Voglio regalarti un’altra vita di Elena Sofia Mancini, Rieti.
_Racconto finalista ventiduesima edizione Premio Energheia 2016.
NOTA DELL’AUTORE
Questo racconto è dedicato a tutte quelle persone che vengono dimenticate dalla Storia e dal mondo, ieri come oggi.
Dicono che la vita sia come una partita a scacchi o perché no come una partita a calcio, quelle nelle piazzette alle tre del pomeriggio con le felpe che fanno da porta. Tutte teorie forse giuste, ma infondo nella parte più nascosta della nostra anima ci siamo mai domandati come sia realmente la nostra vita? E se avesse uno scopo ben preciso? Molti come i saggi, i grandi pensatori, trovano nella meditazione e nella ricerca il loro scopo, altri preferiscono il denaro, alcuni la via della redenzione, altri ancora si sentono completi recitando, e quelli come me si sentono completi correndo. Si, proprio mentre correvo mi sentivo bene, amavo quando il vento ti viene contro e ti scalfisce le guance o quando rimani senza fiato per la tenace forza di una salita. Bene, quelli come me non si accontentavano , alle volte si perdevano ma non mollavano, continuavano anche senza forze a lottare contro il tempo, contro quel millesimo di secondo che ti separa dall’ infrangere i tuoi limiti. Amavo il rumore cadenzato dei miei passi sull’asfalto, come quelle gocce che cadono dalle stalattiti nelle grotte buie, di notte, in silenzio. Amavo il sentirmi libero, la sensazione di toccare il cielo e di perdere l’equilibrio: in quella frazione di secondo in cui i miei piedi non toccavano terra. Amare la corsa per me significava amare la vita, correvo da quando avevo capito che il tempo era il mio unico nemico, da quando avevo capito che se non corri per andare a prendere i tuoi sogni, nessuno lo farà per te. Correvo, e sentivo di poter cambiare il mondo. Di oppormi alle verità assolute, alle idee maggioritarie, agli schemi imposti: era nella mia indole pensare diversamente. Ero diverso dai miei amici, loro correvano senza uno scopo, io correvo perché la vita
non poteva vincere. La mia casa era l’ultima in fondo al villaggio, fatta di mattoni cotti e tetto in legno, bassa e di un colore biancastro con un pezzo di terra davanti, che con un po’ di fantasia assomigliava a un giardino. Abitavamo lì, io e mio padre, nell’ultima casa in quel posto apparentemente dimenticato da Dio, in cui le giornate scorrevano tra lavoro e fame. Avevo 15 anni quando mio padre scomparve, e con lui altri uomini del villaggio. Quella mattina mi salutò come di solito, con un bacio sulla fronte, e guardandomi con i suoi grandi occhi color carbone mi disse quasi piangendo, che non mi dovevo preoccupare e che la vita a volte picchia duro ma non bisogna farla vincere. Era un uomo dolce mio padre. Dopo quella mattina non lo vidi più, e non seppi mai nulla sulla sua fine. Potevo, solo immaginare. Passarono giorni e poi mesi e la mia vita sembrava destinata ad essere per sempre grigia, in quel piccolo spazio di mondo in cui colori avevano cessato di esistere. Mio padre si era sbagliato, la vita stava vincendo e io non facevo nulla per permettergli di non uccidermi. Senza cibo , senza corrente elettrica ero rimasto solo e senza uno scopo. In quei tempi la situazione dell’intera regione stava cambiando, insurrezioni e guerre etniche stavano trasformando il paese in un focolaio di guerra. Una guerra tra uomini , i cui combattenti erano persone che non condividevano la stessa stirpe, uomini e donne persi in un mondo in delirio. Molti del mio villaggio andavano via, scappavano, emigravano. Ricordo ancora i loro volti, le loro valigie di cartone che tenevano strette come ultimi tentativi per non far volar via un ricordo. Volti che abbandonavano la loro terra, occhi di chi sente di aver perso la dignità per qualcosa che non ha commesso. Mentre quel agglomerato di case si spopolava, io cercavo di vivere le mie giornate come se ciò che stesse succedendo non potesse toccarmi. Non riuscivo a capire il perché e cosa ci fosse di così sbagliato, vivevo in Dalmazia da quando ero nato, nessuno poteva cacciarmi da quella che era casa mia, pensavo. Invece mi sbagliavo. Ricordo che era una bella e fresca mattina di primavera quando ripensai a quanto la corsa mi aveva aiutato nei momenti difficili. Così, preparai un pezzo di pane, lo avvolsi in un fazzoletto e uscendo di casa lo misi in tasca. Lasciai che il vento scalfisse le mie guance, allacciai le scarpe e guardando verso l’orizzonte iniziai a correre sulla strada polverosa, lasciandomi dietro le mie paure e i mei dubbi. Corsi, Dio quanto corsi, attraversai sentieri, campi, e tutta quella terra carsica fatta di rocce, correvo contro lo scorrere di una storia troppo crudele. Tutti infondo sapevamo ma nessuno
