì il dilagarsi di vizi sociali.
Non avremmo potuto sopravvivere se l’aiuto umanitario ai bambini e ai profughi in tali difficili condizioni non avesse sensibilizzato e mobilitato la popolazione su questioni fondamentali al fine di garantire autosufficienza nel soddisfacimento dei bisogni primari. L’attenzione agli svantaggiati dovrebbe portare armonia. Dio è grande, la terra adesso è ricca di miglio e di sorgo. La stagione scorsa il raccolto è stato abbondante; ne conserveremo una parte e il resto sarà dato agli svantaggiati.