Le parole dei giurati

Viaggio sentimentale da Modena a Matera!

– di Maurizio Bettelli
Presidente  giuria  Premio Energheia 2005_XI edizione_

 

Un altro premio letterario. Come se non ce ne fossero abbastanza. E mai nessuno che pensi a organizzare un premio di… lettura. In questo bizzarro paese che conta più scrittori che lettori, un premio dedicato ai lettori brillerebbe certamente per originalità. Così pensavo mentre rispondevo “OK verrò” a una voce femminile dal suono gentilmente meridionale che, dall’altro capo del telefono, mi invitava a partecipare come giurato al Premio Energheia di Matera.
Matera. Quanti anni che non vado a Matera. L’ultima volta c’ero andato al seguito di Totem: una sorta di circo letterario itinerante dove in cartellone il numero di Omero veniva subito dopo quello di Rostand e appena prima di quello di Carver in un vortice affabulatorio senza soluzione di continuità. A me toccava l’arduo compito di interrompere quel magico flusso narrativo avventurandomi con la mia band nel racconto e nel canto di una delle più dolci e atroci ballate di Woody Guthrie: Deportees. Girammo per i teatri d’Italia dal 1997 al 2000, poi il circo approdò in tivù e Totem divenne un’altra cosa.
Sarà stato la fine di agosto quando ho ricevuto per posta una grande busta bianca. Conteneva i dattiloscritti dei finalisti del premio Energheia. L’ho aperta in fretta, c’era un plico di fogli stampati e una lettera di accompagnamento con le istruzioni per l’uso. Su quei fogli c’erano i racconti, dieci più due ex-aequo, stampati nero su bianco in formato A4. Un certo peso. Qualche manciata di giorni di tempo a disposizione. Quando li leggerò? Non oggi. Non domani. Più avanti.
La settimana successiva prendo in mano il plico e cerco di darmi un metodo. I racconti sono divisi in due gruppi, a seconda dell’età dei concorrenti. Da una parte gli under 20, dall’altra tutti gli altri: le istruzioni ricevute sono esaurienti al riguardo.
Decido di cominciare dai racconti degli autori più giovani. Non c’è un motivo preciso, forse inconsciamente ho paura di trovarli ingenui o scialbi se letti dopo gli scritti degli autori più maturi, o più semplicemente sto cercando di darmi un ordine di lettura.
Leggo il primo racconto della categoria under 20. Non mi sembra un gran che. Quattro. Lo rileggo. Mi sembra meglio. Cancello quel quattro, meglio leggerne alcuni prima di dare voti. Ne leggo un altro. Insomma, un po’ meglio. E poi un altro, e un altro, e un altro ancora.
Man mano che leggo mi sento invaso da un inspiegabile senso di tristezza. La maggior parte di quegli scritti racconta storie di bambini malati o deformi e comunque tutti incompresi e alle prese con genitori distratti, egoisti o completamente assenti, dove l’unico punto di riferimento familiare riconosciuto come affidabile è dato dal nonno, o dalla nonna. Da quei racconti vien fuori un vuoto enorme, silenzioso e incolmabile, tra figli e genitori. Non c’è dialogo, non c’è tenerezza, non c’è… amore. Ma come? Stanno parlando della mia generazione!? Questi giovani autori stanno mettendo, nero su bianco, il fallimento affettivo di quelli che oggi sono miei coetanei, e me lo stanno sbattendo sotto al naso con la stessa freddezza con cui un coroner consegna il referto di un’autopsia. Mi viene da pensare ai miei figli. Lascio perdere i racconti. Li rileggerò più tardi. Magari domani, magari in treno.
L’inter-regionale arriva in orario, al binario 3 della stazione grande di Modena. Scendo a Bologna. La coincidenza con l’Eurostar 9415 delle ore 12.56 è annunciata con un ritardo di 5 minuti. Mi aspetta mezz’ora di attesa. Mi guardo intorno. Ai tempi dell’università la stazione di Bologna era un luogo familiare. Quasi ogni mattina alle 8.24 sbarcavo qui e poi via di corsa verso le aule di via Zamboni. Finché un 2 agosto del 1980 alle ore 10.25, con un boato che si è sentito fino all’inferno, il cuore della stazione di Bologna si è spaccato in due. Un solco profondo come una ruga sul volto di una vecchia signora che deturpa il profilo e ne sciupa il sorriso. Eccolo lì il solco, immobile e ancora assordante, come l’interminabile lista di nomi scolpita sul muro della stazione che urla giustizia e riflette l’incredulo sguardo di chi ci passa accanto.
