Zygaena_Carolina Figueras Morató, Barcellona(Spagna)
_Racconto vincitore Premio Energheia Espana 2011.
Traduzione di Laura Durando
Si rimetteva ai piedi di Santa Cecilia e a volte li baciava.
Mi parve persino di averla vista, qualche volta, mentre li leccava lascivamente.
Morì l’anno scorso, ma lo ricordo come se fosse successo oggi stesso. Il ricordo stravagante, lenito e a volte ribelle, che avevo della zia Dafrosia si trasformò in un’immagine, in una sola immagine oscura, macabra e cinica, in un batter d’occhio.
Quando ero piccolo, il quartiere non lo abitava quasi nessuno; ricordo la mia infanzia come uno schizzo di acquerelli, fra strade di case bianche e finestre blu di legno, che si adattava alla perfezione ai quartieri nuovi che si trovano all’uscire dalla città. Ciò che ho ben presente ogni volta che ritorno a casa è l’odore. L’odore è dei cinque sensi quello che più rapidamente mi trasporta per le cavità del ricordo. Posso sentire un profumo per un istante e ricordare un’estate intera e nel momento in cui smetto di annusare anche il ricordo si attenua, e scompare come se non fosse mai stato presente e si risotterra nella memoria in attesa di un nuovo affioramento di luce.
Fin da bambino adoravo respirare il bosco, odorare l’aria salata che filtrava tra le montagne, e che ci fa sapere che non molto lontano abbiamo il mare. Annusare i carnosi cymbidium che fioriscono quasi senza foglie vicino ai rododendri e alle veroniche, e quei cavoli invernali già troppo spigati che si intonano con le erbe secche lanuginose al tatto, sparse per il giardino accanto. I primi narcisi cominciano a spuntare ai margini del giardino e il sole li accompagna, mite, nel gioco di sfumature tra il giallo dell’erba delle forsythie e i rosa dei primi mandorli e magnolie. È un vero peccato che sul terrazzo del piano in cui vivo, abbia giusto lo spazio per mettere un paio di vasi e che per comprarli debba chiedere i testo (1), perché altrimenti non ci starebbero.
In effetti, mi torna ancora in mente uno dei pochi ricordi che mi restano di questo luogo, quando la zia Dafrosia ci offriva, ai miei fratelli e a me, biscotti inzuppati, proprio prima di entrare in casa, dopo che avevamo passato ore a girare in bicicletta. Ricordo quando si saliva i primi tre gradini di casa sua, prima di arrivare nell’atrio, correndo in fretta, e come guaivano e scricchiolavano sotto i piedi, allo stesso modo del mulino della finestra. Era l’unica vicina a non avere fiori, soltanto un pugno di sabbia. Sulla porta c’era una zanzariera che puzzava di carne, come quando l’agnello si inacidisce, puzzava di lana bruciata. Dalla mensola della finestra si vedeva velato un soggiorno modesto, con la moquette e un ventilatore a soffitto.
Lei era la creatura più sconcertante del quartiere e dico creatura perché a volte era talmente strana da non sembrare nemmeno umana. Camminava lasciandosi cadere sgraziata, aveva la bocca storta e un sorriso maliziosamente tenero, accompagnato da alcuni ciuffi dei suoi capelli mogano che le scendevano attorno alle orecchie, acclimatati dal color miele e verde mela dei suoi occhi cristallini, modellati unicamente dalla luce solare. Andava a messa tutti i giorni e indossava spesso un ciondolo sotto il crocefisso inciso di quercia che le sporgeva da un lato del petto. Tutti quanti pensavano che fosse un ciondolo, ma io, in passato, mentre faceva la comunione, mi avvicinai moltissimo perché volevo toccarlo, ma nell’averla a pochi centimetri di distanza cambiai idea nel costatare che era un bozzolo di farfalla, avvolto e perforato dall’ago di una spilla d’argento e lì dentro qualcosa si contorceva come fosse vivo.
La mia sorpresa fu tale che saltai all’indietro di colpo e quasi mi spaccai la testa contro lo spigolo della panca. Dopo quell’incontro, durante le settimane che seguirono, vissi ossessionato da quello strano bozzolo che le pendeva tra le pieghe della camicia blu scuro, che era talmente vecchia da creare palle di felpa che sembravano appiccicartisi addosso col solo avvicinarti. Un giorno arrivai persino a convincere i miei fratelli a organizzare una futile spedizione che, più di qualcosa di serio, si convertì in uno spauracchio. Ciò nonostante ricordo che ci mettemmo tutti e tre a circondare la casa, facendo giri su giri con le biciclette finché, quando sbagliammo direzione, andammo a sbattere l’uno contro l’altro. E tornammo a casa contusi, con un bernoccolo bello grosso. Ricordo quel dolore e quelle lacrime di coccodrillo, ma nient’altro. Non se ne fece più nulla.
