I brevissimi 2015 – Vendetta in divisa di Francesca Lav, Milano
_Anno 2015 (I sette peccati capitali – L’Ira)
Lui era quello a cui piacevo vestita da brava ragazza. Andavo a casa sua con la camicetta bianca ben stirata, i jeans chiari a sigaretta e la faccia pulita. Lui si faceva fare un pompino quasi sulla soglia, senza spogliarmi, senza sciogliere la coda di cavallo che portavo ordinatamente in testa. Aveva circa 40 anni, occhiali spessi, pancetta prominente e uccello piccolo.
Altri mi preferivano in lingerie di pizzo e trucco audace, o con corsetti di latex. Adoravo non deluderli e restare perfettamente aderente al loro immaginario.
Quasi tutti volevano le solite cose: sesso con poche varianti, pecorina, missionaria o io sopra, raramente anale, spesso orale. Un biondino di neanche 30 anni mi chiedeva soltanto di pisciargli addosso e un dentista fingeva di spiarmi in compagnia dei miei vibratori. Tutti mi raccontavano della loro vita, specialmente della noia e dei dissapori, io non raccontavo nulla ma ascoltavo ogni parola e mi divertivo. La loro eccitazione era contagiosa e godevo molto, sia del sesso che delle loro confidenze, che dei soldi.
Così facendo, ho pagato la vacanza al mare al mio gruppo di amiche e mi sono comprata la macchina. Ho detto a mia madre di averla vinta con i punti delle merendine. Ci ha creduto, e anche il mio ragazzo ha creduto che potevo offrirgli da bere grazie alle ripetizioni. Odiavo mentire, ma non mi avrebbero capito. Nessuno avrebbe capito. Dovevo scegliere il silenzio.
Poi.
Poi è arrivato il supplente di matematica. Ed era proprio lui.
Ci siamo riconosciuti subito e siamo sbiancati. Mi ha fermato dopo la campanella e mi ha detto che ero troppo giovane per farlo, che ero malata di testa, sicuramente traumatizzata. Eppure mi sembrava che la mia bocca 19enne gli risultasse perfettamente sana, fino al giorno prima.
Ha detto che se non avessi bloccato il mio cellulare nascosto e oscurato il mio sito col nickname, le foto senza volto e il prezziario l’avrebbe detto a mia madre e al servizio sociale.
Non scherzava e io ho ubbidito come quando mi diceva “Adesso inginocchiati”. Ho chiuso il mio sito e ho buttato la SIM.
Da quel momento ho scoperto il significato dell’odio.
Il suo ricatto crudele e mi obbligava a godere troppo poco per i miei gusti: non potevo coccolare i miei clienti, perdevo il filo delle loro vite e dei loro desideri, si era prosciugato il mio entusiasmo. Ero intrattabile, il mio eros ingabbiato diventava ira e rispondevo con insulti persino alle feste del mio cane.
Ho pensato a tutte le vendette possibili: non aveva una moglie da sconvolgere con le mie confessioni e ho immaginato di rigargli la macchina, di boicottare le sue lezioni, di far sputare i miei compagni nel suo caffè.
Mentre io soffrivo lui sorrideva tronfio per la sua presunta buona azione. Aveva tolto una ragazzina dalla perdizione, non sapendo di stare costruendo una potenziale assassina. L’avrei messo sotto con la macchina o, ancora meglio, con l’autobus di linea.
Fortunatamente una sera proprio mia madre mi ha dato l’idea. Non sopportava stirare e mi disse che era molto felice di non vedermi più indossare le camicie. Penso di aver alzato un sopracciglio e di averla ringraziata.
Come una divisa, ogni santa mattina: prima fila davanti alla cattedra, zero trucco, coda di cavallo stretta, jeans chiari e camicie bianche.
Le mie compagne di classe ridevano, chiedendomi dove fosse finita la mia estetica da centro sociale. Ridevo pure io perché lui in cattedra impallidiva e sudava.
Dopo un mese mi ha chiesto di incontrarci in bagno, vedevo i suoi pantaloni in procinto di scoppiare.
Gli ho detto “forse”, ma solo dopo la riattivazione del sito, della SIM e della mia routine. Nel giro di poco ho ripreso a godere. Anche a guadagnare, ma quello è secondario.
In bagno non ci sono mai andata. Io scopo per passione con chi mi piace, e lui mi aveva disgustata.
Quando la mia vecchia prof di matematica è tornata dalla maternità, l’ho accolta felice, con la mia solita kefia attorno al collo e il mio solito sorriso appagato.