Walimu (maestri). I grandi leader africani del Novecento
A un intero continente espropriato della sua storia, queste righe vogliono rappresentare un piccolo segno di riparazione, ma anche un riconoscimento a queste figure del Novecento, maestri non solo per gli africani, ma per noi stessi, europei del XXI secolo.
Amani – 9 settembre 2011 di Pier Maria Mazzola_
Joseph Ki-Zerbo, il “professore”, così era conosciuto nel Burkina Faso. Figlio del primo cristiano dell’Alto Volta (allora il Burkina si chiamava ancora così), Ki-Zerbo, fin dai banchi di scuola, si rese conto che qualcosa non quadrava quando, interrogato, doveva ripetere che “i nostri antenati sono Galli”. Fu il primo africano abilitato, dopo la laurea alla Sorbona, all’insegnamento superiore della storia, e dedicò la sua vita intellettuale a riscrivere la storia del suo continente dalla parte degli africani, con una metodologia capace di mettere in valore delle fonti che non fossero unicamente quelle degli archivi coloniali. Autore di una fondamentale Storia dell’Africa nera (Einaudi, 1977), Ki-Zerbo è stato anche una figura chiave del comitato scientifico della monumentale Storia generale dell’Africa dell’Unesco. La storia si intreccia con la cultura. Per questo il professore si dedicò all’approfondimento di temi quali i diritti umani – al cui riguardo esiste nell’Africa tradizionale una coscienza viva, benché espressa in modi e accentuazioni diverse da quelle consegnate nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo-; la condizione della donna – con luci e ombre, a seconda dei luoghi e delle epoche -; lo sviluppo endogeno (“dormire sulla stuaia altrui, è come dormire per terra”). “Se ci corichiamo, siamo morti”, era il suo motto, posto in epigrafe al suo libro intervista con René Holenstein: A quando l’Africa? (Emi, 2005).
“Un vecchio che muore è una biblioteca che brucia”. Il proverbio d’Africa più gettonato è in realtà un adagio di Amadou Hampaté Bà, poliedrico uomo di cultura, nato a Bandiagara, nel Mali, e soprattutto ponte vivo tra la letteratura orale e la letteratura scritta. Era anche un devoto musulmano, persuaso dall’intrinseca bontà e necessità del dialogo a tutto campo, religioni comprese. Fu in forze all’Unesco per tutti gli anni Sessanta, ma il suo impegno per la valorizzazione dell’oralità, non cessò che con la sua morte , nel 1991. aveva 90 anni. Numerose le sue opere tradotte in italiano, tra le quali i due volumi autobiografici Amkoullel, il bambino fulbe e Signorsì, Comandante (Ibis, 2000 e 2006) e anche Gesù visto da un musulmano (Bollati Boringhieri, 2000).
Wangari Muta Maathai, keniana, Nobel per la pace 2004. biologa di formazione, ha fondato, oltre trent’anni fa, il Green Belt Movement, costituito in gran parte da donne. È la pioniera del movimento ecologista africano – la forma di lotta che l’ha resa celebre è quella di piantare alberi – ma si è anche esposta in prima persona nell’opposizione al regime di Daniel Arap Moi. Il suo motto continua ad essere: “Non dobbiamo stancarci, non dobbiamo cedere, dobbiamo perseverare”. È appena uscita, per Sperling & Kupfer, la sua autobiografia. Solo il vento mi piegherà.
“Quando a Cinguetti o a Timbuctù una biblioteca brucia o si disperde, è la memoria di mille vecchi che scompare”. Così, simmetricamente, glossava la celebre massima di Amadou Hampatè Bà Leopold Sédar Senghor. Andatosene ultranovantenne nel 2001, Senghor è il vate della negritudine, non intesa come arroccamento nella propria identità, riscoperta in senso positivo, ma come l’abito con cui recarsi al planetario “appuntamento del dare e del ricevere”. Ben radicato nella sua africanità e al tempo stesso profondo conoscitore della classicità, Senghor è stato il primo membro africano (1983) dell’Accademia di Francia. Era già stato il primo presidente del Senegal, e il primo in Africa a ritirarsi spontaneamente dalla sua carica. In italiano possiamo leggere: Canti d’ombra e altre poesie (Passigli, 2000).
La morte di Patrice Emery Lumumba, nel gennaio del 1961, sulla quale solo da pochi anni si è fatta piena luce, fu il culmine di una cospirazione, nel contesto della guerra fredda, tra Cia, servizi belgi e personaggi congolesi. Tra questi ultimi, Mobutu Sese Seko. Per soli sei mesi, il giovane Lumumba rimase primo ministro di un paese immenso, ma la sua personalità, la sua proiezione internazionale, il precipitare degli eventi, la sua fine atroce (dissolto nell’acido), anche i suoi ritratti fotografici, ne hanno fatto uno dei miti inossidabili dell’anticolonialismo per l’intero Terzo mondo, come si diceva allora, e non solo per il suo continente. “Noi abbiamo conosciuto le ironie, gli insulti, scudisciate e dovevamo soffrire da mattina a sera, perché eravamo negri. Chi dimenticherà che al negro si dava del tu, non come a un amico, ma perché il dare del lei era riservato ai bianchi?”, ribadì Lumumba, mentre si stava proclamando l’indipendenza. Alessandro Aruffo ha scritto Lumunba e il panafricanismo (Massari 1991).