ne parlava. Per un momento, un solo instante, sentii che potevo oppormi, che dovevo impedire alla vita di vincere. Sembrava che avessi il mondo in pugno e che sarei stato il fautore del cambiamento. Ma fu proprio in quel momento che udii delle urla, in una lingua che apparentemente non sembrava la mia. Ascoltai il sangue fermare il suo corso, il mondo sembrava muoversi al ritmo delle mie palpitazioni, secondi eterni che non dimenticherò mai. Mentre le mie capacità cognitive riprendevano, le grida si fecero sempre più intense, come se due o più uomini stessero urlando verso qualcuno. La curiosità dei miei diciotto anni prese il sopravvento, e mi avvicinai. Rimasi con il fiato sospeso dietro dei cespugli. Non capii subito cosa stesse succedendo, vedevo solo due uomini armati, in divisa, che urlavano verso qualcosa. Non riuscivo però a vedere a chi si stessero rivolgendo. La freddezza nei loro occhi era imbarazzante. Poi mentre cercavo di capire, una figura femminile si stagliò difronte ai miei occhi. Non aveva più di trenta anni, bionda, non tanto alta, indossava un vestito celestino con delle roselline sulla gonna. Urlava anche lei, percepii nella sua voce la paura e la rabbia di chi ha visto il dolore . Dopo pochi istanti notai che qualcuno le si stava nascondendo dietro, come quei cuccioli di cerbiatto indifesi difronte ai cacciatori. Era un bambino, magrolino, pantaloncini, calzoni al ginocchio scarpe nere consumate e vecchie con una maglietta rossa. I suoi occhi marroni avevano paura. La sue mani tremavano e si aggrappavano alle balze della gonna materna. Quando vidi quel bambino il mio cuore pianse, pianse lacrime amare, cosa aveva commesso per subire tutto questo? I miei pensieri però furono interrotti da uno sparo. Un suono sordo. Improvviso. Poi il silenzio. Rimasi immobile. Ora in quella radura solo una maglietta rossa si stagliava in piedi con gli occhi sgranati, guardava a terra. Lo avrebbe ricordato a vita. Gli uomini ridevano e dicevano parole che non volli capire. Il mio pensiero era per quel bambino che era lì immobile, impassibile, che era rimasto solo in un mondo beffardo, la vita gli aveva tolto l’unica certezza che rimaneva in tempi bastardi, il destino lo aveva colpito alle spalle. Traditore come sempre lui. Continuai a guardare quel piccolo uomo cresciuto troppo in fretta, quando improvvisamente lo vidi stringere il pugno, e mordersi il labbro. Iniziò a correre. Scappò via. Guardò sua madre, stesa a terra in un bagno di sangue, per l’ultima volta, uno sguardo fugace e struggente, poi non lo vidi più. Anche gli uomini iniziarono a correre ma il bambino era più veloce. Sentii la necessità di andare, dovevo cercarlo e proteggerlo. Era solo come me non potevo lasciarlo in balia degli eventi. Corsi anche io, veloce, con i polmoni che quasi non riuscivano più a respirare, non
potevo fermarmi, lui aveva bisogno di me. I due militari ormai sembravano scomparsi all’orizzonte, sentivo solo il rumore dei miei passi sul terreno. Stavo per piangere, ero rabbioso, infuriato, ma immensamente impotente, davanti a una vita che mi stava dando del filo da torcere. Improvvisamente poi, mentre le mie speranze stavano svanendo, e le lacrime scendevano dagli occhi e graffiavano il mio viso, qualcosa, un suono flebile, interruppe il silenzio. Qualcuno oltre me stava piangendo. Fu lì, che lo rividi. Dietro una roccia, il bambino dalla maglietta rossa era rannicchiato su stesso, impaurito, solo, come un piccolo fiore appena sbocciato in balia di una tempesta. Rimasi in silenzio a guardarlo; percepii tutto il suo dolore, la sua disperazione e la sua paura. Non ci sono parole per descrivere quei momenti in cui il mondo sembra fermare la sua corsa, in cui l’empatia tra due esseri umani diventa un legame speciale ed unico per condividere un’emozione. Lo guardai per instanti interminabili, tremava e stringeva il pugno della mano destra, mentre con la sinistra si asciugava le lacrime che scendevano dagli occhi. Eravamo simili in fondo, due creature sole al mondo che lottavano contro un destino canzonatore, che scorre come un fiume in piena non portando pietà per nessuno. Mi avvicinai. Lo guardai. Lui mi guardò. Fu uno sguardo intenso, pieno di emozioni e di parole taciute. Allungai istintivamente la mano e gli dissi il mio nome. Aprì il pugno della mano destra, teneva un fiore, un fiore giallo, avvizzito, stanco, aveva perso la sua bellezza. -“Era per la mia mamma”- disse- e poi tacque guardando a terra, asciugandosi le lacrime. Ricordai il pezzo di pane che avevo preparato quella mattina , misi la mano in tasca, lo scartai dal fazzoletto e glie lo porsi, volevo dimostrargli che ora era un po’ meno solo. Poi presi la sua mano e lo abbracciai. Non lo conoscevo ma sentivo che aveva bisogno di me. Lo strinsi forte, lui appoggiò la sua testa sopra la mia spalla e lo sentii piangere. Lo dovevo proteggere, guardai in alto e piansi anche io. Dopo poco, il bambino dalla maglietta rossa diventò la mia famiglia. Mi raccontò la sua storia, era rimasto solo con sua madre dopo la morte del papà. Avevano viaggiato molto, dal loro piccolo villaggio, su carri, con portatori di galline, o camminando lungo strade polverose, con la paura cucita sull’animo come un segno di riconoscimento. Era Giuliano- Dalmata anche lui, gli volevo bene, era piccolo ma molto intelligente. Parlava senza mai fermarsi e, anche se con qualche difficoltà, amava la vita come tutti i bambini. Dopo averlo trovato lo portai nella mia casetta biancastra in fondo al villaggio; ma la situazione stava cambiando e quel piccolo agglomerato di case non era più sicuro.