Eppure, di notte mi svegliavo sudato, il cuore in gola, i battiti sfrenati e quel rumore che ancora oggi mi attira; era quel suono, lo zzzsss, come un ronzio urlante, come uno scoppio perpetuo che mi penetrava, che sentivo soffiarmi dentro nel corpo, all’interno della mia testa, e lo vedevo e lo sentivo talmente dentro, che arrivai a pensare di essere io stesso a farlo, che fosse mio… maledetto rumore. Quello zzzsss che mi addormentava e mi esaltava, soggiogava tutte le mie notti e il mattino dopo mi svegliavo con le orecchie e gli occhi così tumefatti che mia madre credeva che fossi insonne, e aveva ragione, ma tutto provocato da quella febbre. Tutto per quella maledetta larva, pensavo io durante il giorno. Che stupido mi sentivo! Perciò non dissi mai niente. E passarono gli anni e ci facemmo adulti.
Qualche mese fa, chiamarono mia madre dall’ospedale per dirle che la zia Dafrosia stava morendo e, poiché non erano riusciti a localizzare i suoi famigliari, se avremmo avuto difficoltà nell’assisterla da buoni vicini quali eravamo. E noi, indubbiamente, visto che l’avevamo sempre trattata da zia, pur non essendolo: «Come no?», senza esitare, andammo all’ospedale.
Pochi fiori e una lapide pulita, i becchini neri e nemmeno un cane imberbe spelacchiato, che abbaiava e mordeva una vecchia pantofola, riuscì a conferire la riverenza che mancava nell’aria. Tutto trascorse con una normalità che faceva addormentare le oche. Recitammo dei versi e continuammo così, eravamo soli, i versi e noi. Nessun parente, nessun amico, mio padre in sedia a rotelle e mia madre che si indispose non poté essere presente. Sentì la mancanza del vocio dei bambini e del rumore delle auto, perché perlopiù in quell’ambiente si respirava solo silenzio. Era un silenzio muto che ti impediva la respirazione e la rendeva pesante. Avevo voglia di tornare, di andare a casa sua, mettergliela in ordine, aspettare il famigliare che mia madre era riuscita a localizzare e che arrivava da lontano, sedermi un attimo sul suo sofà, mettere a posto le carte e filarmela, e non tornare più, e dimenticarmi della zia Dafrosia, della sua casa, del ventilatore a soffitto appeso, di quel ronzio che come una puntura era tornato alla mia mente.
Desideravo andarmene il più lontano possibile, avevo persino voglia di viaggiare.
Niente di più lontano dalla realtà nella quale mi ritrovai.
Stava imbrunendo e il sole cominciava a tramontare. I miei due fratelli aspettavano in casa, ma io ero uscito per ammirare il tramonto del sole. Da quel momento in poi vidi solo luce; una forte raffica fece germogliare davanti a me una bellezza unica. Gli occhi le brillavano, portava i capelli legati a metà schiena e intrecciati all’indietro. La poca luce che rimaneva l’aveva rubata tutta lei. I suoi capelli rosso cinabro, la sua pelle bianca, quel sorriso piuttosto arcaico che aveva forzato nel girare la testa e guardarmi. Non riuscii a dire niente: muto.
E, di nuovo, tutta la santa notte a pensare a lei.
All’alba del giorno seguente, tornai alla casa. Mi avvicinai salendo di fretta i primi tre scalini, come quando ero bambino, sentii lo scricchiolare del legno e vidi il mulino rotto che non girava più. Ebbi paura di chiamare alla porta e che ne uscisse la vecchia Dafrosia al posto della ragazza con i capelli rossi.
Però, chiamai alla porta con tre colpi delicati, dal di sotto della vecchia zanzariera mezza rattoppata. E mi aprì lei, la ragazza con i capelli rossi e gli occhi azzurri, dalle mani di ghiaccio e la pelle bianca. All’interno la luce trapelava debolmente, era una sala da pranzo molto buia, molto fredda e strana. Mi disse di sedermi toccandomi leggermente le mani. E un’altra volta quel brivido mi invase il cuore, freddo e rosso al contempo: come un presagio di paura. Il suo nome mi turbò, qualcosa mi scosse quando mi disse che si chiamava Zygaena.
Mi guardò e si inumidì soavemente le labbra fino a mordersele.
Le risposero incandescenti e gonfie, sgorgarono il rosso e l’amore. Dentro le labbra, tra i denti, lei, cosciente dell’interesse che svegliava in me, forse per il movimento repentino dei pantaloni o per la mia ascendente inquietudine, mi ripeté molto lentamente il ronzio erotico del suo nome: ZZssy; le labbra si socchiudono e la lingua è freddamente trattenuta dai denti, le labbra sgusciano e si stirano: provocano il vuoto. Ggaa; la lingua scende e risposa aspettando l’apertura: il gong della A. Eeee; continua a riverberare in transizione fino ad arrivare all’immagine finale, la bocca è la conca, la tana della parola che pazza d’amore accoglie la sillaba e la conclude. Nnaaa; l’organo blando che schiocca contro i denti di nuovo e lo rende sonoro e alto, come la “petite mort” che segue l’orgasmo. Lei lo pronunciava così, scandendo l’andirivieni della lingua, morbida e lasciva nella vibrazione, quasi mistica, di ciascuna delle lettere del suo nome: Zygaena.