In pochi lo sanno, ma il mwalimu (insegnante) Julius Kambarage Nyeree, che guidò il Tanzania all’indipendenza e seppe poi unificarlo con Zanzibar, dando vita alla Tanzania, è oggetto di una causa di beatificazione. La sua fede cattolica non gli impedì però – anzi in essa trovava le sue motivazioni profonde -, di difendere a testa alta l’indipendenza del suo paese, anche di fronte ai diktat delle istituzioni finanziarie internazionali. La sua celebre Dichiarazione di Arusha, lasciò nel 1967 l’esperienza del socialismo africano, radicata nella cultura africana e giocata nello spazio del non allineamento. Gli obiettivi non furono tutti raggiunti, ma furono fatti dei notevoli passi avanti, specie nel campo dell’istruzione e nella coscienza dell’unità nazionale. Personalmente Nyerere (deceduto nel 1999), ha sempre mantenuto un tenore di vita di estrema sobrietà. “Vorrei accendere una candela e metterla in cima al monte Kilimanjaro, affinché illumini, al di là delle nostre frontiere, dando speranza a quanti sono disperati, portando amore dove c’è odio e dignità sove prima c’era solo umiliazione”.
Il capitano Thomas Sankara non fa parte della generazione dei “padri dell’Africa” – assunse il potere nel 1983 – ma rimane una delle figure politiche più amate, in patria come nel resto del continente, e oltre. Inaugurò una rivoluzione, per certi versi simile a quella di Nyerere, puntando sulla dignità del suo popolo e sulle pur scarse risorse nazionali ordinate a uno sviluppo endogeno. E pretese, da sé stesso, come da tutti i dirigenti, uno stile quasi spartano. Mutò il nome del suo paese da Alto Volta in Burkina Faso: “La terra delle persone integre”. Una delle battaglie che lo resero celebre, fu contro il debito estero: “Non possiamo pagare, perché sono gli altri che hanno nei nostri confronti un debito che le più grandi ricchezze non potrebbero mai pagare, cioè il debito di sangue”. La sua rivoluzione non andò esente da errori (ne è un sintomo l’esilio di Joseph Ki-Zerbo). Sankara venne assassinato dopo quattro anni; i sospetti gravano sull’attuale presidente, suo amico fraterno. Da leggere: L’africa di Thomas Sankara di Carlo Batà (Achab,2003).
Miriam Makeba è stata la cantante africana più amata di tutti i tempi. Nata a Johannesburg nel 1932, esordì da professionista nei Manhattan Brothers, poi la costituzione di un primo gruppo di cui fu la leader indiscussa, gli Skylarks. Diviene presto popolarissima nel suo Paese, partecipando nel ’59 al memorabile musical King Kong, al fianco di altri grandi talenti emergenti, tra cui il futuro marito Hugh Madekela. Poco tempo dopo, a causa dell’inasprimento dell’apartheid, contro il quale si schiera senza esitazione, è costretta, sotto forte pressione delle autorità, a lasciare il paese. Si ferma per un po’ a Londra, ma è negli Stati Uniti che incide i suoi primi successi internazionali (tra cui il tradizionale classico africano Malaika) e dà vita ad una partnership artistica con Harry Belafonte. Nel 1960, cercando di tornare in patria per il funerale della madre, scopre che il suo passaporto è stato revocato, iniziano così 31 anni di esilio. Nel 1963 testimonia contro l’apartheid, alle Nazioni Unite e in tutta risposta il governo sudafricano le revoca la cittadinanza. L’Onu negli anni le procura nove passaporti e dieci cittadinanze onorarie in diverse nazioni. Miriam Makeba è la prima artista africana nera ad essere insignita, nel 1965, di un Grammy Awards per il disco An evening with Belafonte/Makeba, dai contenuti politici espliciti. Nel 1968 sposa l’attivista delle Black Panthers Stokely Carmichael e questo negli Stati Uniti di allora significa cancellazione dei suoi contratti discografici. La Makeba tornerà più volte in Sudafrica a partire dal 1990, invitata da Mandela, alle soglie di un cambiamento epocale. Il lascito tangibile è costituito dalle sue incisioni, oltre 35 tra album e raccolte. Registrazioni messe al bando per decenni nel suo Paese, ma che circolavano clandestinamente, portando di casa in casa il conforto della voce di Mama Africa, dell’impegno civile e della resistenza africana. È morta sul palco, mentre si esibiva a sostegno dello scrittore Roberto Saviano. “A luta continua”, come ha sempre detto.