Un Eurostar dal profilo di drago scintilla e sferraglia, si accosta e spalanca le porte. Mi lascio inghiottire e recupero il mio posto-prenotazione-obbligatoria accanto al finestrino.
Il treno attraversa la campagna scivolando sui binari. Guadagna velocità divorando ettari di paesaggio. Il sole è alto e caldo contro il finestrino, esercitando una leggera pressione del dito su un cursore abbasso la tendina. Ombra. Assieme a me sul vagone ci sono altre tre persone, una ha lo sguardo incollato al display di un telefonino e ogni tanto ridacchia in sordina, un’altra ascolta musica da una cuffia collegata a un I-Pod, la terza sta picchiettando freneticamente le dita sulla tastiera di un laptop. Mi sento orgoglioso di vivere in un paese tecnologicamente avanzato. Ma il mio pensiero è interrotto da una voce dal tono professionalmente burocratico che sta scivolando fuori dagli altoparlanti sparsi lungo il vagone per informare i gentili passeggeri che il treno ha accumulato venti minuti di ritardo.
Da Rimini in poi le stazioni attraversate in velocità dall’Eurostar hanno i nomi delle vacanze: Riccione, Gabicce, Cattolica, Pesaro, Senigallia… La campagna lascia il posto ai gelati e alle bandiere, alle cabine e agli ombrelloni in technicolor. Solo il mare sembra in bianco e nero. Qui il mare ha il colore indefinito del minestrone e bisogna confondere le acque agitando lustrini e paillettes per distrarre il turista. Chissà cosa spinge tedeschi, danesi, svedesi -e ultimamente ucraini e polacchi- a masticarsi ore infinite di code e di asfalto rovente per venire fin qui.
Tiro fuori il plico dei racconti dalla mia borsa, il viaggio è lungo, ho tempo a volontà per rileggere ancora una volta quelle storie. Ce ne sono due o tre che mi piacciono particolarmente, e tra queste una su tutte è decisamente divertente. Chissà chi può aver scritto questo racconto. Sicuramente una ragazza. Il racconto si intitola Sessantaquattro punti ed e l’unico tra i dodici finalisti ad avere uno stile e un ritmo convincenti. E poi in qualche punto fa anche ridere, il che non guasta!
Ogni tanto alzo lo sguardo dai manoscritti e lo spingo oltre il finestrino. In spiaggia qualche mamma con bambini che giocano a palla, qualche pensionato alle prese con una canna da pesca, due ragazze inguainate in costumi variopinti corrono sul bagnasciuga, barche in una marina, altri stabilimenti, altre spiagge e altri ombrelloni, palme, giardini, stabilimenti.
In Ancona il treno si infila in un tunnel interminabilmente buio. All’uscita la luce è una lama che ti costringe a stringere gli occhi in fessura. I sassi bianchi del Conero riflettono il sole abbacinante e rifrangono le onde di un mare che finalmente ha il colore del mare.
Il treno sembra correre sull’acqua, sospeso a mezz’aria, in equilibrio sull’acciaio come un funambolo sul filo. In fondo in fondo, sulla linea dell’orizzonte, ti sembra di intravedere le sagome rotondeggianti delle prime isole della Dalmazia, ma è solo un’illusione, uno scherzo messo in scena dai raggi del sole che rimbalzano sul pelo dell’acqua.
Oltre il Gargano, oltre il golfo di Manfredonia, è già Messico. Il paesaggio è un tavoliere sconfinato e riarso dal sole. Le case piccole, bianche, incompiute, sparse sul territorio come sassi gettati più in là. Ogni tanto colonne di fumo si alzano in lontananza. Contadini bruciano le piante vecchie del pomodoro per preparare il terreno ad accogliere quelle nuove. Lontano la sagoma piatta di un altopiano, sembra una mesa. Ti aspetti di veder arrivare qualche caballero col sombrero al galoppo in una nuvola di polvere. Ecco, laggiù, guarda! il malvagio Maefisto in
seguito da Tex Willer e Kit
Carson.
Nel frattempo il vagone si è riempito di persone. Una famiglia di neri -marito, moglie e quattro bambini- occupano i loro posti prenotati. La donna è arrotolata in un abito variopinto dalle tinte tenui amaranto, senape, ocra, malva, nero. L’uomo ha un vestito impeccabilmente bianco. I ragazzi in jeans, maglietta e scarpe da ginnastica sono seduti composti e guardano il film western che scorre al di là del finestrino. Uno ha in mano un libro aperto e legge. Di fronte a me si è seduta una coppia di mezza età. Occhiali da sole, lino, sandali, è ancora estate nonostante settembre. Altre persone sono sedute in ordine sparso lungo il vagone. Suoni si intrecciano e si sovrastano, le voci come quelle di un coro si rincorrono su un pentagramma fatto di vocali aperte e allungate, di consonanti raddoppiate e marcate. Qui è Messico e si parla un’altra lingua, più dolce, più armoniosa, più lenta. Anche il treno sembra adeguarsi a questa nuova cadenza e rallenta la sua andatura, fregandosene allegramente del ritardo accumulato, que pasa, hombre?. Sullo sfondo il sole sta scivolando dentro a un mare rosso viola al ritmo lento di un’orchestra mariachi.