– Zygaena – ripetei di nuovo io, con meno erotismo e molta più paura. – Non avevo mai sentito il tuo nome – le dissi percependo di essere sempre più vicino alla bocca di un lupo del quale riuscivo solo a vedere gli occhi.
– È il nome di una farfalla diurna che veste di nero e scarlatto, molto velenosa, da queste parti si trova nella Dehesa del Saler.
– Scarlatto, come il colore dei tuoi capelli.
– Esatto, come i miei capelli. Vuoi bere qualcosa? Le carte le abbiamo sistemate ieri. I tuoi fratelli sono stati molto gentili a offrirsi di aiutarmi e abbiamo lasciato tutto a posto. No, non voglio niente, voglio solo guardarti. È ciò che mi sarebbe piaciuto dire, ma, invece di questo, chiesi un bicchiere d’acqua fredda del rubinetto o di non importa dove. La guardavo, ma mi evitava, era incapace di sostenere i miei occhi fissi nei suoi e lasciare che mi obbedissero. Non bevvi nemmeno un sorso, né tanto meno toccai il bicchiere. Le gocce d’acqua cadevano lungo tutto il vetro e lei le allungava con le dita e se le passava da una mano all’altra. Credo che passammo ore così, fino a che mi guardò, questa volta sì, inchiodandomi le preziose cornee in fondo alla caverna dei miei occhi e mi condusse, tenendomi per mano, verso un corridoio scuro, in una stanza intonacata, con la carta da parati mal strappata e asciugamani per terra, i cuscini granati, cardati dalla vecchiezza e dalla polvere, fino a un letto rotto senza molle.
Mi coricai, l’avevo seguita perché l’avrei seguita ovunque mi avesse portato, mi sarei addirittura buttato a capofitto in tutti i precipizi che mi avesse messo davanti. Non era dato attenuare una luce che non esisteva più: né lampadine, né tende. La finestra si apriva perché si muoveva col vento, ma io non potevo sentirlo, perché il ronzio che aveva terrorizzato la mia infanzia ora si era impossessato della mia mente, occupandola, mescolando il desiderio che mi procurava quella venere nordica, dalla pelle di ghiaccio, con una paura crescente, macabra, che mi soddisfaceva nel confrontare una bellezza come quella con una larva infestata conficcata nel collo, nel petto della sua defunta zia.
Le due immagini mi raggelavano il sangue e allo stesso tempo me lo facevano ribollire. La presi senza lasciare che finisse di togliersi i vestiti, stringendola contro il mio corpo caldo, contro quel letto di sbarre arrugginite, le infilai le dita dentro e dopo averle tolte ben umide, le leccai mentre ubriaco divoravo il suo sale. Z a gattoni, come una gattina offerente, mi spiava con la coda dell’occhio, mostrandomi la lingua. Acchiappami e sarò tua, mi diceva con una melodia contrappuntistica che mi scoppiava dentro. Deve aver visto i miei occhi di perdizione e mi afferrò per salvarmi appena in tempo, prima di cadere nel vuoto. Seduta mi guardava mentre saliva e scendeva compassata ad un ritmo ancestrale, muoveva la testa e stringeva i denti mentre pronunciava suoni gutturali.
E dall’interno della sua gola sgorgò un sospiro, uno strillo lanciato da un insetto, sputato, che battendo le ali si schiantò contro di me. Lo presi al volo e lo schiacciai come un sandwich tra le mie mani. Lei spaventata incominciò a gridare, la voce le si rompeva e la pelle d’argento le si apriva. La pelle le si levava a strisce, mutava.
I capelli rossi divennero scuri e gli occhi vitrei da sirena di mare le si incancrenivano, ridotti in granuli di sale. Mi guardò e mi sputò cicuta, come la farfalla che le dava il nome. Mentre agonizzava feci da mantide, scambiando il ruolo di maschio, e mi svuotai dentro di lei, completamente, come non avevo mai fatto prima, annullando il trauma, mangiandomelo, penetrando la piccola farfalla malata travestita da fata con le ali scarlatte.
Ridotta a insetto, la trafissi con un ago e la portai quella stessa notte al cimitero. Lì la volli gettare dentro la terra acida che copriva la sepoltura, ma il ricordo morboso di quella ragazza trasformata nell’insetto dei miei sogni, mi fece tremare e pensai di utilizzarla come il premio vinto in una partita di caccia.
La zia Dafrosia l’aveva conservata per anni nella capsula di un ciondolo inciso e solo quando la zia morì quella farfalla era resuscitata. Non potei abbandonarla nella terra appestata dai corpi dei morti; la presi con la punta dell’ago, facendo molta attenzione e quando tornai a casa la incorniciai: Zygaena è stata solo la prima preda della mia collezione.
(1) N.d.T. Sostantivo plurale per vasi, parola utilizzata soprattutto in città, nello specifico a Barcellona, qui in contrapposizione al sinonimo macetas, più diffuso nei paesi della periferia.