Il Ghana ha festeggiato nel 2007, con grande pompa (eccessiva, secondo molti), i 50 anni di indipendenza. La ex Costa d’Oro, è stata la prima colonia dell’Africa sub-sahariana ad accedere alla sovranità politica, sotto la guida di Kwame Nkrumah, uomo dall’anima nettamente panafricanista. “L’indipendenza del Ghana – amava dire – non avrebbe senso, slegata dalla liberazione totale dell’Africa”. Africa Must Unite è il titolo di un suo celebre libro. Battezzò il suo paese con il nome di un antico impero africano e convocò nella capitale Accra, i leader dei movimenti di liberazione dei paesi africani, ancora in lotta per l’indipendenza. L’esercizio del potere, però, finì per deludere molti, e nel 1966 Nkrumah venne rovesciato da un colpo di stato. Gli ascoltatori africani della Bbc lo hanno, comunque, proclamato, nel 2000, “uomo del millennio”.
Leader di “Coscienza nera” e dell’Organizzazione degli studenti sudafricani (Saso), Steve Biko, venne ucciso in carcere, sotto tortura, trentatré anni fa. È uno dei martiri più amati, specialmente dai giovani della causa anti-apartheid. Memorabile la canzone di Pter Gabriel, a lui dedicata. Da vedere: Grido di libertà di Richard Attenborough (1987), con Denzel Washington nei panni di Biko.
Cheikh Anta Diop, senegalese, è “padre dell’Africa” da un punto di vista culturale. Scienziato (fondò il primo laboratorio in Africa per le datazioni al carbonio 14, ma fu anche linguista), il campo che lo rese celebre è l’egittologia. Sfidando i pregiudizi del tempo, dimostrò la radicale africanità della civiltà egizia. Da leggere: Cheikh Anta Diop e l’Africa nella storia del mondo di Pathé Diane (l’Harmattan Italia, 2002).
Non ha il rilievo continentale degli altri personaggi africani, ma Yousif Kuwa, leader poltico-militare (ma poco militaresco) dei Nuba del Sudan, rappresenta il meglio di tutte le lotte africane per il diritto di vivere – fisicamente e culturalmente – intraprese, in epoche diverse, in tante zone del continente. Da leggere: Io sono un Nuba di Renato Kizito Sesana (Sperling & Kupfer, 2004).
Anche i territori africani portoghesi, liberatisi per ultimi dalla dominazione coloniale, e solo a prezzo di sangue, hanno avuto i loro eroi. Amilcar Cabral, padre dell’indipendenza della Guinea-Bissau e di Capo Verde, fu al tempo stesso uomo d’azione e di pensiero, considerato uno dei più lucidi intellettuali africani. Agronomo, molto vicino al popolo, seppe innescare un effettivo movimento di coscientizzazione nelle “zone liberate” della Guinea portoghese. Una delle frasi che di lui si ricordano è: “Se ci sono rivendicazioni da fare o problemi da risolvere, discutiamone; niente violenza”. La lotta armata fu, per lui, l’estremo ricorso di fronte all’indisponibiltà di Lisbona al dialogo. Cabral venne ucciso prima dall’indipendenza, vittima di lotte di potere in seno al partito da lui stesso fondato, probabilmente manipolate da Lisbona e dallo stesso presidente della Guinea-Conakry, Sékou Torusé, paese nel quale Cabral si era rifugiato. Da leggere: Chia ha fatto assassinare Amilcar Cabral? Di Josè Pedro Castanheira (l’Harmattan Italia,1998).
Presentare il Nobel per la pace 1993, l’eroe africano che più di ogni altro è conosciuto e rispettato nel mondo, e fa da trai d’union tra la generazione dei leader storici e l’Africa del XXI secolo, non è affar da poco. Supplisce la sua chiara fama, e i numerosi articoli e libri scritti su di lui. Da leggere: Lungo cammino verso la libertà (Feltrinelli, 2004), l’autobiografia uscita la prima volta nel 1994, quando Nelson Mandela divenne il primo presidente nero della “nazione arcobaleno”. Ricordiamo la sua prigionia durata 27 anni – di recente rievocata dal film di Bille August Il colore della libertà -, che “Madiba” non accettò mai di abbreviare, in cambio del silenzio o di un qualsiasi compromesso. Coma ha detto di lui Graça Machel, ex first lady mozambicana: “La responsabilità storica che Mandela è stato chiamato ad assumersi è quella degli oppressi che liberano i propri oppressori. Perché l’oppresso apre le porte della propria dignità, offre dignità a chi gliel’ha tolta”.