E’ quasi buio quando il treno entra sudato e trafelato alla stazione di Bari. Giovanni, uno degli organizzatori del premio, è venuto fin qui per accompagnarmi a Matera in auto. C’è solo una ferrovia privata che collega Matera col resto del mondo, mi dice Giovanni, e non si sa mai quando partono e neppure quando arrivano questi treni. Ti vien da pensare alla privatizzazione e un brivido ti attraversa la schiena. Giovanni mi parla del premio Energheia. E’ orgoglioso che questa sia l’undicesima edizione, anche se si auspicherebbe maggiori aiuti da banche e aziende private. Ma qui c’è aria di crisi, dice Giovanni, e l’economia arranca a fatica. Mi racconta che la Barilla ha deciso di abbandonare i pastifici del materano. Nei prossimi mesi l’impero della pasta si porterà via i macchinari per andarli a impiantare in qualche altro Messico, o Bulgaria o Polonia. Resteranno solo i capannoni vuoti, carcasse senza anima di un sogno andato in frantumi contro il muro della deregulation.
Matera è tutta luci e suoni, si sta preparando a festeggiare Sant’Eustachio, il patrono della città. Il viale principale è addobbato con enormi sostegni a forma di arco che di sera si accendono nella luce di mille lampadine. Di giorno, a luci spente, questi archi ricamati nel legno sembrano portali orientali aperti sul cuore della città.
A cena conosco Rossella e Felice, i motori del premio Energheia. Felice ha un sorriso che trasmette serenità e uno sguardo veloce. Rossella è una figura sottile e minuta, ti fa venire in mente la porcellana, poi vieni a sapere che è cintura verde di kick-boxing e sorridi tra te e te pensando all’ingannevolezza delle apparenze.
In giuria siamo in cinque: Andrea Bajani, Fabiano Massimi, Fabio Scaloni, Beatrice Volpe e il sottoscritto. Non ci conosciamo tutti, ma dopo pochi minuti sembriamo cinque vecchi compagni di liceo. E in questa atmosfera da gita scolastica vengo eletto, a tradimento, presidente della giuria.
A Matera c’è un museo archeologico che sembra un giardino, è ricavato all’interno di quel che resta del chiostro dell’antico convento di Santa Chiara. In questo giardino delle meraviglie si svolge la premiazione dei vincitori dell’undicesimo premio letterario Energheia.
Tutta la città ha partecipato alla realizzazione di questo premio, una scelta schiera di lettori materani ha filtrato gli oltre trecento racconti arrivati alla segreteria del premio e ne ha distillati una decina. Rossella e Fabio, assieme a Giovanni, a Rita a Francesco e a tanti altri amici sono riusciti, con passione e sacrificio, a portare a termine con successo per undici volte un premio che negli anni è diventato europeo.
Questa edizione è stata vinta da Sessantaquattro punti e, con una certa meraviglia mi son trovato a premiare un ragazzo di 27 anni di Tortona, Marco Candida, al posto di quella ragazza che avrei scommesso essere l’artefice del racconto!
Poi sono stati premiati anche i vincitori delle altre categorie e tra questi Asher Salah, traduttore di Abraham Yeoshua, che ritirando il premio Energheia Europa per il racconto L’ultimo ebreo ha dichiarato, lui ebreo di Israele, che si impegnerà in prima persona per diffondere questo premio tra i suoi colleghi palestinesi, perché anche un racconto o un premio letterario possono essere una strada per venirsi incontro.
In questo nostro strano paese, dove i riflettori sono puntati sulla vanità di un calciatore o sulla vacuità di una velina, sembrerebbe che i segni di una vita intellettuale ancora pulsante siano da andare a ricercare tra le colonne malferme di un antico convento, in una città che è un presepe vivente scavato nel tufo spalancato su un cielo cobalto e africano, graffiato da altre comete.

Maurizio Bettelli
Presidente Giuria Premio Energheia
XI Edizione