Decisi che forse era arrivato anche per me il momento di andare, ora dovevo proteggere anche un’altra piccola creatura, che dopo tanto dolore meritava una vita migliore. Partimmo all’ alba, io e lui, il mio nuovo compagno di viaggio, verso un orizzonte nuovo, sperando in un futuro di essere felici. Come me il piccolo Bogomiro, questo era il suo nome, amava correre. Ogni tanto viaggiando, pensavo che quel destino troppo sarcastico, non a caso ci aveva fatto incontrare. Dopo il suo incontro la mia vita aveva riacquistato uno scopo: dovevo proteggerlo e assicurargli un futuro degno di lui. Percorremmo molte strade, sentieri, in quella regione tutta a rocce, avevamo una meta: dovevamo arrivare al mare, vicino la città, per imbarcarci e iniziare una nuova vita. Il mare era la nostra salvezza. Mancava qualche giorno di viaggio quando incontrammo e ci accodammo a un altro gruppo di Giuliano-Dalmati che cercava la nostra stessa meta. Era rischioso, ma sentivamo la necessità di condividere con loro la nostra strana situazione. C’erano uomini e donne, bambini e anziani, un vero e proprio esodo di persone che stavano pian piano perdendo la loro identità. I giorni passavano e la compagnia procedeva lungo i sentieri verso il mare. Sentivamo il dovere di parlare delle nostre origini del nostro popolo, di chi fossimo, così che il mondo non ci dimenticasse. Nessuno in questa terra vuole essere dimenticato, abbandonato, o calpestato ma, stava accadendo. Il nostro mondo stava cambiando senza che noi lo volessimo, ci era stata affibbiata la colpa di essere noi stessi. Soffrivamo, come soffrono tutti quelli che la storia non capisce, emargina, e lascia indietro. Eravamo quasi alla meta e qualcosa simile alla felicità ci stava invadendo. Ma chi non prova da molto tempo un’emozione, non ne ricorda neanche vagamente il sapore. Sentieri, strade, case e ricordi che come epigrafi rimarranno per sempre intatti nella mia memoria. Ricorderò il soffio del vento, l’odore dei campi e delle rocce; ricorderò come è bello correre contro il tempo e contro la Storia. La città era in lontananza, si vedeva il mare, la meta era arrivata, ero speranzoso, soddisfatto, e dopo molto tempo mi sentivo bene. Ma a volte il destino, dai combattenti che sembrano apparentemente più forti, pretende di più. Stavo correndo verso la salvezza per mano insieme con Bogomiro, avevo il dovere di assicurargli una vita migliore. Quando sentii delle urla. Non era la mia lingua. Non mi voltai, ricordi offuscati di una mattina di primavera ricomparvero difronte ai miei occhi, il mio cuore palpitava e
avevo paura. Strinsi Bogomiro e corsi più veloce che potevo, lo presi in braccio e corsi contro il destino. Il mare e la salvezza erano vicino, o almeno sembrava, capii che gli uomini in divisa mi stavano raggiungendo, lasciai il piccolo uomo e gli urlai di correre. Dovevo proteggerlo. Lo guardai mentre piangevo , lui lasciò la mia mano, si voltò e con gli occhi color carbone pieni di lacrime fece un cenno di saluto urlando: -“Addio”.
Lo lasciai andare, con il resto delle persone che erano più avanti, e mi consegnai agli uomini, meritava una vita migliore e io forse non fui in grado di dargliela.
Ora sono qui in bilico legato a una cordata di uomini dietro di me, sotto il vuoto, una gola carsica e la fine. Penso alla mia intera vita con una pistola puntata alla tempia. Non so se sentirai mai le mie parole, o se un giorno ti ricorderai di me guardando il mare, volevo regalarti un’altra vita in questa terra, mi ci vorrebbe un’ altra esistenza ,caro Bogomiro, per tenerti più lontano dalle tue grandi paure e ti eviterei certe salite, spianando le montagne, ma con me purtroppo il destino ha vinto. Con te piccolo ancora no. Ricorda di vivere per uno scopo, e senza mai fermarti contro lo scorrere di questa Storia a volte troppo crudele. Ora voglio correre, ma non posso, sento la necessità di muovere i miei piedi al ritmo delle mie palpitazioni, inizio a muovermi, accenno qualche passo ma i miei occhi sono già chiusi.